WITHOUT YOU I’M NOTHING
[but
I didn’t know it]
A
volte succede, non si sa quale sia il motivo, non è certo se
sia colpa
di una congiunzione particolarmente avversa di stelle capricciose, del
destino
che ha gli ormoni in subbuglio e si sfoga in quel modo infame, degli
alberi che
a gennaio sono spogli come le strade di città e soffiano via
il respiro in
volute soffocanti di nebbia o semplicemente del caso, che secondo
taluni domina
il mondo e secondo tal altri è solo una stupida invenzione
con cui l’uomo tenta
di discolparsi dagli innumerevoli peccati di cui giornalmente si
macchia. A
volte succede e cercare un motivo è inutile,
perché un bambino tutto capelli e
niente carne non diventerà più socievole al
nostro trovare il motivo che lo
rende così.
Quando
a quattro anni hai un cervello notevolmente sovrasviluppato non ti
soddisfa stare con gli altri bambini. Sono tutti così
ridicolmente interessati
al sapore della sabbia, al colore dei pennarelli sulla pelle, alle code
di
lucertola che si agitano in mezzo ai prati di fine estate. Dalle
lucertole andrebbe
imparata l’arte dell’abbandono e della rinascita,
ché a volte bisogna
strapparsi di dosso la parte inutile e imbarazzante di sé, e
attenzione a non
strapparsi via tutto, che spesso l’imbarazzo e
l’inutilità sono ugualmente estesi
in tutto l’infausto essere umano, tanto poi la fastidiosa
protuberanza ricresce
e persino più grande. Ma torniamo alla sabbia e ai colori e
alla morte dell’estate
tra l’erba, dacché la precedente riflessione
è nostra e non certo sua, sua di
chi, di quel bambino tutto ricci e occhi di vetro, con una mente
brillante e
disinteressata ai voli pindarici quali quello appena compiuto.
Dicevamo
che si sentiva insopportabilmente annoiato e fuori posto come
un cucchiaino da tè al Polo Sud, lo sanno tutti che al Polo
Sud il tè diventa
ghiaccio nel percorso infinito tra la tazza e la bocca del quasi
certamente
inglese, così affezionato al suo rituale pomeridiano, ma
sempre di divagazioni
si tratta e noi vogliamo invece conoscere quel piccolo Sherlock Holmes,
adesso
morto insieme a tutti i finti morti del mondo, c’è
chi lo fa per evadere il
fisco, chi per eludere un’amante oppressiva, persino chi
muore per vedere
quanti e quali colleghi si presenteranno al funerale, celebrazione
riuscitissima,
impeccabile, che se il parroco avesse avuto un po’ di capelli
in più sarebbe
sembrato quell’attore del cinema famoso, roba di cui la gente
parlerà per
settimane. Sherlock Holmes non è nato morto per finta, un
giorno sicuramente lo
sarà davvero ma siamo ben lontani da
quell’infausto triste momento,
indicativamente una trentina d’anni in anticipo, che il
ritardo lo lasceremo ai
posteri come le ardue sentenze.
Se
solo riuscissimo a liberarci di questi pensieri collaterali, ci
accorgeremmo
che quel bambino bianco riempie le guance di aria e di noia, le svuota,
le
riempie, ha già scoperto tutte le bugie dei suoi piccoli
compagni. Lo dicono
scontroso perché non parla quasi mai, e se apre bocca
è per colpire la
chiassosa e ben nutrita platea con osservazioni che qualche voce divina
deve
avergli suggerito, perché non è umanamente
possibile una tale capacità di
eloquio, fluida, arguta, propria di chi ha trascorso almeno tre anni in
impegnativi studi classici. Per questo forse, perché
sentirlo è sconcertante quanto
vedere l’acqua sgorgare dagli alberi, hanno smesso di
chiedergli la parola.
Suggeriscono alla madre che forse ha una strana forma d’autismo,
forse una
disabilità leggera che si correggerà con il
tempo. La verità è che è
più comodo
un invalido che un genio.
Crescendo
le cose non sono cambiate molto, hanno continuato a trascinarsi
con l’inerzia tipica del tempo nelle sue fasi più
pigre, che poi talvolta
si rende conto della propria inesorabile lentezza, e allora accelera e
dipinge
peli di qua, cattivi umori di là, in un battito di ciglia
l’adolescenza è fatta
ed è tutto un marasma di odori e umidità di mente
e di corpo. Sherlock Holmes è
l’immensità chiusa in un paio di occhi fatti
d’aria, che forse a soffiarci
sopra s’increspano, chissà, bisognerebbe
informarsi se mai qualcuno ci ha
provato, potrebbe fornircene testimonianza, descrivere con dovizia di
particolari quante onde si sono formate nelle sue pupille liquide,
ché è
risaputo che l’aria può diventare acqua in un
alito di vento, e tornare
impalpabile in uno sbadiglio. Ha le ossa lunghe come quei legni
levigati dal
mare, bianchi di carezze spumose, ma Sherlock Holmes di carezze non ne
ha ricevute,
forse quello è il cuore della pelle che con un coltellino
svizzero si è
scorticato, come il sambuco morbido e chiaro che sta dentro alla scorza
indurita. Con gli zigomi e quelle ossa sporgenti è andato di
tanto in tanto a
sbattere, ad aprire ferite nel sorriso di qualcun altro, sempre troppo
stupido
e troppo noioso per catturare veramente la sua attenzione. Non
è che non
sapesse avere rapporti con le persone, conosceva esattamente quali
muscoli
azionare per dispiegare un sorriso sul volto, sapeva persino quali dita
plasmare
in una stretta di mano, ma la questione non gli era di particolare
gradimento.
Con il sesso era pressoché uguale, il pizzicore fastidioso
che gli picchiettava
il corpo era ignorato per la maggior parte del tempo, di rado si
concedeva con
uno sbuffo le natiche chiare di qualche stolto imbecille, in genere di
molto
più grande di lui. Questi anni in più potevano
essere direttamente
proporzionali alle attenzione che il padre gli aveva negato, uno
studioso
Freudiano potrebbe certo dirlo, non che c’interessi, per
carità, si fa per
parlare, per scrivere, anzi.
Aveva
uno strano rapporto con le persone. Lo annoiavano, certo, erano
mortalmente stupide e banali, certo, ovvie fino
all’esasperazione, giusto, ma
ne aveva bisogno. Un attore è un buon attore se il pubblico
si spella le mani
applaudendolo. Un premio nobel è tale se una giuria di
occhialuti vecchietti gli
assegna l’omonimo premio, appunto. Entrambi devono avere
talento e la dose di
pazzia necessaria allo sviluppo della sovra citata dote, ma senza un
riconoscimento esterno non sono nessuno. Come qualcuno che grida. Se
nessuno lo
sente, è come se non avesse gridato affatto. Per questo
motivo Sherlock Holmes,
l’ormai adolescente scorbutico Sherlock Holmes, sopportava,
pur sbuffando e
lagnandosi e rompendo i coglioni a destra e a manca,
l’ottusità diffusa come
una piaga tra il genere umano, purché il suddetto genere
umano spalancasse la
bocca e sgranasse gli occhi e gli concedesse preziosi minuti di
attenzione,
perché dopo un poco è noioso fare le deduzioni
più argute e brillanti se il
solo ad ascoltarti è il salice secco del giardino. Il tempo
a cui abbiamo già
accennato qualche
paragrafo fa, potrebbero
essere due o forse addirittura re, ha continuato la solita lenta solfa,
ha
mordicchiato un po’ qua, ha deteriorato un po’
là, ha fatto un cenno fastidioso
al Processo di Decomposizione perché continuasse nel suo
meticoloso compito, da
svolgere trecentosessantacinque giorni nessuno escluso, le ferie non
sono
concesse e tantomeno i permessi per malattia, deve essere un mestiere
faticoso
quello della Decomposizione, però frutta bene, ossa e cenere
per tutti gli usi,
di tutti i tipi, e per arrotondare esiste il mercato nero, che in
qualche modo
aiuta sempre. Prima di perderci su pericoloso speculazioni riguardanti
mestieri
che non ci è dato svolgere, poiché ad altri
riservati, accennavamo a come quel
tempo abbia continuato a camminare, generalmente lento, talvolta
più veloce, ma
sempre con un passo ammirevole, ché mai si ferma, e la
stanchezza deve essere tanta,
che mai si è sentito di un motel che ha ospitato il tempo.
Per un genio che
cercava un pubblico sono poi arrivati gli anni migliori, quelli dei
trenta per
intenderci, che non è un mistero l’arrivo del buon
ispettore, forse con la voce
un po’ troppo rauca e gli occhi un po’ troppo
stupiti un po’ troppo spesso, ma
alla fine un buon uomo, mica si può riassumere bene e male
di una persona nella
voce e negli occhi, bisognerebbe intraprendere ardui studi riguardo
alle
corrispondenze vita – forma, e non inteso come le pensava un
certo girgentino
dell’Italia ormai passata, ma inteso come correlazioni intime
tra qualità
interiori di un uomo e suo aspetto fisico. Era stata poi la volta di
una
candida signorina ben piantata in obitorio, che passava ore a
canticchiare
mentre i morti l’ascoltavano, che loro almeno non
interrompono con smorfie
antipatiche da gente viva, non sono maleducati e soprattutto isterici
come la
gente là sul pianeta terra, che a furia di correre e correre
si dimentica anche
del proprio nome, chissà che gambe lunghe ha il tempo, se
l’uomo non riesce a
stargli dietro per quanto quello sia lento tanto così,
costante, ma lento. Lei
era una di quelle che gli piacevano di più, parlava un
po’ troppo ma lo faceva
sorridere, non nel vero senso della parola, diciamo più
sorridere internamente,
quella sensazione che alle persone normali, mamma che brutto termine,
normali,
è una parola che vuol dire tutto e non vuol dire niente, chi
è normale, cosa,
chi lo decide chi e cosa sono normali, non vuol dire proprio niente,
meno di
zero. Comunque
dicevamo che quella
giovane donna con le ciglia lunghe e le labbra sottili lo fa sorridere
internamente, gli fa sbocciare dentro una sensazione che potremmo quasi
chiamare tenerezza, in mancanza di termine migliore, perché
bisogna ammettere
che il dizionario non è sufficiente, non sa modellarsi alla
lingua del
parlante, non si scioglie, in certe situazioni, nella maniera adatta, e
non
sempre la colpa è di colui che scrive o declama, ma del
grande libro delle
parole, E chi ne è l’inventore, mi chiederete, e
vi risponderò L’uomo, appunto,
emblema dell’imperfezione e dunque imperfetto inventore egli
stesso, chissà che
sia stato il Signore a custodire geloso le parole migliori, adatte solo
a lui,
divinità sintattiche proibite come mele dell’Eden.
Abbiamo dedicato righe e
righe a questa ragazza, e non ne abbiamo detto praticamente nulla,
anche se non
è necessario sperticarsi in descrizioni, ognuno la
immaginerà come meglio gli
aggrada, l’essenziale è stato detto, e
cioè che Sherlock Holmes sorride
internamente quando con il broncio di sempre e l’alterigia di
sempre la informa
di come Tizio ha ucciso Caio che è morto per una muffa
comunissima che viene
usata per fare il Roquefort piuttosto che un farmaco andato a male come
aveva
ipotizzato quel cretino della scientifica. Come poteva la gente non
accorgersi di
una cosa talmente evidente, Io boh, non capisco.
La
vera rivoluzione, e non ci riferiamo a quella francese, a quella
industriale e tantomeno a quella solare, che lo Sherlock Holmes di cui
sopra
non sa neppure cosa sia, o forse lo sa, nei doppifondi di un cassetto
dimenticato, ma non gli interessa affatto, la vera rivoluzione,
dicevamo, è un
John Watson che un giorno ha deciso di volere un appartamento a
metà, cioè, di
volerlo tutto ma condiviso, ed è finito in un obitorio con
un ciccione, un
arrogante e un morto. Difficile dire con chi si trovasse meglio
all’inizio,
forse col morto. Poi è successo uno strano procedimento,
potremmo dire ancora
che il dizionario non ha abbastanza parole, o che ne ha troppe ma
nessuna è
adatta, anche se forse è solo per negligenza
dell’autore che la successiva descrizione
mancherà in efficienza, ecco, già ha sbagliato,
voleva dire efficacia e invece
si è distratto, cercherò di farlo essere
più concentrato, più sveglio. Quello
che è successo è che il genio ha trovato il suo
pubblico migliore, una platea
sconfinata seduta ordinatamente in un paio di occhi profondi, profondi
davvero
per farci entrare una folla così di gente, a contarli si
perderebbe il filo,
sarebbe lo stesso a contare le stelle, vi basti sapere che John Watson
negli
occhi aveva una moltitudine di uomini e donne e sorrisi, sospesi a un
bel paio
di zigomi taglienti, al loro alzarsi e abbassarsi in concerto a due
labbra,
gonfie di parole agganciate l’un l’altra, lanciate
come missili di svizzera
fattura, precisi, distruttivi, dritti nel petto di quel medico con la
mente
zoppa. La gamba no, la gamba stava bene, ma vallo a dire ad un cervello
che
somatizza e pretende di appoggiarsi a un bastone perché
forse non ha mai
trovato qualcuno a cui poggiarsi veramente. La verità
dell’affermazione appena terminata
è facilmente rintracciabile nei mesi a seguire, noi parliamo
al passato ma
sappiamo quel che già è accaduto, abbiamo
già visto quel Watson aggrapparsi a
qualcosa, non più un bastone, ma carne e sangue, poco sangue
forse, carenza di globuli
rossi, anemia chissà, il medico è lui, dovrebbe
dircelo il dottore, ma seppur
carne e sangue sono pochi, il cervello è smisurato e ce
n’è a sufficienza,
anche lì ci si può appoggiare, e il dottore
così ha fatto, si è adagiato sulla
morbidezza di una mente che avrebbe spazio per
l’umanità intera, e che di quel
mucchio di gente vuole una sola, precisa persona, un soldato fresco
fresco di
congedo.
Il
genio ha trovato un pubblico e lo storpio ha trovato un bastone,
entrambi
hanno trovato un appartamento e diviso un cuore a metà. Il
genio ora è davvero
tale e lo storpio ha riavuto la gamba. Il genio acquista
visibilità e lo
storpio contribuisce all’illuminazione. Il genio si annoia e
il cattivo è
arrivato. Il cattivo ha trovato il suo pubblico geniale e in quanto
tale
diventa egli stesso genio. Il genio si porta via il cattivo che smette
di esser
genio e porta via il genio con sé.
Il dottore torna storpio e il genio è nessuno. Nessuno tornerà, lo storpio rimarrà storpio. Il genio rimarrà nessuno.
Partecipa allo Sherlothon (team fanon) con il prompt
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