La notte mangia i colori, ma te li restituisce, liquidi e
inafferrabili, come profumi.
Sirius ansima e cerca il cielo oltre la cupola nerastra della
foresta.
Le stelle gli hanno dato le spalle. Barbagli filamentosi
ricordano sudari stracciati e puzzano ancora di neve.
L’odore della morte e della paura, tuttavia, è mille volte
più forte.
Sirius affonda il muso nella terra grassa. È la prima cosa
che ha fatto come ha lasciato Azkaban, ma a Harry non l’ha mai detto: tanto non
capirebbe.
Da ragazzo pensi che la libertà sia una fuga sino ai confini
del mondo; da adulto, sai che il mondo non ha confini e che allora tanto vale
cercare dentro di sé, dove i limiti non esistono.
Da adulto, libertà è guardare il cielo e sentirselo addosso.
Mocciosus ha la vista lunga, ringhia con un misto di
ammirazione e risentimento.
Le tracce sono fresche e pesanti.
Chiunque sia quel ragazzino, il lupo dovrà mordere per primo.
Sirius accelera il passo; elastico e potente divora il
sottobosco alle spalle di una fiera sconosciuta. Secondo Piton, non può che
essere un Thestral. Di quei poveri asini senza carne, tuttavia, l’invisibile
nemico vuole il sangue.
Il conto non torna.
Sirius rallenta: l’odore è forte da stordire, perché in
natura non c’è nulla che puzzi quanto la paura. È il testamento di chi si
prepara alla morte, in fondo.
I testamenti hanno un senso solo se si fanno leggere.
Se non è un Thestral, cosa può mai essere?
La risposta arriva come raggiunge il sentiero: la bestia ha
già guadagnato il centro della piana; terrorizzati, i Thestral mostrano le fauci
scheletrite e proteggono i cuccioli sotto membrane da drago.
Sono bestie bruttissime e generose, pensa Sirius, perché
offrono a molti il beneficio d’ignorarne l’aspetto. Come la morte, però, sono
ovunque e, ad avere un buon udito, potresti udirne il rapido frullar d’ali.
La fiera libera un brontolio costante. Sirius si muove cauto
e ne cerca il fianco. Sinistra, brilla la quadrella di Fiorenzo.
Ci mancava solo il centauro, pensa, e scopre le zanne. La
freccia è un punto di luce immobile nella tenebra; per i suoi occhi da cane,
tuttavia, l’oscurità è ancora un abito confortevole.
La bestia ringhia e si volge a guardarlo. I suoi movimenti,
lenti e circospetti, trasudano sicurezza e forza.
I gatti non mi sono mai piaciuti e qualcosa mi dice che non
mi aiuterai a cambiare idea.
Il sarcasmo è una buona risorsa, quando non sai come
muoverti, ma Sirius possiede l’intelligenza della paura e il coraggio della
disperazione: deve affrontarlo con l’incoscienza dello scommettitore fortunato o
non porterà la pelle a casa.
Una pelle che non vale niente, eppure vale tutto.
Avanti, micio… Avanti…
Il leopardo è una molla di carne che gli scatta addosso. Gli
artigli affilati stracciano l’aria a un niente dal suo muso ma Felpato è un
vecchio cane scaltro, e lo scarta con una rapidità che sorprende la fiera.
Non credere che sia poi così facile ferirmi, bello.
Tu non immagini nemmeno che morso mi abbia già allungato la
Vita.
Fiorenzo, immobile al lato della piana, li fissa con i suoi
occhi ultramundi. I centauri credono che il cielo sia un interlocutore più degno
degli uomini: fiammelle esauste nel nero, le stelle non tradiscono, non cambiano
mai e brillano in eterno.
Gli esseri umani, invece, sono acqua e scivolano via con
ignobile facilità: si consumano, si spengono e ti lasciano al buio.
No, non accadrà di nuovo.
Il leopardo torna alla carica e mira alla giugulare.
Il lupo ne anticipa lo slancio schiacciandosi a terra e, dal
basso, lo colpisce alla gola.
La bestia ricade sul fianco, stordita. Un mugolio flebile, da
gattino appena nato, raggiunge il suo orecchio, ma non lo intenerisce, perché la
salvezza passa anche per il castigo: ci sono piaghe che puoi curare solo
tagliando, diceva il vecchio capitano che l’ha adottato, e Buck bello
ha avuto l’intelligenza di imparare la lezione.
Il leopardo recupera una posizione d’attacco ma Sirius ha
fretta di chiudere il conto e lo previene; a mordere è questa volta un grosso
cane nero, e all’avversario spetta l’onta della difesa.
Forza, gattino… Fammi vedere di che pasta sei fatto…
Lo aggredisce di fianco, puntando alla collottola. Il
leopardo se lo scrolla di dosso con energia e quasi gli cava un occhio.
Sirius non sente più la paura: solo il freddo della notte e
il profumo della guerra.
Li ha sognati tanto a lungo che persino un’esecuzione
annunciata sa di liberazione.
È alla vita, d’altra parte, la condanna più dura.
La bestia gli è di nuovo addosso, muscoli-carne-macchina da
guerra.
Sirius fida nella celebre durezza della sua testa calda e
asseconda il cozzo. L’impatto è terribile, ma non basta a fermare un vecchio
combattente: come il leopardo accenna a rialzarsi, affonda nel garretto sin
quasi a sentire lo schianto dell’osso.
Fiorenzo ripone il dardo nella faretra e dà loro le spalle,
mentre un pianto sommesso sostituisce il ringhiare sordo della fiera: ai
centauri non interessano i bambini, né vecchi pirati sotto pelle di cane.
Tanto meglio, pensa Sirius. Non ho bisogno di
testimoni.
“Te la sei cercata,” dice asciutto, e recupera una postura
eretta.
Ai suoi piedi, Florian Von Kessel è un grumo di dolore.
“E ti consiglio di guardarmi bene in faccia, quando ti parlo.
Mocciosus tiene alle buone maniere, benché quei capellacci unti
suggeriscano il contrario. Io, no.”
Il ragazzo prova a sollevarsi, ma la gamba ferita non lo
sostiene e crolla giù. Uno ‘Scheiße’ soffocato muore nella notte,
anticipando una nuova tempesta di singhiozzi.
Meraviglioso, oh, meraviglioso.
“Piangi perché ti ho fatto la bua? Perdonami,
tesoro della mamma, ma a giocare con il fuoco…”
Florian stringe i denti e inghiotte l’umiliazione a capo
chino.
Sirius vorrebbe dirgli che l’orgoglio è veleno, ma ha il
buonsenso di ricordare com’era quando aveva la sua età e lottava per non perdere
una maschera di scellerata invincibilità: a quattordici, quindici anni conta
quel che gli altri vedono, non quanto dorme sotto la pelle; eppure è proprio lei
a dire chi sei, sopra e sotto.
“Smettila di frignare come una ragazzina,” sibila; poi lo
afferra per un braccio e lo costringe a rialzarsi. “Adesso vieni con me e non
inventarti che non riesci a camminare, perché non avrai sconti. E se ti farà
male, tanto meglio: imparerai qualcosa.”
Florian annuisce, docile e rassegnato.
Tra le fronde che oscurano il cielo, fa capolino una stella –
una sola. Non è per loro, tuttavia, e Sirius lo sa: non esiste una luce
abbastanza forte da rischiarare dentro; là riposi solo, in compagnia degli
incubi e dei mostri che hai nutrito di te, finché ai sogni non è rimasto più
niente.
***
Viktor non dice nulla, né muove un passo.
Gli è bastata un’occhiata a disperdere un nugolo di vipere e
ad ammazzarle il coraggio in gola.
Doveva dare retta a Ron e cogliere il guerriero oltre la
timidezza del ragazzo, perché la lezione di carattere che ha appena ricevuto fa
più male di uno schiaffo.
Mi hai tradito e umiliato davanti a un’intera Scuola, ma
l’onestà salva sempre: ecco cosa suggeriscono occhi tanto neri da riflettere
una povera idiota sconfitta mille volte.
Quella meschina illusa di Hermione Granger.
“Grazie, ma so cavarmela da sola,” mormora a mezza bocca,
ingrata perché ferita da un’arma che taglia mille volte più del disprezzo – la
pietà.
Non vuole la compassione di Viktor.
Non vuole la sua comprensione.
Vuole un filtro che cancelli il tempo e la restituisca ai
suoi giorni d’oro, quando si accontentava dell’affetto maldestro di un paio
d’occhi blu.
“Lo so.”
“Tanto meglio, perché…”
La sua voce trema. La presa di Krum attorno al suo polso,
invece, è ferma – e dolorosa.
“Mi dispiace.”
Hermione annaspa come uno stupido pesce in secca.
“Io sapeva che Draco gioca sporco, pero non ha fermato lui.”
“Non spettava a te.”
“Invece sì.”
Per la prima volta da che si sono incontrati, Viktor le parla
senza arrossire e senza temere i tranelli di una lingua che, sulle sue labbra,
somiglia sempre a un grugnito.
Forse perché sa che la sostanza è quella che conta.
Forse perché ha capito che Hermione Granger non vale il
disturbo di un turbamento adolescenziale.
“Senti… Per come la vedo, non dovresti nemmeno rivolgermi la
parola. Mi sono comportata da stupida e, cosa ancora peggiore, da vigliacca. Non
ho pensato a quel che stavo facendo e, se devo pagarne le conseguenze, be’… Mi
sta bene. Me lo sono meritato.”
Mitraglia una confessione maldestra senza quasi prendere
fiato, Hermione, e non riesce comunque a provare sollievo, perché quindici anni
sono un’età imperdonabile: non scusi gli altri, né te stesso.
A quindici anni commetti errori per il gusto di farlo e ti
manca l’esperienza per capire che sì: cadere è il prezzo della libertà e della
vita.
Davanti al bivio – Viktor o Draco? – Hermione ha scelto male
e questo, all’improvviso, la fa sentire irrecuperabile e sporca.
Io sono intelligente, dunque non posso sbagliare: non è
questo che ripete da che ha memoria?
Be’, signorina-so-tutto, è un’idiozia: sbaglia proprio
chi ha la capacità d’intravedere un’alternativa; agli scemi, a quelli che si
accontentano dell’ovvio, non capita mai di smarrirsi, perché difettano di
fantasia.
Viktor sorride in modo impercettibile ed è quasi bello,
malgrado il naso da rapace e il viso spigoloso: è bello com’è bella la verità,
quando scopri che l’amore della vita non dura un’ora.
“Io non parla bene la tua lingua, ma per te lo fa sempre
volentieri.”
Hermione vorrebbe piangere di sollievo e gratitudine e
incredulità; vorrebbe tendergli la mano e dirgli: ‘Grazie, Viktor. Grazie
perché ci sei e per come sei.’
Se fosse Lavanda, almeno, lo farebbe senz’altro e sarebbe di
nuovo pulita e fiera di se stessa.
Poiché è solo Hermione Granger, secchiona odiosa, imbranata
cronica, sognatrice fallita, tutto quello che le esce è un borbottio striminzito
sulla lezione che l’aspetta e il ritardo che non può concedersi.
Come l’occasione d’essere felice, le ricorda una vocina
dimessa.
Come la possibilità d’imparare a vivere davvero, lontana
dalla carta e dalla polvere.
***
“Eccotelo, il tuo Mannstier o come diavolo si chiamano
certi mostri!”
Su Hogwarts albeggia: un’aurora luminosa, che vira dal lilla
all’arancio. Di quei toni, tuttavia, Florian non coglie che un’ombra diluita
dalle lacrime.
“Modera le parole, stupido cane.”
“Be’, lo stupido cane, come lo chiami tu, ha rischiato
la coda non più tardi di un’ora fa!”
Lo spaventapasseri dal cuore di lupo lo stringe al collo e lo
costringe a sollevare il capo. Esangue e privo d’espressione, il volto di Piton
ricorda più che mai una maschera di cera.
“Questo non è né il momento né il luogo per discuterne,”
articola con freddezza il pozionista, prima di volgersi all’altro. “Sempre che
tu non voglia annunciare all’intera Hogwarts la tua sgradevole presenza.”
“Questi mesi in tua compagnia, Mocciosus, sono stati
una condanna sufficiente,” è la laconica replica, prima che uno strattone deciso
lo costringa a riprendere la marcia.
“Zoppica.”
“È un taglietto.”
“Non mi pare.”
“D’accordo, potrei avergli spezzato uno stinco ma questo
cocco di casa mirava all’osso del collo.”
“Se non avessi bisogno di tutto l’aiuto possibile, credimi,
approverei.”
Florian stringe i denti e non emette un fiato: parlano di
lui, ma è quasi non ci fosse. È così che il mondo si diverte a umiliarti: da
soggetto, ti trasforma in oggetto della conversazione.
Non è la prima volta che accade, né sarà l’ultima, si dice.
Una grossa lacrima cade giù, brucia sulla pelle e avvelena,
amara, la lingua: il sapore della disfatta.
“Ci siamo. Potete sedervi, se lo desiderate.”
La voce di Piton lo strappa al dormiveglia confuso nel quale
è precipitato. Florian sbatte le palpebre e realizza con lentezza la più
scontata delle evidenze: è nel lugubre e spartano alloggio del pozionista. Il
suo aggressore, appoggiato allo stipite della porta, è una gargolla ostile.
“Sto bene.”
Le parole escono da sole, prive di nerbo. La paura ha
inghiottito il dolore e cancellato le ore.
Gli sembra di vederli, mille grani anarchici, scivolare via
da una clessidra sventrata: se era il controllo che cercava, ha smarrito quel
poco che possedeva – sulla vita, sulla Storia, su se stesso.
Severus Piton lo fissa scettico e allontana la sedia dallo
scrittoio. “Sedetevi,” ripete.
È un ordine.
“Quante inutili cerimonie,” sbadiglia il suo aggressore,
prima di avvicinarsi.
Florian non muove un muscolo.
“Insomma… Cosa saresti, tu?”
Nel viso scavato, gli occhi chiari brillano febbrili.
O è un pazzo o è un assassino, pensa Florian.
Non sa che, in un mondo corrotto, la peggiore follia è
l’innocenza, e quello è Sirius Black: l’agnello sull’altare sbagliato.
“Fatti da parte, cane.”
“Oh, no… Non sei tu che…”
“Ti ho detto di lasciarlo in pace.”
Lo spaventapasseri crudele solleva i palmi e scuote il capo.
“Comunque tengo a dire che non hai capito un bel niente, Mocciosus…
Questo stupido non è un Thestral, ma un grosso gatto rabbioso.”
Florian abbassa il capo, per sottrarsi allo sguardo del
pozionista. È abituato a pensare la propria nascita come un crimine di sangue –
e nessuno, a meno di non essere un imbecille, esibirebbe con leggerezza la prova
di un omicidio.
“Dice il vero, signor Von Kessel?”
“Dice il vero… Ma sentitelo, il corvaccio! Se ti ho
detto che…”
“A cuccia, Black: le tue lagne non interessano a…”
“Sì.”
È un assenso tanto flebile che fatica a udirlo per primo.
“Sì, non sono un Thestral.”
Il suo aggressore sogghigna. “Hai visto?”
Piton lo zittisce; poi, senza tradire particolare turbamento,
gli s’inginocchia davanti.
“Eppure siete un Von Kessel, non è vero?”
“Sono l’ultimo nato. Ho consumato il sangue,” bisbiglia.
È la prima volta che lo confessa ad alta voce – e fa male.
“Non capisco.”
“Mia madre era una Wittgenstein. Io perpetuerò la sua
famiglia.”
“E i Wittocosi sono grossi gatti affamati… Come
abbiamo fatto a non arrivarci da soli, eh?” esala sarcastico Black.
Il pozionista lo lascia dire, perché torturarlo con l’acume
del suo sguardo – è evidente – gli interessa molto di più.
È un interrogatorio muto, questa volta: una prova di forza
che lo lascia stremato.
“A quale linea di sangue appartengono i Wittgenstein?”
“Panthera pardus, signore.”
“Allora immagino che uccidere l’unicorno vi sia stato molto
facile.”
Florian non replica, poiché questa non è una vera domanda,
quanto una constatazione.
Sì, uccidere è stato facile, come non lo è mai dimenticare.
“E ci avrebbe riprovato, il gattino… A suo rischio e
pericolo, poi, perché Fiorenzo era già pronto a farlo fuori.”
Severus Piton si rialza con un evidente moto di disappunto.
“Non eravate soli?”
Black si stringe nelle spalle. “Dopo la finaccia
dell’unicorno, vuoi che gli abitanti della Foresta non abbiano preso le loro
cautele?”
Il pozionista sospira. “E sia… Per nostra
fortuna, i centauri non sono chiacchieroni.”
Florian appare sempre più disorientato; non sa cosa lo
aspetta, né perché la condanna si faccia attendere: hanno le prove per
inchiodarlo a un’inemendabile colpa, ma preferiscono battibeccare come una
vecchia coppia di coniugi delusi.
“Cosa sarà di me?” domanda.
Piton, inespressivo, si volge di nuovo a guardarlo. “Ora
andate in infermeria: se vi faranno domande, direte d’essere stato aggredito da
una fiera della Foresta Proibita, mentre vi esercitavate in riva al lago. Qui
tutti sanno delle abitudini di Durmstrang e la vostra versione non solleverà
pericolose indagini. Nel pomeriggio di domani, tuttavia, vi farò visita e avremo
modo di parlare più a lungo.”
Florian si rialza a fatica e annuisce.
La rassegnazione è quasi un sollievo; non deve più decidere,
né scappare: per quanto desolante, la certezza di aver perso resta al momento il
suo unico punto fermo.
“E vi darò qualche lezione per proteggervi dal Signore
Oscuro.”
Gli occhi del pozionista, fissi sul suo avambraccio sinistro,
hanno l’eloquenza dei silenzi implacabili.
“Grattarlo è inutile, signor Von Kessel: esistono
maledizioni che non si accontentano di consumare la pelle.”