Camminavo
al buio. Ma non ne
ero sicura. Forse ero io ferma ed era il mondo che proseguiva sotto i
miei
piedi. Le gambe andavano e nemmeno sapevo dove, guidate
dall’eterna voglia di
fuggire con il mio inseparabile eastpack grigio sulle spalle. Ma da
cosa? Non
lo sapevo. Volevo andarmene dal buio di quella casa che ora mai era
solo capace
di essere troppo stretta. Quelle pareti intrise di profumo di lavanda e
quei
tappeti consumati dall’età erano solo un piccolo
modo della vita di ricordarmi
chi ero. Un modo orribile per chi avrebbe voluto cambiare tutto. Fin
dall’inizio sapevo che non andavo bene, ero sbagliata. Ma
allo stesso tempo
speravo che il tempo avrebbe aggiustato le situazioni e che in fondo
anche io
sarei riuscita ad accettare le cose così come stavano.
Invece il tempo non ha
fatto altro che opprimere la mia follia. Volevo essere libera ma in
quella casa
c’era quell’odore acre di regole, di un passato
difficile da dimenticare
trascorso giocando con una bambola di ceramica pregiata sotto
all’acero del mio
giardino. Quell’acero che non faceva mai neanche un fiore.
Era il modo in cui
mi ricordava il tempo del liceo: trascorso seduta su
un’altalena nel parco
della scuola ad ascoltare le canzoni dei Beatles pensando a quanto
fosse bella
la libertà. L’odore della solitudine dei miei
vestitini a fiori e dei capelli
sempre in ordine con quei boccoli lucidi e con la frangetta perfetta
color
mogano. E adesso mi trovavo sul marciapiede di via Torino, con le
scarpe
consumate dai ciottoli di quella strada percorsa ormai troppe volte.
Le mie
inseparabili Vans, comprate di nascosto su internet per rimpiazzare gli
stivali
firmati che mi comprava mia madre, mi accompagnavano in ogni mio
viaggio
insieme ai jeans chiari consumati dal tempo. Tanto stretti come la mia
anima
rinchiusa dentro di me dalla razionalità. E urlava, urlava e
urlava ancora più
forte stringendo tra le mani vaporose quelle sbarre maledette. Era
proprio
quello l’abbigliamento che odiava mia madre; ed ogni volta
che mi vedeva
vestita così scuoteva
lentamente il capo
delusa. Su di me gravava un freddo umido che nemmeno l’enorme
felpa a scacchi
che indossavo riusciva a fermare. E non c’era solo i freddo che era fuori.
Così, inevitabilmente, i
brividi raggiunsero la schiena e mi corsero lungo tutto il corpo fino
all’estremità
dei capelli rossi scompigliati e legati con un laccio trovato nel
cassetto
appena prima di uscire. I mie capelli, che di stare apposto proprio non
ne
volevano sapere. Li ritenevo un emblema di me stessa. Un emblema di chi
non si
voleva piegare come un fuscello debole, ma lottava come il ferro
ghiacciato.
Che
senso aveva camminare ancora così tanto? Dove volevo
arrivare? Lontano, credo,
più lontano possibile. Ma il viaggio valeva la meta? No, non
credo.