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Autore: Satomi    07/06/2012    3 recensioni
[Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - What if? -]
Una storia č un mazzo di carte, un susseguirsi di personaggi e situazioni: c’č chi osa, chi resta sul sicuro, chi si scopre all’ultimo, chi tende a restare nell’ombra.
Per cambiare una storia non serve stravolgerne l’inizio e la fine.
Basta rimescolare le carte in tavola.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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6. Corrispondenze

 


Nora sospirò. “Sei un caso disperato, figgetta”  disse abbassando la camiciola della figlia fin sotto le ginocchia; non era la prima volta che la scopriva a dormire gambe all’aria, causa quell’indumento ormai troppo corto per lei; ma da un mese era ai ferri corti colla sua sarta di fiducia e lei stessa non ci aveva mai saputo fare con ago e filo, come non mancava di ricordarle il consorte quand’era di pessimo umore.
Sol non si accorse delle mani che, materne ma frettolose, la sistemavano meglio sul giaciglio; quella notte il suo sonno era più profondo del solito. “Ha fatto effetto” si disse la donna, pensando all’infuso che lei stessa aveva fatto quella sera, una tazza per la figlia e una pel marito che russava sommessamente a pochi metri di distanza. Sorrise per un attimo al ricordo di Perez che gli si abbandonava al fianco: non era la prima volta che gli preparava qualcosa per dormire meglio, ma mai la dose era stata tanto concentrata.
Non posso permettere che si svegli e si accorga della mia assenza; non questa notte.
Le erbe che aveva usate, per fortuna, non lasciavano al risveglio il benché minimo segno di ottundimento, e non avrebbe dovuto giustificarsi. Fece leva sulle ginocchia per alzarsi, la mano che correva sul viso della figlia in un’ultima, pacata carezza; appariva sereno, quasi sorridente, e Nora avrebbe fatto di tutto per conservarlo tale il più a lungo possibile.
Il tempo di avvolgersi nel mantello, raccogliere la bisaccia e uscì, impaziente di raggiungere chi l’attendeva.

*


“Il bicchiere o la bottiglia?”
“Il bicchiere, signor conte. Una piccola dose, ma se l’avesse vuotato tutto...” e accennò all’oggetto ancora semipieno nella mano di Carmaux, “avrebbe fatto effetto prima.”
“Non importa.”
“Ha minacciato di bastonarmi, quando si sveglia.” Il signore di Ventimiglia non riuscì a trattenere un sorriso, mentre sfilava il bicchiere dalle dita ormai inerti del marinaio; assieme a Ch’ulel riuscì a stenderlo sulla sua branda senza troppo sforzo. “È ancora provato per via delle ferite, e non solo” disse con un sospiro. “Tentava di tranquillizzarmi e sostenermi sebbene fosse teso quanto me, se non di più.”
“In effetti neanche voi avete una bella cera, signore.” Il conte prese mentalmente nota di non assumere alcun tipo di liquido nelle successive ore; se Ch’ulel gli era fedele, era anche vero che non lo considerava affatto il suo padrone, e la sua concezione di “favore” era alquanto elastica. Dormire era l’ultima cosa che desiderava, in quel momento.
“Resta con lui” disse all’indio.
“Devo proprio?”
“Hai timore di qualche colpo di bastone?”
“Affatto, signor conte, ma non vorrei provocargli un brutto risveglio colla mia presenza: nei primi attimi potrebbe accusarmi di avergli sgranocchiate le falangi nel sonno.” Un’occhiata del gentiluomo fece capire all’indigeno che non era proprio il caso d’ischerzare, in quel frangente.

Quando l’ex-Corsaro tornò in coperta, si avvide di una figura alta e slanciata che gli correva subito incontro. “Sei già tornato, Enrico” disse. “Hai sistemate le cose col tuo equipaggio?”
“Vi dirò, zio, non sono entusiasti all’idea di restare colle mani in mano quando infurierà la battaglia.” Il conte di Ventimiglia strinse con forza i pugni. “Sei già convinto che l’ambasciata di Honorata sia stata del tutto inutile?” domandò, secco.
“Come lo siete voi” replicò il nipote, facendolo sussultare. “Se quel conte ha anche un solo briciolo dello spirito del duca fiammingo, non cederà alle nostre richieste, anche a costo di sacrificare Maracaibo.”
“Eppure hai taciuto quando mia moglie espose la sua idea a Morgan.”
“La zia appariva decisa a tutto, e chi ero io per fermarla? D’altronde sono convinto, come lei, che il governatore la lascerà tornare sana e salva; il sangue, zio, è un richiamo irresistibile.”
“O una maledizione?” si chiese amaro il conte di Ventimiglia. “Perché è questo che si sta rivelando per Jolanda.”
“Non addossatevi colpe che non avete. La responsabilità va all’irruenza di mia cugina e alla follia d’un uomo che vi odia; e io, signore...” E a quelle parole gli occhi di Enrico s’accesero di quella furia giovanile che tanto gli era propria, “farò di tutto per strappargli Jolanda. Sono anch’io un Ventimiglia, e non mi mostrerò da meno di mio padre.”
“Che finì la sua esistenza su una forca” completò amaro l’ex-Corsaro. “Lui non avrebbe mai voluto che ripercorressi la sua strada, come non lo voglio io.”
“Zio” riprese il figlio del Corsaro Rosso, “vi ho promesso che non avrei lanciata allo sbaraglio la Nuova Castiglia  perché occorre che la zia sia tenuta al sicuro e lontano dalla battaglia; ma non chiedetemi di restarne fuori, perché non lo farete neanche voi.”
“Credi che mi sorrida l’idea di tornare a combattere sotto quel nome che ho accettato per anni, pur odiandolo ogni istante?” L’indice del conte picchiò con un piccolo tonfo sordo sul petto del nipote. “Renderò conto a Dio delle mie scellerate azioni quando sarà il momento, ma non ne andrò mai fiero.” E il gentiluomo si sporse oltre la fiancata della nuova Folgore, lasciando che il vento notturno e carico di salsedine gli portasse un po’ di sollievo.
Enrico affiancò lo zio, e mai come in quel momento i due apparvero tanto simili, nella posa come nei lineamenti; a differenziarli solo i piccoli ma significativi segni nella vecchiaia, presenti in uno e ancora dormienti nell’altro.
“Voi avevate giurato.” Quella grave affermazione fece abbattere un pugno rabbioso sul legno della fiancata. “E che io sia maledetto per questo!” scattò il conte di Ventimiglia. “Dio avrebbe dovuto fulminarmi ogniqualvolta ho osato chiamarlo in causa per le mie follie!”
“Zio...”
“Giurai di vendicare a ogni costo mio fratello assassinato a tradimento, vagando per oltre dieci anni pei mari come fuorilegge e perdendo gli altri due. Giurai di distruggere la famiglia di Wan Guld, e per questo sacrificai la mia amata alla furia d’una tempesta. Prima di partire, ho giurato a Bianca che...” Si fermò e strinse le labbra, come se si fosse fatto scappare un pensiero di troppo. “Ancora non ho imparata la mia lezione” concluse amaramente. E ripensò alle parole accorate che Carmaux gli aveva rivolte poche ore prima, in privato, quando entrambi s’erano decisi a non fissar più l’orizzonte in febbrile attesa d’una risposta che avrebbe tardato a giungere.
Non giurate più, mio capitano. L’ultima volta vi si è spezzato il cuore, per questo, e ora... e aveva taciuto, guardandolo fisso con quei suoi occhi tristi, ma non ancora abbattuti. E lui aveva capito: quello sguardo diceva non promettete qualcosa che potreste non mantenere.
E una volta di più, si era sentito impotente.
 

                                                                                                                               *

El Moro s’affrettò a trattenere Kato pel collo della camicia sbrindellata che indossava, prima che inciampasse su una pietra sporgente della strada. “Fa’ attenzione” gli soffiò all’orecchio, e ottenne uno sbuffo seccato. “Eh, io non ho i vostri occhi di gatto, señor, abbiate pazienza; potreste anche accendere una torcia.”
“Per farci notare dalle guardie?”
“Come se non fossimo già vistosi abbastanza” replicò lo schiavo, riprendendo a camminare nell’oscurità. “L’amico qui non è propriamente invisibile.” E indicò il negro più anziano accanto a lui, che portava qualcosa di grosso e pesante.
“Bah! Uno schiavo con un peso indosso non è da temere.”
“E se...”
“Taci, o ti taglio la lingua.” Kato, per timore verso il tenente che non era uomo di minacciare invano o perché temeva che li scoprissero, preferì obbedire; il suo amico invece appariva molto più taciturno, gli occhi bassi e fissi sulla strada. Di rado un qualche gemito gli sfuggiva dalle labbra, quando si raccomodava meglio il sacco sulla spalla larga e robusta.
“Aspetta” ordinò El Moro, riparandosi all’angolo di un vicolo e prontamente imitato dai due schiavi. La via era deserta e l’oscurità così fitta che non si vedeva a oltre trenta passi di distanza. “Tu” fece all’indirizzo di Kato. “Tornatene a palazzo.”
“Solo?”
“Sì, lui viene con me, mi serve per portare il corpo.”
“E se domandassero...”
“Lui, al contrario di te, è un mio schiavo che ho avuto la bontà di cedere temporaneamente a palazzo, dato che uno dei vostri è morto e gli altri due si sono ammalati; dunque ho il diritto di servirmene per essere scortato.”
“Come se ne aveste bisogno” borbottò Kato, gettando un’occhiata obliqua alla cintura dell’ufficiale, che reggeva spada e pistola.
“Va’, ora.”
“Prima il mio compenso. Non v’ho aiutato a recuperare quel cadavere per nulla” replicò l’altro agguantando l’ufficiale per un polso, ma non ebbe il tempo di aggiungere ulteriori parole: una stretta robusta lo inchiodò al muro, un braccio a bloccargli il collo. “Non osare toccarmi, sporco negro” minacciò El Moro, prima di cacciargli qualcosa in tasca. “E bada di non fare parola di questo con alcuno, o mi occuperò personalmente di te.”
Kato, seppur intimorito, non seppe trattenere un sorriso di scherno. “Non vi appartengo.”
“Pagherò il tuo misero prezzo a chi di dovere, allora. E adesso vattene.”
Lo schiavo più anziano non aveva mostrato il benché minimo interesse per quell’alterco: conosceva il suo padrone e sapeva che non sarebbe andato oltre le minacce verbali; a dispetto del suo orgoglio di nobile, non era uomo da accoppare qualcuno senza che ve ne fosse davvero bisogno. Preferì dunque puntare gli occhi sulla via deserta, che ben presto non fu più tale.
“Eccola.”
“Ne sei certo?” domandò El Moro, ma occorse poco per capire che lo schiavo aveva ragione: la voce grave ridotta a un bisbiglio e il lieve aroma di zenzero non potevano che appartenere a Nora Perez.
“Ho fatto più in fretta che ho potuto” disse la donna, riprendendo fiato; doveva aver fatta una bella corsa fin lì. “L’avete?”
“Sì, e sta massacrando la spalla del mio schiavo” rispose con uno sbuffo l’ufficiale. “Dovremmo sbrigarci.”
“Sta bene, seguitemi.”
“Un momento” la fermò El Moro, d’improvviso insospettito. “La foresta è dalla parte opposta.”
“Siamo in tre e potremmo esser scorti dalle pattuglie; non possiamo lasciare la città.”
“Dunque siamo diretti a casa vostra?”
“No, non saprei dove nasconderlo e come giustificare la cosa a mio marito.”
“Allora dove, por Dios?”

Nora stirò le labbra in un lieve sorriso. “Andiamo, Javier” mormorò. “Vostra madre ci attende.”
La guaritrice aveva ben saputo approfittare dello stupore del giovane per riprendere il cammino, seguito dalla schiavo che portava con sé il corpo di Wan Stiller. Peccato che la tregua non durò più d’un minuto. “Avete coinvolta anche lei!” scattò a mezza voce El Moro. “Senza farne parola con me!”
“Immaginavo la vostra reazione.”
“Non avreste dovuto, perché non ne avevate il diritto!”
“Lei ha accettato senza remore d’aiutarmi. D’altronde, Javier, non dimenticate che è  lei ad esser in debito con me, più di voi.”
“E voi siete ben lieta d’approfittarne ad ogni occasione” sibilò l’ufficiale.
“Stimo vostra madre abbastanza da evitare di coinvolgerla nei miei impicci, se non lo impongono le circostanze” replicò Nora. “Una marchesa rispettata, la cui famiglia per generazioni...”
“...ha fornito uomini che sono stati di lustro al Paese, vi prego, basta mio padre ad ammorbarmi con tali storie.”
“Appunto; la dimora d’una donna di tale prestigio è l’ultimo posto ove i soldati verrebbero a ficcare il naso, sempre che si preoccupino della sparizione d’un cadavere. Ora hanno ben altro di cui occuparsi, se non vado errato.”
El Moro scosse il capo. “Siete una strega davvero, voi.”
“Oh no, solo una donna che ragiona.” Nora sospirò. “Che sarebbe la medesima cosa, in fondo.”
Pur parlando il gruppo curò di non rallentare il passo, e presto giunse in un quartiere ben diverso da quello che s’erano lasciati alle spalle: non vi erano più modeste abitazioni borghesi, ma ville in robusta muratura e circondate da ampi giardini; Nora si sentì giungere agli orecchi il fruscio familiare delle foglie di palma, mentre il profumo dei gelsomini notturni le solleticava le nari.
“Deve essere Jalisco” mormorò lo schiavo, scorgendo un uomo dinanzi all’unico cancello aperto della via; la fiamma della sua bugia non era che un puntolino arancione nel denso manto scuro che li avvolgeva tutti. “La padrona vi attende” disse semplicemente, la luce che evidenziava la larga fessura lasciata dagli incisivi mancanti e scivolava liquida sulla pelle ramigna.
“Presto!” E Nora riprese a correre, facendo crepitare la ghiaia del selciato sotto i piedi; sapeva di essere al sicuro, ma l’ansia accumulatasi durante il tragitto stentava ad abbandonarla. Come anticipato da Jalisco, sulla soglia della villa trovò la padrona di casa, avvolta in una lunga veste da camera dai riflessi rosati; ai fianchi, due schiave mulatte sorreggevano un candeliere ciascuna. “Vi hanno seguito?” domandò la signora quando le si fermò dinanzi.
“Non credo, ce ne saremmo accorti.”
“Molto bene. Seguite Jalisco sul retro, sa dove condurvi.”
“Marchesa, io...” E Nora chinò il capo in segno di rispetto. “...non potrò mai ringraziarvi abbastanza.” La donna, ormai sulle soglie dei cinquant’anni ma la cui bellezza non era ancora sfiorita, scosse piano il capo. “Voi mi avete salvata la vita, riuscendo lì dove altri medici più titolati e meno esperti fallirono” disse con semplicità. “E questo non potrò mai dimenticarlo.” Alzò il mento verso Jalisco e il vecchio schiavo che percorrevano a grandi passi il giardino. “Ora andate, penserò io a Javier.”
Nora non se lo fece ripetere e, dopo un breve inchino, volse le spalle alla marchesa per raggiungere i due uomini. “Mi occupo io del resto” sentì che lo schiavo più anziano diceva a Jalisco, prima di posare in terra il corpo di Wan Stiller. Ansimava vistosamente. “Hai forzato troppo” constatò la guaritrice, notandone la pelle madida di sudore alla luce della bugia che il mulatto le aveva lasciato. “Bah! Qualche istante e riprenderò il fiato” replicò lo schiavo prima di fissarla: doveva essersi accorto del sorriso che le era spuntato in volto, inconsapevolmente. “Ebbene?” chiese, un po’ piccato.
“Nulla” fece Nora. “Pensavo solo che... non è la prima volta, per te.”
“Cosa?”
“Che porti sulle spalle un filibustiere per mezza Maracaibo, intendo.”
Il negro fece una smorfia. “Il Corsaro Rosso era più leggero” replicò, massaggiandosi la spalla dolorante.
“E tu avevi diciott’anni di meno.”
“Anche quello.”
Nora decise d’aiutare lo schiavo a trasportare l’amburghese, ma la sua schiena non era d’accordo e prese a protestare non appena ebbe provato a sollevarlo. L’uomo rise, mettendo in mostra la dentatura insolitamente affilata. “Sarò anche invecchiato, ma resto ancora un gigante” fece, liberando la donna dal peso. “Un gigante color carbone, come mi chiamavano i compari bianchi.” Sospirò tristemente, le braccia che si chiudevano con insolita gentilezza attorno al corpo di quello che, un tempo, era stato suo amico e compagno di molteplici scorrerie.
Nora portò una mano al capo e sciolse con un gesto deciso la folta capigliatura castana. Aveva ancora tante cose da fare, poco tempo a disposizione e un solo, vero aiutante su cui fare affidamento. Più della marchesa, più dello stesso El Moro.

Alla luce soffusa dei candelieri il volto della marchesa, seduta su un sofà di velluto, appariva segnato. “Siete stanca, madre” disse con voce pacata El Moro. “Dovreste tornare a letto.”
“Lo farò quanto prima” rispose lei con un sorriso, mentre la mano correva a stringere i lembi della veste da camera; l’altra s’affrettò a richiamare con un gesto una delle mulatte. “Di’ a Jalisco di accompagnare Eleonora, quando tornerà a casa; non mi fido a lasciarla andar sola di notte.”
“Oserei dire che lei stessa sia una creatura notturna” fece con un brivido la serva.
“Almeno dinanzi a me risparmia simili considerazioni” replicò la marchesa, secca, facendo sussultare la donna. “Perdonatemi, padrona, io non...”
“Sei ancora qui? Va’ e non perder tempo.” Non appena la mulatta ebbe lasciato il salottino, la nobildonna sospirò pesantemente. “Già so le voci che circolano su quella povera donna” disse.
“Che sarebbe ancora per strada col suo consorte se non fosse stato per voi” replicò El Moro.
“Era il minimo che potessi fare, avendomi lei strappata alla morte.”
“E credete di non aver ancora estinto il vostro debito?” Il tono velatamente polemico del giovane ufficiale fece irritare la marchesa, che fu rapida a rispondere: “Ho i miei motivi per volerla aiutare ancora una volta.”
“Madre, se vi è una cosa che detesto è l’essere usato, e lo stesso vale per voi. Credevo d’esser l’unico coinvolto nella faccenda, e invece scopro che non solo quella donna si è consultata con voi senza avvertirmi, ma ha anche preso accordi con quel vecchio schiavo.”
“Moko?”
“Lui. Andrebbe frustato, ha dimostrato uno spirito d’iniziativa che quelli come lui non dovrebbero avere.” El Moro sbuffò seccato, come se l’atteggiamento assai poco consono dello schiavo l’offendesse personalmente. “Non avreste mai dovuto acquistare un cimarron.”
“Ha buone doti e una stazza che molti nostri vicini ci invidiano.”
“Utile per lavorare nelle piantagioni, non già per servire una nobildonna di città.”
“L’averlo usato a palazzo ha dati i suoi frutti, non puoi negarlo” fece con un sorriso la marchesa. L’ufficiale non rispose, preferendo rigirarsi tra le dita un pregiato sigaro cubano preso da una scatola che sua madre soleva tenere sul tavolino intarsiato, per offrirne ai suoi ospiti; tuttavia non dava segno di volerlo accendere. “A proposito di questo, madre” riprese, “ritengo sia giusto che...”
“No, Javier.”
El Moro  trattenne a stento la frustrazione. “Non potete rischiare di farvi sorprendere da quei diavoli di filibustieri! Vi rendete conto del rischio che correte?”
“Non ho nessuna intenzione di scappare e di lasciare le mie proprietà in balia dei saccheggiatori” replicò con fierezza la marchesa. “L’oro e i preziosi sono al sicuro; quanto alla villa, è solida e potrà sostenere un assedio.” Una mano s’allungò a stringere quella del figlio. “Mi chiedi di fuggire quando tu resterai qui, a mettere in gioco la tua vita?”
“Sono un soldato, madre.”
“Per volere di tuo padre” replicò lei con amarezza. “Avrei mille volte preferito saperti in convento.”
“Per farmi fucilare dai nostri stessi compatriotti, come a Portobello, quando quei frati furono usati da Morgan come scudo lungo le mura?” fece El Moro, la voce che trasudava disgusto. “Grazie, ma preferisco morire colla spada in pugno, anziché col rosario.”
La marchesa sorrise ancora, seppur con amarezza. “Un giorno sarei andata fiera del tuo orgoglio.”
“Un giorno?”
“Sì, quando ancora ero giovane e amavo percorrere la sala dei ritratti, rimembrando le gesta di ciascuno dei nostri antenati. Ma ora, figlio mio, mi basta ammirare il tuo, di volto, e desiderare di rivederlo qui, dinanzi ai miei occhi, non su una tela destinata a corrodersi nel tempo.”
Sulle gote scure del giovane ufficiale, ancora imberbi come quelle d’un ragazzo, apparve un lieve rossore. “Madre...” mormorò compunto, mentre lei si alzava per posargli affettuosamente le mani sulle spalle. “La nostra patria necessita di valorosi.”
“Ma non di stupidi.”
“Credevo aveste una maggiore considerazione di me.”
“Oh, non credere che non l’abbia” fece la marchesa, piccata, prima di rispondere con un sorriso ironico: “Ma il mio prediletto resta Tulio.”
“Chissà perché lo immaginavo” fece l’ufficiale, stando al gioco. “Ora, però, non è il momento di pensare al mio sanguigno fratello maggiore, bensì a un uomo che può arrecarci altrettanti fastidi.”
“Parli di quel disgraziato che Nora ha salvato dalla forca?”
“Abbiamo prese le dovute precauzioni, ma se si accorgessero della scomparsa del suo cadavere e quel chiacchierone d’un negro, quel Kato, si facesse scappare qualcosa...”
“Non oseranno incolpare un rampollo d’antica famiglia quale sei tu” replicò la marchesa. “A me preme che il nostro coinvolgimento nella faccenda giunga alle orecchie d’un altro uomo.”
El Moro aveva ormai compreso il pericoloso gioco di sua madre: se gli stessi filibustieri fossero venuti a sapere che lei s’era prodigata per sottrarre al capestro uno di loro, l’avrebbero lasciata in pace. “E su chi contate per far giungere la voce agli orecchi giusti?”
“Anche in questo frangente Moko potrà esserci molto utile.”
“Speriamo allora che la pozione di Nora abbia funzionato” disse El Moro. “Sarebbe meglio restituire a Morgan un filibustiere malconcio, piuttosto che un morto.”
“Non mi riferivo a lui, Javier” replicò piano la marchesa.
“No? E a chi?”
“Al Corsaro Nero.”

Nora passò il dorso della mano sulla fronte umida di sudore. “Passami l’altro secchio” ordinò al vecchio schiavo che l’assisteva, lì nel piccolo capanno adibito all’uso della servitù; fu presto esaudita, ritrovandosi un recipiente colmo di acqua limpida in cui tuffò senza esitare la spugna. Non aveva idea del tempo trascorso da quando s’era inginocchiata da molto, tuttavia le rotule cominciavano a protestare, e non solo quelle; stirò la schiena, per dare un po’ di sollievo ai muscoli indolenziti.
“Continuo io, se volete.”
“Non importa.” La donna riprese a strofinare le membra insanguinate dell’amburghese, con una foga dovuta in parte al nervosismo; si impose di rilassarsi, mentre raccoglieva una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Il corpo steso accanto a lei era stato accuratamente spogliato e i vestiti, ormai ridotti a cenci irrecuperabili, gettati nel focolare che gli schiavi usavano per cuocersi i pasti. Il colorito della pelle era terreo, appena violaceo sulle labbra.
“Sembra morto davvero.”
Nora guardò di sottecchi lo schiavo. “Sembra?” fece, quasi stupita. L’altro incrociò le braccia, gli occhi d’ossidiana che la fissavano indagatori. “Avreste rischiato così tanto per ucciderlo voi stessa?” domandò.
“Meglio per mano mia che appiccato ed esposto come un pubblico trofeo.”
“Davvero? Conosco le vostre abilità in fatto di erbe, infusi e veleni.”
“Perché le condividi.”
“Non sono abile quanto voi, ma me ne intendo abbastanza.” Nora fece cadere la spugna e si lasciò andare contro il muro alle sue spalle, come se le forze le fossero state d’improvviso prosciugate; le mani strinsero il capo, febbrili, a mettere in mostra la debolezza fisica e mentale della donna. “Potrei averlo ucciso davvero, Moko” mormorò. “Il veleno che ho usato può esser retto da un uomo adulto e robusto, ma... guardalo!” E indicò tremante il corpo le cui ferite erano state accuratamente suturate e bendate. “È stato torturato, affamato...”
“So che il signor Javier, dietro vostro ordine, riuscì a passargli del cibo di nascosto.”
“Potrebbe non essere bastato.” Nora si passò con forza una mano sul volto, gli occhi che riacquistavano la precedente sicurezza. “Se entro l’alba non avrà mostrato segni vitali, allora potrò dire d’aver ampiamente contribuito alla sua fine.”
“In caso contrario?”
“Assistilo, possibilmente aiutato da qualcuno.”
“Jalisco è uomo fidato.”
“Allora quando il sole sarà alto verrai in piazza, secondo gli accordi.” La voce di Nora assunse una sfumatura severa. “Non ti rimangerai la promessa, nevvero?”
“Quando Moko promette, mantiene.” E lo schiavo africano si mostrò quasi triste nel pronunciare quelle parole; non era la prima volta, in fondo. “Tornate a casa” disse poi, una volta che si fu riscosso dal fluire di ricordi ormai lontani. “Se vi mostrerete troppo stanca al mattino, vostro marito potrebbe insospettirsi.”
“Bah!” fece lei con un’alzata di spalle. “Lo scoprirà, prima o poi. Ma ciò che mi preme maggiormente è che lui e Sol escano incolumi dalla battaglia che presto si scatenerà qui; ho conosciuto i filibustieri della Tortue, e so di cosa sono capaci.” Il suo tono era neutro, privo di odio o rabbia, mentre la mano si posava sul capo di Wan Stiller. “Sono più radi di quanto ricordassi” disse in un sussurro, mentre faceva scivolare le dita tra i capelli che fuoriuscivano dalla benda. “Anche se non hanno perduto il loro colore; d’altronde, son passati dodici anni.” Quando alzò lo sguardo, si avvide di Moko che la fissava con maggiore attenzione. “Non gli somiglia molto” disse lo schiavo.
“Chi?”
“Vostra figlia.”
 

*


Da un po’ di tempo a quella parte il ritmo di battuta era diventato più incostante e faticoso; per Chtilali, rannicchiata a prua accanto alla sua padrona, non fu difficile accorgersi anche del respiro affannoso del marinaio, delle sue spalle che a ogni minuto tremavano maggiormente. E sì che aveva sentito parlare del valore dei filibustieri nel remo, inferiore solo a quella della sua gente.
“Anf.” A un gemito più sonoro del solito la contessa di Ventimiglia non resse più e alzò il capo, gli occhi finalmente liberi da quel velo di apatia e tristezza che li aveva coperti nelle ultime ore; non aveva chiuso occhio, povera signora. “Basta così” intimò mentre giungeva dinanzi al marinaio. “Avete remato tutta la notte e siete a pezzi. Volete farvi scoppiare il cuore?”
“Ma... signora... se non... il capitano Morgan deve sapere...”
“E lo saprà, non ne dubitate; ma sono già morti otto dei suoi marinai, non ho intenzione di condurgli il cadavere del nono prima che ancora sia iniziata la battaglia. Chtilali” ordinò poi alla schiava. “So che sei in grado di condurre questo canotto; lasciamo che questo pover’uomo riacquisti le forze.”
“Sì, padrona.” E l’india prese senza indugio il posto del filibustiere che, a dispetto delle proteste, non era poi così contrario a concedersi un po’ di riposo. Di solito era Ch’ulel a condurre la barca quando accompagnavano il cavaliere Enrico, la signorina Jolanda e la signorina Bianca sul Nervia, per permettere al primo di andare a caccia di anitre e alle seconde di godersi un pomeriggio di quiete, lontano dal protocollo di palazzo che la condizione sociale imponeva loro; ma suo fratello le aveva insegnato molte cose, compresa l’arte del remo in cui i suoi antenati erano maestri.
Dietro di lei, sentì il filibustiere lasciarsi cadere sul fondo della scialuppa. “Solo qualche minuto... signora contessa...”
“Quanto vi occorre, Riley.” La voce della sua signora tremava; certo si sentiva in colpa per la sorta di quei disgraziati che, a quell’ora, stavano già penzolando dai rispettivi capestri. Non le era stato neanche permesso di vedere la figlia, e sì che a quel governatore non sarebbe costato nulla; non avere alcun riguardo verso una sua parente, che crudeltà inutile. “Povera signora” pensò Chtilali mentre tendeva i muscoli e inarcava la schiena all’indietro. E povera anche la signorina Bianca, che era stata lasciata a dei parenti e certo a quell’ora stava crucciandosi per la sorella, cui voleva un gran bene. Suo padre, il signor conte, le aveva giurato di ricondurre la figlia maggiore sana e salva ma, a giudicare dalla piega presa dagli eventi, Chtilali cominciava a dubitare che le cose si sarebbero risolte bene.
 

*


Nora aprì gli occhi con un grumo di pensieri a bollirgli il capo e l’impressione di aver dormito per un paio di decadi, da come si sentiva le membra pesanti. S’era occupata di Wan Stiller il più possibile, prima che Moko la costringesse praticamente a levare le tende e con altrettanto zelo, dietro ordine della marchesa, la facesse scortare da Jalisco fin sulla porta di casa. Era tornata che Perez e Sol dormivano dalla grossa, grazie al Cielo, e lei stessa era crollata a dispetto delle preoccupazioni.
Un colpetto sulla spalla la svegliò del tutto. “Buon Dio, marito, potreste anche sbrigare le vostre faccende da...” S’interruppe nel vedere accanto a lei Sol, che la fissava col capo inclinato e una banana sbucciata in mano; benedetta bambina, ne avesse avuta la possibilità avrebbe mangiato a tutte le ore. Girandosi, s’accorse che il giaciglio dalla parte del consorte era vuoto... e freddo. Un sospetto la fece trasalire. Ma che ore sono? La luce che veniva dalla piccola finestra era fin troppo eloquente. Non aveva dormito due decadi, ma buona parte della mattinata sì! E perché il marito non l’aveva svegliata? “Sol! Dov’è tuo padre?”
“Al mercato.” La piccola ben sapeva che la madre, quando domandava, pretendeva risposte verbali e non gesti.
“E perché non mi ha svegliato?”
“Ha detto ch’eravate agitata e tremavate, perciò ha voluto lasciarvi nel letto.” La ragazzina masticò rapida un boccone, guardandola fisso. “State bene, madre?” Ma la donna non le dava più retta, presa com’era a correre da una parte all’altra della casa a raccogliere oggetti vari e provviste, che raccolse in un grosso involto preparato sulla tavola del desinare. Guardando fuori aveva notato che il sole non era ancora alto in cielo, ma l’appuntamento con Moko era a mezzodì e non potevano permettersi di ritardare.
“Madre?” La ragazzina le si avvicinò incerta, una seconda banana in mano. “Sol” la rimproverò Nora.
“Ho fame.”
Tutta suo padre. Anche lui, da come lo ricordava, si sarebbe spolpato un cinghiale intero senza batter ciglio, curandosi d’innaffiarlo con un buon paio di bottiglie di Porto; ci somigliava eccome, sebbene Moko la pensasse diversamente. Anche se... Il pensiero la fece sorridere, ma a farla ripiombare nell’ansia vi pensò un improvviso tramestio nell’ingresso. “Maledetto cavallo, proprio oggi doveva perdere un ferro...” La voce di Perez era accompagnata da un buon numero di borbottii, segno che era di pessimo umore; sarebbe stato difficile farsi ascoltare. Sol, intuendo la mala parata, ebbe la prontezza di mettere il suo frutto tra le provviste ammucchiate dalla madre.
“Oh, siete sveglia finalmente!” fece l’uomo all’indirizzo della moglie. “Non avevate una bella cera, e non era il caso che avvelenaste qualcuno a causa della stanchezza.” Le passò svelto una mano sul viso, la voce fattasi più comprensiva. “State meglio?” Nora non ebbe il tempo di stupirsi, né di godere del gesto affettuoso del marito: quando lo sguardo gli cadde sull’involto che stava preparando, ritornò quello di sempre. “Ohe, che state combinando? Che istoria è questa?”
“State quieto e ascoltatemi.”
“Sempre la solita solfa, mh? Io vi ascolto sempre, moglie, bell’allocco che vi siete trovato, invece voi...”
“Tacete!” Quel giorno era il peggiore per mettersi a discutere, e Nora pensò di farlo intendere al marito non solo alzando la voce, ma piantandogli le mani sulle spalle; Sol le si era messa al fianco, silenziosa ma cogli orecchi tesi. “E ascoltatemi, per una volta, senza discutere. Ne va della vita di tutti noi.”
Ernesto Perez impallidì. Di rado sua moglie era stata tanto seria e lapidaria, e tanto bastava per averne timore.
 

*


Honorata fu lesta a salire sulla scialuppa che una delle navi di vedetta, lì a controllo della baia di Amnay, aveva mandata. “Vi attendevamo con ansia, signora” disse il marinaio a capo di quella dozzina d’uomini. “State bene?”
“Io sì” rispose la contessa di Ventimiglia, mentre gettava un’occhiata accorata a Riley che s’era afflosciato a poppa, tra le braccia dei commilitoni. Ma bastarono pochi minuti, nonché qualche generoso sorso di rhum, a farlo riprendere quando giunsero sotto la Folgore. E fu lui stesso il primo a salire, senz’altro per dare a Morgan la notizia della sventurata fine dei suoi marinai. Honorata era appena a metà della biscaglina quando sentì il grido dell’almirante  attraversare la tolda.
“Impiccati!”
“Per ordine del governatore” stava narrando il filibustiere con voce affannosa; le voci si facevano più forti man mano che s’avvicinava, come diventava più grande il viso di suo marito ch’era rivolto verso di lei, le braccia tese.
“Malgrado la bandiera bianca?”
“Che hanno subito stracciata sotto i nostri occhi, dopo d’averci fatti sbarcare e d’averci accolto come parlamentari.”
Il resto del discorso non giunse ai suoi orecchi: l’abbraccio del marito, le sue labbra sottili tra i capelli, bastarono a sottrarla al resto del mondo.

Morgan si considerava uomo freddo e estraneo a forti sentimenti, ma la notizia appena recatagli dall’unico marinaio superstite della spedizione l’aveva fatto andare su tutte le furie; e a coronare la cosa quel biglietto vergato con parole sprezzanti, che non aveva esitato a stracciare con pochi gesti irati, lasciando che i frammenti si disperdessero col vento. “Maledetto!” sbottò. “Che veniamo pure a prenderla se ne abbiamo il coraggio, eh? E noi ne abbiamo, di coraggio! Parola mia, conquisteremo quella maledetta città e libereremo la signorina, fosse l’ultima cosa che faccio. Pierre le Picard!”
“Capitano” rispose subito il secondo.
“Comunica a tutte le navi di tenersi pronte a salpare; prima di domani sera, parola mia, Maracaibo sarà in mano nostra.”
“Capitano Morgan.” Carmaux, che aveva da poco raggiunta la coperta assieme a Ch’ulel, fu lesto ad affiancare il suo comandante. “Il governatore, sapendo di noi, potrebbe chiedere rinforzi.”
“Non arriverebbero in tempo. Anche se io credo, mio bravo, che questo governatore abbia in corpo boria sufficiente a credere di potersela cavare senza aiuti: il suo biglietto era fin troppo esplicito.”
“Abbiamo a che fare con un osso duro, signore.”
“È il bastardo di Wan Guld, non m’attendevo nulla di meno.” Mentre i marinai attendevano ai rispettivi compiti, dietro lo sguardo vigile di Carmaux che sulla nave aveva funzione di nostromo, Morgan s’avvicinò all’ex-Corsaro, che fino a quel momento era rimasto immobile colle braccia serrate attorno alla moglie. “Dunque si darà battaglia, signor Morgan” mormorò il conte con voce alterata.
“Non abbiamo altra scelta.”
“Saremo dei vostri anche noi” intervenne Enrico che aveva affiancati gli zii. “Un gruppo di miei uomini darà manforte alla vostra nave, se sarà loro concesso.”
“Dei valorosi sono sempre ben accetti” affermò l’almirante.
“Sta bene. Ma la Nuova Castiglia resterà in disparte; zia, dovreste salirvi quanto prima.”
“Sì, certo” mormorò con un filo di voce la contessa di Ventimiglia. Il marito la prese per le spalle, fissandola bene in volto. “Honorata” disse, il tono fattosi secco e vibrante, “se hanno osato toccarti...”
“No, Emilio, sto bene.”
“E Jolanda? Ti è stato concesso di vederla?” Il cenno di diniego della moglie lo riempì di rabbia, ma decise di contenersi quando s’accorse dei suoi occhi umidi di lacrime. “Non so neanche se... se sta bene...” balbettò la donna. “La mia missione è stata... del tutto inutile...”
“Non fatevene una colpa, signora” tentò Morgan, conciliante. “Avete tentato, ma vostro fratello non ha mostrato il benché minimo rispetto pel suo stesso sangue.”
Honorata si passò rapida una mano sugli occhi, vergognandosi per la sua debolezza. “Se qui vi è un colpevole sono io, signor Morgan” disse semplicemente. “A causa mia sono morti otto dei vostri uomini.”
“Avrebbero potuto perdere la vita sotto i colpi di cannone nemici, signora. Ciascun filibustiere sa che la sua sorte è appesa un filo, ogni giorno.”
“Sì, ma...”
“Otto?”
Un brivido percorse la schiena della contessa di Ventimiglia nel riconoscere quella voce, quegli occhi scuri che la fissavano smarriti. “Riley è tornato” continuò Carmaux, incerto. “A finire appiccati sono stati sette.”
Honorata non riuscì a proferire parola, ma non occorse: vide l’uomo dinanzi a lei perdere colore, come se gli fosse stata sottratta mezza pinta di sangue; il cambiamento fu così repentino che Ch’ulel, nei pressi assieme alla sorella, si sentì in dovere di stringergli un braccio come se temesse di vederlo rovinare sulla tolda, com’era accaduto solo due giorni prima. Carmaux si liberò con uno strattone, un lampo d’insofferenza che gli attraversò gli occhi resi più oscuri dalle pupille dilatate, a tal punto da inghiottire quasi le iridi. E furono quegli occhi torbidi a fissarsi su di lei. “L’hanno appiccato?” Un mormorio roco che sarebbe passato inosservato in condizioni normali; ma l’equipaggio intero s’era zittito, e con esso anche il vento.
La mano di Honorata corse a quella del marito per cercare un po’ di conforto, ma invano: le dita posate sulla sua spalla erano fredde e inerti. “No.” Disse solo questo. E pregò che il marinaio non andasse oltre, che non si facesse ancora del male...
“Fucilato?”
“No. È... È spirato in cella, da sé.”
Avrebbe voluto schiaffeggiarsi a sangue: due minuti, due errori, e se il primo era in qualche modo giustificabile - lui l’avrebbe saputo comunque - il secondo era semplicemente crudele. Ancora di più perché involontario.
Carmaux si limitò a sorriderle, e lei ne ebbe paura e pietà insieme perché quelle labbra stirate nascondevano un abisso, al pari di quegli occhi senza luce. “Un uomo robusto, che ha affrontato mille battaglie, non muore da sé, signora contessa” mormorò piano. “Ma un uomo torturato, piegato, spezzato...” S’interruppe, trattenendo un singulto, mentre rivolgeva l’attenzione al signor Morgan.
“Capitano... mi concedete qualche minuto?”
“Tutto il tempo che vuoi, Carmaux” fu la mesta risposta. E Morgan, come tutti i presenti, si ritrovò suo malgrado a prestare ascolto a quei passi lenti, sofferenti del marinaio prima di vederlo scomparire sottocoperta.
Honorata si riscosse solo quando sentì il marito abbandonare la presa su di lei, per seguire la stessa direzione. “Emilio, io non credo sia il caso” disse. “Quel poveretto necessita di star solo.”
“Credetemi, signore” intervenne l’almirante. “Conosco Carmaux da più di vent’anni, e non è uomo da fare pazzie, anche se...”
“E voi credete a me, signor Morgan” replicò il signore di Ventimiglia, “quando dico è stato proprio lui a chiedermi di seguirlo, con quei suoi occhi.” Che mai, neanche nei momenti più bui, aveva mai veduto.

Il liquido rosso scuro ondeggiava quieto, al ritmo della mano che teneva il bicchiere senza dar segno di volerlo alzare affinché due labbra secche lo vuotassero. Il signore di Ventimiglia non se ne stupì: da quando era tornato a Maracaibo dopo diciott’anni, fin troppe cose avevano presa una piega inaspettata.
“Una volta vi dissi...” Fu Carmaux a interrompere il silenzio che s’era formato in quell’angusto ambiente che era la sua cabina, “...di non aver mai veduto nella mia vita il fondo d’un bicchiere." La mente dell’ex-Corsaro tornò rapida a una sera di molti anni prima; un austero comandante ancora perso nella vendetta e nel rimpianto, un marinaio più ciarliero del solito, due boccali di Alicante.
“Ricordo; ti è sempre stato facile vederlo pieno, in qualunque occasione, e Dio solo sa quante il tuo innato ottimismo ci abbia giovato.”
“Guardatemi ora, invece.” E Carmaux alzò il bicchiere con uno scatto tale che un po’ di vino gli gocciolò lungo il polso. “Tremo all’idea di vuotarlo; perché se lo facessi, signor conte, non vedrei un fondo, ma un baratro.” Il metallo sotto le sue dita quasi si deformò per via della stretta febbrile. “Fulmini! Non avrei mai detto che sarei giunto a un tale segno!” E mandò un lungo sospiro. “Perdonatemi, sono uno sciocco.”
“Non dirlo neanche.”
“Signor conte, io...”
“Basta, Carmaux. Niente titoli, niente onori, non da te; non più.” Lo disse di getto, ignorando lo stupore del’uomo. “Non sei un mio marinaio, un mio servo o un mio sottoposto; solo un amico.”
“Un amico che può ardire di trattarvi da pari perché ora sa, come voi, cosa significa sopravvivere a un fratello?” L’ex-Corsaro dubitava fosse stato il vino, bevuto tutto d’un fiato, a infondergli coraggio per quella frase che, una volta, mai avrebbe osato pronunciare dinanzi a lui.
Ma a quei tempi Wan Stiller era ancora vivo.
“Posso farti una domanda?”
“Chiedete pure senza riserbo.”
Il signore di Ventimiglia prese posto sull’unica sedia rimasta libera, decidendo sul momento di essere diretto e di non avere alcuna esitazione. “Mi è giunta voce che tu, prima di questa spedizione, avessi lasciata da un anno la filibusteria.”
Silenzio.
“E con te anche Wan Stiller.” Il bicchiere tra le mani del marinaio prese a curvarsi in maniera allarmante. “Il signor Morgan ha la lingua più lunga di quanto credessi” fu la fredda risposta.
“Non fu lui a parlarmene.”
“Ah... mi pareva strano.”
“...perché?”
“Intendete perché ho lasciata la Giamaica, mia moglie, i miei figli...”
“I tuoi - cosa?”
“...per tornare in mare a rischiare la vita?” Il bicchiere ormai deformato cadde a terra, mentre le mani di Carmaux correvano a tenergli il ventre che tremava per le risate. L’ex-Corsaro avrebbe data metà della sua anima perché smettesse, perché facesse cessare quella risata che sapeva solo di tristezza e delusione.
“Se mi conosceste solo un briciolo di quanto credete, sapreste che voi, per me, siete stato molto più di un comandante; per anni vi ho seguito, affiancato, consigliato e supportato. Restare sordo all’aiuto di cui necessitava vostra figlia sarebbe stato un insulto diretto alla vostra persona, e io mai più avrei potuto dire d’essere stato un vostro fedele marinaio. Ditemi, signore...” mormorò Carmaux. “...trovate deprecabili i miei motivi?”
“Io ti sono profondamente grato” rispose il signore di Ventimiglia. “Ma non chiedermi di non pensare che, a causa mia...”
“Non ritenetevi responsabile di quanto è accaduto a Wan Stiller. Non è colpa vostra né mia, se mi azzardassi a pensarlo so che verrebbe a perseguitarmi pel resto dei miei giorni, dal posto in cui quei maledetti spagnuoli l’hanno spedito a suon di frustate.” Il volto del marinaio, in piedi dinanzi al suo antico comandante, si contrasse. “Corpo d’uno squalo! Mi manca già, quell’amburghese....” Sospirò, cacciandosi pollice e indice ai lati delle palpebre. “Che gran torto mi ha fatto! Andarsene senza di me...” Sussultò appena quando avvertì la mano del conte stringergli piano la spalla sana.
“Sii, forte, Carmaux” si sentì dire, e sorrise ancora. “Questo ve lo dissi anch’io, diciott’anni orsono” ricordò.
“Ma io mi dimostrai molto meno forte di te.”
“Forse. Ma ora dobbiamo esserlo tutti e due; voi avete vostra figlia da riprendervi, e io voglio tornare dai miei sano e salvo.” Il marinaio si diresse con passo deciso verso la porta della cabina. “Siete con me, signore?”
La forte stretta di mano che ricevette non potè confermarlo meglio.
"Bene. Perchè abbiamo una città da riconquistare." 


Note dell’autrice:
  solo ieri sono riuscita a terminare una cross-over che mi ha tenuto sulle spine per la bellezza di quattro mesi, e oggi termino un capitolo altrettanto spinoso (e un po’ più lungo dei precedenti). Me felice e soddisfatta ^_^
Oddio, felice. L’ultimo pezzo è stato un parto, giuro, non so quante volte me lo sono rigirato in testa prima di scriverlo; è la prima volta che mi trovo con Carmaux alle prese con sentimenti simili. Appigli all’opera salgariana non ne ho trovati, perché nell’unico momento in cui il marinaio crede che il suo migliore amico sia morto e c’era la possibilità di analizzare il suo stato d’animo, Salgari sposta la scena su Morgan e Jolanda. Due sole frasi lasciano trapelare qualcosa: “Anche Carmaux aveva perduta la sua consueta allegria, pensando alla miseranda fine del suo inseparabile compagno, il povero amburghese”, che io personalmente trovo molto meno banale di quanto sembri: perché Carmaux non perde mai il suo caratteristico buonumore, neanche nelle situazioni peggiori. E poi c’è quella frase che lui stesso pronuncia: “Ah, mio povero Wan! Andarsene senza di me!”, che mi fa piangere il cuore ogni volta che la leggo. Sul serio. Non potevo non riprenderla.
Per passare a qualcosa di più allegro... nel capitolo è presente uno spoiler grande come una casa. E no, non è quello che sembra v__v Se riuscite a beccarlo e volete “conferma” da me, chiedete privatamente, mi raccomando ^_^
Oh, le frasi sottolineate sono prese integralmente dal romanzo.

Chi devo ringraziare? Crow F e Chandrajak, naturalmente, che ci tengono a farmi sapere cosa ne pensano di questa storia; chiedo perdono alla prima perché avevo promesso un chiarimento che non è arrivato, ma il capitolo (e Carmaux) mi hanno preso la mano più del previsto.
E vorrei ringraziare anche Charlie, su EFP SHUN DI ANDROMEDA. Non fosse stato per lei, forse questo lavoro sarebbe ancora in stand-by, assieme a molti altri. Un abbraccio a una fan salgariana degna di questo nome.
Satomi

   
 
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