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Autore: Black Ice    31/05/2012    1 recensioni
Una cosa che avevo imparato, nel corso degli anni, era non fare promesse a sé stessi; l'altra invece, che arrivava di conseguenza, era l'aspettarsi l'improbabile e addirittura l'impossibile da ciò in cui si credeva. Io, che ero sempre stato convinto di avere il coltello dalla parte del manico, mi ero reso conto troppo tardi che la vita era in grado di sorprenderti e rifilarti alcune coltellate mortali, sfruttando il dolore e la sorpresa come assi nella manica. Ero un illuso, la vita vera mi faceva paura e cercavo di rifugiarmi in un porto sicuro - una persona - che mi facesse sentire protetto e invincibile.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Synyster Gates, Zacky Vengeance
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: gli Avenged Sevenfold non sono di mia proprietà, non li conosco e di conseguenza il loro carattere non corrisponde a quello reale; non voglio offendere nessuno e non scrivo con fine lucrativo; l'intera storia è stata inventata.
Le tematiche sono un po' crude, mi scuso fin da ora per chi potrebbe non gradirle.
 


"Come ci sei finito in un posto di merda come questo?"
Sdraiato sul mio letto in metallo con le mani dietro la testa, non potei fare a meno di sgranare gli occhi dalla sorpresa quando lo sentii parlare per la prima volta. Non che ci avessi pensato poi tanto - avevo altro per la testa -, ma se mai mi avessero chiesto di descrivere il mio compagno di cella avrei sorriso con le mani alzate in segno di resa uscendomene teatralmente con un: "Hey, per quanto mi ricordo c'ero solo io in quel cazzo di buco. Ma potrei non esserci neanche mai stato, capisci?"
Tutto questo ovviamente se mi fosse ancora rimasta la voglia di pensare a quel posto ed addirittura arrivare a fare il simpatico; se magari sarebbe rimasta una parte di me una volta uscito da quelle quattro mura che fosse capace di non soccombere ai ricordi.
Mi trovavo lì da due settimane e non mi ero mai posto il problema di conoscere più a fondo il mio "coinquilino" semplicemente perchè non me ne fregava un cazzo di fare nuove amicizie, né tantomeno di ascoltare le storie penose che avevano condotto la gente in quel posto da suicidio. Non erano concesse chiacchiere inutili né legami affettivi che andassero oltre l'odio profondo che si provava verso qualsiasi essere umano: l'unica cosa ammissibile era la solitudine ed io, come molti altri, mi ero ridotto a farne la mia migliore amica.
Ruotai la testa verso la figura sdraiata sull'altro letto che se ne stava a guardare il soffitto con espressione neutra. Non ci avevo mai fatto caso prima, ma in quel momento constatai che non dovevamo avere tanti anni di differenza.
"Se non si passa il tempo in qualche modo si rischia di ammazzarsi prima."
Non vedo dove stia il problema.
"Tanto vale parlare, no?"
Senza che me ne rendessi conto iniziò a dire stronzate una dietro l'altra mentre io mi limitavo a fissarlo chiedendomi da dove tirasse fuori tutta quella voglia di interagire. Qualche volta gesticolava alzando le mani verso il soffitto e faceva strane smorfie, ma per il resto continuò a restare disteso immobile a guardare il soffitto e parlare senza sosta.
"Mi chiamo Zachary, comunque. O Zacky", borbottò dopo una pausa guardando nella mia direzione.
"Brian."
Forse se lo accontento la smette di torturarmi, pensai, e magari si rende anche conto che non me ne frega un cazzo della sua vita.
"Bene, finalmente. Era ora. Hai finito le tue riserve di voce o puoi parlare ancora?"
"Senti, vaffanculo amico, okay? Non ho voglia di stare ad ascoltarti, prova con la parete."
"Otterrei di sicuro più successo, cazzo."
Il carcere non era un buon posto per farsi dei nemici, ma di quello, come di tutte le altre cose, me ne importava ben poco. La mia vita era finita da un pezzo, quello che stavo facendo ora era sopravvivere in modo meschino solo perchè avevo una paura fottuta di farla finita. Avere un buon rapporto con il mio compagno di cella - o addirittura diventarci amico - era l'ultimo dei miei pensieri.
Sentii Zacky sbuffare sonoramente e imprecare prima che si girasse su un fianco e tentasse di mettersi a dormire. Avrei dovuto ringraziare chi mi aveva messo in quella cella, perchè non sono molti i compagni di galera che non passano alle mani anche se non hanno un motivo abbastanza valido. A me era andata bene.
In ogni caso, basso com'è lo stenderei in un attimo.
Già, forse. Pensai, però, che se anche fossi stato alto il doppio mi sarei lasciato menare da chiunque ne avesse voglia, giusto per appurare che il dolore fisico non era niente in confronto a quello che sentivo dentro.
Cazzo, peggio di una ragazzina.
Chiusi gli occhi e cercai di sprofondare nel sonno come Zachary dall'altra parte della piccola stanza. Ottenni solo un parziale dormiveglia, ma mi accontentai; era da tempo che non dormivo più in modo normale.

"Allora? come ci sei finito in questo posto?"
Lo guardai per un momento e pensai che desistere non era il suo forte. Era seduto sul materasso del letto e si sorreggeva il mento con le mani, i gomiti sulle ginocchia. Mi guardava fisso, aspettandosi una risposta che sapeva che questa volta gli avrei dato. Quale caspita di problema aveva quel ragazzo?
"Sai fare solo questa domanda?"
"Quale domanda vuoi che ti faccia? Quale film hai visto al cinema ieri sera?"
"Ho fatto rissa con un tizio."
"Come mai?"
Feci spallucce. "Mi aveva provocato. Ero ubriaco marcio e ho reagito. Gli ho fatto parecchio male."
Zacky mi guardò con un sopracciglio inarcato, probabilmente e nelle migliori delle ipotesi mi stava giudicando come un coglione di prima categoria per aver risposto alle provocazioni di uno sconosciuto. Era la prima cosa su cui fare attenzione quando la propria testa era immersa nell'alcool, ma quello che non sapeva, però, era che non era andata esattamente così, quella sera.
"Oh, be'.", esclamò poi battendosi e mani sulle ginocchia e alzandosi in piedi. "Se fare questo tipo di conversazioni è l'unica cosa che ci è permessa, tanto vale che ti dica cosa ci faccio io qui."
Lo guardai di sbieco e notai i numerosi tatuaggi che gli ricoprivano le braccia lasciate scoperte dalla tuta arancione. Assentii debolmente con la testa e tornai a guardare il soffitto.
Se proprio ci tieni così tanto.
Passò quasi un minuto prima che mi resi conto che ancora non si era deciso a parlare. Quando lo guardai vidi che aveva le braccia conserte e mi fissava con un'espressione di disappunto. Era talmente ordinario quell'atteggiamento che per un momento mi venne voglia di prenderlo a pugni, solo per fargli capire che ci trovavamo in un cazzo di carcere ed era vietato - lo vietavo io - comportarsi come se facesse parte di una vita normale.
"Sei uno di quelli depressi che pensa che questo posto è la sua ultima tappa, vero?", chiese retoricamente alzando gli occhi al cielo.
"Pensa quel cazzo che vuoi."
"Certo che sì. E penso anche un sacco di altre cose, come per esempio che sei un coglione che resta a leccarsi le ferite senza reagire e che mi fa incazzare questo tuo atteggiamento da ragazzina. Non è finita qui la tua vita, sai? Ci sono un sacco di persone lì fuori che ti aspettano, quindi tira fuori le palle, cazzo."
Lo osservai guardarmi di sbieco e mi tirai sù a sedere.
"Tu non sai niente di me."
"Non parli, è ovvio che non so nulla su di te.", obbiettò lui, come se avesse tutto e tutti dalla sua parte.
"Sono forse tenuto a informarti? Fatti i cazzi tuoi e basta, Gesù santo."
Mi sdraiai per l'ennesima volta sprofondando la testa nel cuscino. Sperai che mi lasciasse in pace, d'ora in poi, o gli avrei seriamente fatto del male. Potevo sopportare tutto, dalle botte degli altri carcerati alle loro prese per il culo; persino stare immobile sul letto per delle ore non mi pesava messo a confronto con un compagno di cella che mi soffocava di domande delle quali non gli sarebbe dovuto importare un cazzo.
"È la tua ragazza, Evie?", chiese improvvisamente.
Lo guardai e notai una sfumatura di sadismo nei suoi occhi. Si divertiva a rompermi i coglioni anche se sapeva che in quel luogo più che mai aveva maggiori chance di morire. Per un momento ammirai la sua pazzia, ma la sensazione se ne andò velocemente com'era arrivata, sostituita dalla rabbia. Non me ne importava un cazzo di come sapesse il suo nome, ma non doveva nominarla.
"Stai zitto.", mormorai cercando di contenere la voglia di prenderlo a pugni.
"Uuh, tasto dolente, vero?", sputò fuori con un sorriso di scherno. Lo avrei picchiato a sangue se solo tutta quella situazione non mi avesse imposto la massima calma. Non me ne fregava niente di continuare a vivere, ma la voglia per spaccargli la faccia l'avrei trovata di sicuro.
"Non puoi andare a ripararti dietro la sua gonna, qui dentro, l'hai notato? Una volta uscito da qui puoi scommetterci che avrà scopato qualcun'altro, ti avrà sostituito mentre sei qua a disperarti per lei. Ma l'hai già salutata, giusto? Le hai già detto addio?"
"Stai zitto."
"Le donne sono tutte uguali.", continuò ignorandomi, "Credi di essere innamorato? Lei ti scaricherà non appena glielo confesserai: hanno paura di legami forti, vogliono solo essere sbattute per bene. Se poi ti spediscono in prigione non ci pensano due volte a sputarti in faccia le tue colpe.", rise amaro.
La comprensione che stava buttando fuori pensieri senza filo logico dettati dalla rabbia e dalla frustrazione non arrivò, e non mi accorsi neanche di essere arrivato a puntargli il braccio contro il collo, spingendolo contro il muro. Digrignavo i denti come un dannato contro il suo viso, esprimendo come unico desiderio di tappargli quella bocca che sputava veleno.
"Stai zitto, o giuro che ti faccio fuori."
"Non mi fai paura... faccia di cazzo."
"Parli così perchè vuoi che ti strangoli una volta per tutte. Sei solo un cazzo di cagasotto."
"Almeno... non frigno... la notte...", tossì fuori lui diventando sempre più rosso per la mancanza d'aria. Non mi importava di soffocarlo. Il mio unico pensiero era di farlo stare in silenzio, e se quello di ammazzarlo era l'unico modo ne avrei usufruito con leggerezza. Peggio di così non poteva andare.
Lo spinsi più forte contro il muro senza rendermi conto che lo stavo per soffocare veramente, guardai i suoi occhi farsi lucidi senza capire più dove mi trovavo.

"Sono stanca di vederti ubriaco la notte, Brian. Sono la tua fidanzata, non tua mamma."
"E per fortuna, no?", le risposi con un sorriso malizioso prendendola per i fianchi e attirandola a me. Era incazzata ma guardandola in faccia non riuscivo proprio a prenderla sul serio. Era così buffa.
Si liberò velocemente dalla mia stretta, lo sguardo serio e incazzato che le si addiceva così poco: "No, ascoltami. Io non ne posso più. Non voglio più metterti a letto quando non sai né intendere né volere, per di più con i lividi di qualche rissa disseminati per tutto il corpo. Non ce la faccio a continuare così. È meglio che la smetti."
"È un qualche tipo di minaccia?", feci un mezzo sorriso ironico che sparì nell'istante nel quale notai che aveva gli occhi lucidi e i denti che martoriavano inutilmente il labbro inferiore. Non le era mai piaciuto farsi vedere debole di fronte ad altre persone, ed io non rappresentavo un'eccezione; cercava di non piangere. "Evie?"
"Sto parlando seriamente, Brian, cazzo! Devi smetterla oppure dovrò...", le si incrinò la voce e puntò lo sguardo a terra incapace di dire più niente.
La guardai e vidi il mondo sgretolarsi di fronte ai miei occhi: voleva abbandonarmi. Aveva seriamente preso in considerazione l'ipotesi di lasciarmi. In quel momento nacque la consapevolezza che se si fosse convinta al cento per cento lo avrebbe fatto, mi avrebbe dimenticato; mettendo da parte il suo dolore e trasformando in fumo i nostri sette anni insieme, ma l'avrebbe fatto.
Il pensiero di vivere senza di lei mi atterrì più di qualunque altra cosa. L'abbracciai di scatto con gli occhi dilatati dalla paura e lei si premette contro la mia spalla cercando di non mettersi a piangere.
"Ti prego. Non farlo, non farlo."
"Dovrei lasciarti, Brian."
"Non dirlo. Non ce la farei, Evie, sul serio. Rimedierò, te lo prometto. La smetto da adesso, ma tu non abbandonarmi, okay?"
La cullai cercando di far sparire la paura da entrambi. Quando lei si sciolse dall'abbraccio mi accarezzò leggermente il livido sulla mia spalla con il dorso della mano. "Smettila di farti picchiare, Brian. Per favore.", sussurrò dolcemente.
"Va bene, Evie.", le mormorai, "Okay."
Lo promisi.

Mollai la presa su Zacky così in fretta che cadde a terra, massaggiandosi la gola e tossendo convulsamente. Mi allontanai da lui come se fosse infetto da qualche malattia contagiosa e tornai al mio letto, sedendomi e prendendomi la testa tra le mani.
"Che c'è?", si interruppe per tossire, "Non mi ammazzi più, ora?"
"Come sai il suo nome?"
Lui non rispose subito, respirando affannosamente per prendere tempo. Si tirò indietro i capelli che gli ricadevano sulla fronte e appoggiò la testa al muro chiudendo gli occhi. "Non fai altro che ripeterlo quando dormi.", mormorò basso. Deglutì e osservai con la coda dell'occhio il suo pomo d'Adamo che si alzava, capendo nello stesso momento che ora era tutto finito, che quella lite ormai era lontana decenni.
Restammo in silenzio per qualche minuto fino a che Zacky riaprì gli occhi, "Ero incazzato. Non dovevo dire quelle cose."
Si alzò e si sedette sul suo letto massaggiandosi ripetutamente la gola; il segno rosso che vi era impresso presto sarebbe diventato di un viola intenso prima di avere il permesso di sbiadire.
"La mia ragazza mi ha piantato quando mi hanno sbattuto qua dentro. All'inizio non pensavo che fosse una tragedia, non ho neanche... sofferto, per dirla tutta.", si grattò una guancia e sbottò in una risata amara. "È venuta da me piangendo e mi ha detto che non poteva costruire il futuro che voleva lei con una persona che andava in carcere per spaccio. Le ho riso in faccia. Ho tentato di convincerla che non era niente di grave, che con tutto il sovraffollamento di questi tempi mi avrebbero rilasciato in poco tempo. È scappata via senza ascoltare una parola.", sospirò e si passò una mano sul viso. Quando mi guardò, i suoi occhi erano freddi e asciutti, "Credo di odiarla, ora."
In verità non me ne importava niente di quello che aveva passato, di ascoltare le sue giustificazioni né tantomeno accettarle. Se Zacky credeva che confidarsi, li dentro, avrebbe portato qualche conforto aveva sbagliato persona.
Guardai il corridoio tra le sbarre e lo sentii sospirare ancora una volta.
"Almeno tu hai lei che ti aspetta fuori da qua. Sei fortunato."
Non avevo intenzione di mostrarmi amichevole o solamente aperto a dei discorsi che non lo riguardavano. Solo perchè eravamo compagni di cella non era indispensabile che diventassimo confidenti in preda a ricordi nostalgici e dolorosi, e fu per quello che non gli confidai che non era esattamente come la dipingeva lui, la mia situazione. Anzi, non lo era per niente.
Una cosa che avevo imparato, nel corso degli anni, era non fare promesse a sé stessi; l'altra invece, che arrivava di conseguenza, era l'aspettarsi l'improbabile e addirittura l'impossibile da ciò in cui si credeva. Io, che ero sempre stato convinto di avere il coltello dalla parte del manico, mi ero reso conto troppo tardi che la vita era in grado di sorprenderti e rifilarti alcune coltellate mortali, sfruttando il dolore e la sorpresa come assi nella manica. Ero un illuso, la vita vera mi faceva paura e cercavo di rifugiarmi in un porto sicuro - una persona - che mi facesse sentire protetto e invincibile. Quando quella persona era sparita non avevo più avuto la forza di aggrapparmi a qualcun'altro e mi ero lasciato trascinare sempre più giù, circondato dai ricordi e dal rimorso.
In quel momento, quando incontrai gli occhi di Zacky pronti per ascoltare le mie confessioni, capii che avrei ignorato l'istinto di sopravvivenza che mi portava a confidargli ogni cosa e a dividere un po' il peso del passato ancora una volta.
"Tutti hanno bisogno di parlare.", mi esortò Zacky, intuendo i miei pensieri.
Vero, come dargli torto. Tutti, arrivati ad un certo punto, hanno bisogno di confidarsi, perchè l'alternativa è impazzire straziati dal proprio dolore. Il bello - e questo Brian lo aveva già capito da un pezzo - è che a lui non importava semplicemente nulla di sé, e se aveva l'occasione di procurarsi un po' più di dolore prendeva la palla al balzo.
"Non io."
Gli voltai le spalle e mi sdraiai con il viso rivolto contro il muro.
La verità è che era sempre stato un dannato masochista, ed ora che la sua vita era finita non aveva più la forza né la voglia di cambiare. E non lo avrebbe fatto certo perchè glielo chiedeva Zacky.
Da quando aveva promesso a Evie di smettere con l'alcool e con le mani erano successi una serie di eventi che lo avevano portato a infrangere tutti i suoi buoni propositi, e così il senso di colpa si era fatto sentire. Forse non contava poi così tanto se aveva infranto il suo giuramento per riscattare l'altra metà di sé stesso - e questo particolare l'aveva capito troppo tardi. Forse ammazzare di botte l'uomo alla guida dell'auto che aveva investito Evie poteva considerarsi come un'eccezione alla promessa fatta, e Brian era sicuro che, se Evie fosse stata di fronte a lui, l'avrebbe capito. Forse non l'avrebbe accettato, ma almeno l'avrebbe compreso. O almeno era quello di cui Brian cercava di convincersi. Quando non si ha più alcun punto di riferimento, le speranze e le illusioni sono delle ancore a cui non si può fare a meno di aggrapparsi, ed era quello che stava cercando di fare lui.
Brian era un uomo che tentava di scappare dalla vita, ci si sarebbe potuto aspettare di tutto. Era un relitto che non possedeva più le basi da gettare per imparare a vivere un'altra volta, e a cui l'ultima promessa che aveva pronunciato era stata strappata via e distrutta dalla rabbia e dal dolore; non c'era nessuna luce, per lui, in fondo a quel tunnel.

  
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