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Autore: Tenar80    07/06/2012    1 recensioni
Nell’Arcipelago i giorni hanno tutti più o meno la stessa lunghezza e non siamo soliti misurare il tempo in anni, ma nel corso della mia vita le balene erano già tornate quindici volte a innalzare i loro canti d’amore davanti all’Isola Lunga, quando arrivarono gli Uomini Luminosi.
La storia di Ehlohe è la primissima che pubblico qui. Racconta di persone e mondi che si incontrano e che si infrangono e incantesimi intessuti col sangue.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SEGUIRE I GABBIANI

 

 Con fatica, il mago apre gli occhi. Ci mette un poco a mettermi a fuoco.

 - Perché sei venuta nella mia stanza? - chiede.

 - Per ucciderti. - rispondo, mostrando il pugnale.

*

 Il mio nome è Ehlohe, Gabbiano, un nome comune nei villaggi sulla riva del mare, dove il verso del gabbiano è spesso il primo suono che si ode al mattino e l’ultimo che saluta la sera. 

 Nell’Arcipelago i giorni hanno tutti più o meno la stessa lunghezza e non siamo soliti misurare il tempo in anni, ma nel corso della mia vita le balene erano già tornate quindici volte a innalzare i loro canti d’amore davanti all’Isola Lunga, quando arrivarono gli Uomini Luminosi.

 Sapevo che esistevano, naturalmente, come sapevo che i draghi volano alti sopra le isole, nella loro eterna ricerca, e che esistevano terre lontanissime dove fa talmente freddo che l’acqua a volte si fa solida come roccia. 

 Di tanto in tanto un mercante ci portava dei gioielli di quella sostanza colorata e trasparente chiamata vetro, prodotta dagli Uomini Luminosi, e ci parlava delle loro città fatte di pietra, della loro pelle chiara come il ventre di uno squalo e delle strane paure delle loro donne, che non potevano farsi vedere nude. A volte qualcuno sussurrava di isole lontane dove gli Uomini Luminosi erano arrivati in forze, con magie potenti e avevano imprigionato tutti gli abitanti per obbligarli a cercare il metallo giallo dei nostri fiumi. Chiacchiere di delfini, le definiva mio padre, tutti sapevano che quel metallo era inutile se non per farci gingilli e non valeva certo una guerra. Noi avevamo il pesce delle nostre acque, le foreste per trovare il miele e la frutta. Nessuno poteva minacciarci: eravamo ricchi e forti e avevamo persino uno stregone.

 Una volta lo vidi davvero usare la magia del sangue, quando mio padre si ruppe la gamba. 

 Era caduto malamente cercando di raggiungere un favo troppo in alto, sui rami fragili, l’osso si era fratturato in più punti e quando lo avevano portato a casa aveva già la febbre. 

 Lo stregone era arrivato quasi subito. 

 Gli fece bere una pozione e poi prese un coltello e si fece un taglio su ognuno dei polsi, dove aveva già molte cicatrici in rilievo. Il sangue cadde sulla frattura mentre il vecchio cantava e io vidi mio padre riaprire gli occhi, sorpreso, mentre la gamba riprendeva la sua forma naturale. Poi mia madre fu svelta a fasciare i polsi del vecchio e gli fece bere del latte caldo col miele e pretese che passasse la notte con noi. Quella sera noi bambine non riuscivamo a staccare gli occhi dalla sua barba lunga, intrecciata con vertebre di pesce e strisce di foglie di palma. Quando mia sorella ebbe l’ardire di chiedergli come aveva fatto, lui rispose soltanto:

 - Una goccia per trovare. Due gocce per guarire. E nulla vale tre gocce di sangue.

 Io avevo visto, però, che aveva usato ben più di due gocce.

 

 Il giorno in cui arrivarono, io ero fuori dal villaggio. 

 I pescatori avevano trovato un banco di Sili, un pesce dalla carne insipida e il fegato puzzolente dal quale si estrae, però, un potente antisettico. 

 Spremere il fegato di Sili è un lavoro affidato alle ragazze, perché sono così belle che possono permettersi anche di puzzare, secondo quanto dicono gli adulti. Andavamo in una baia sottovento dove prima della mia nascita si era spiaggiata un’enorme balena e sedute su quelle grandi ossa bianche lavoravamo e chiacchieravamo fino a sera.

 Eravamo in cinque e stavamo seguendo i gabbiani, come si dice da noi, lasciando correre liberamente i nostri sogni e ognuna diceva all’altra, ridendo, quale tra i ragazzi ci piaceva di più. 

 Di colpo i gabbiani veri, che si erano avvicinati sentendo l’odore del pesce, si alzarono tutti in volo e subito dopo si udì un boato. Oltre le dune, dove c’era il villaggio, si levava il fumo denso di un’incendio e si sentivano, attutiti, rumori e grida.

 

 Lasciammo tutto il sili nei cesti vicino alle ossa di balena e corremmo per vedere quello che succedeva.

 

 Gli Uomini Luminosi ci trovarono in cima alle dune. 

 Ne vedemmo un primo che stava sopra un grande animale, più alto di un bufalo, col manto dello stesso colore. 

 Come ci avevano raccontato, l’uomo era vestito di metallo che luccicava sotto il sole. Aveva la faccia chiara e occhi freddi e ci gridò parole in una lingua che non conoscevamo. 

 Subito ne arrivarono altri a piedi, vestiti con meno metallo e più cuoio, ma avevano armi metalliche, spade, con le quali ci minacciavano. Uno di loro provò a prendermi per i capelli, ma l’uomo sull’animale lo fermò.

 - Queste sono per gli ufficiali. - disse, ma io non sapevo cosa significasse.

 

 Ci condussero al villaggio, dove tutte le capanne erano bruciate, tranne quella dello stregone. Intorno a quella c’erano molti uomini morti, avevano affrontato gli Uomini Luminosi con le lance e gli scudi di legno. Tra loro c’era mio padre.

 I cadaveri lontano dalla capanna dello stregone erano disarmati. Alcuni avevano tenuto in mano gli scudi, ma erano sbriciolati, come fossero fatti di segatura. E c’erano i vecchi e i bambini che ancora non camminavano che erano stati sgozzati e lasciati vicino alle macerie delle capanne, cose abbandonate e senza valore.

 Ricordo le immagini. Una per una. Ci dev’essere stato rumore. Le grida dei soldati che ci portavano attraverso il villaggio e il mio pianto e quello delle mie compagne e il crepitare del legno che ancora bruciava. Ci dev’essere stato l’odore, quello del sili e del sangue. Ma io ricordo di essere passata attraverso un villaggio muto, come in quegli incubi in cui tutto tace e quello che vedi non riesci a toccarlo o a sentirlo.

 

 Fuori dal villaggio c’era il recinto dei bufali e dei maiali. Avevano spostato gli animali e ci avevano messo le persone. Buttarono dentro anche noi e cademmo nello sterco e nel fango.

 Trovai mia madre e mia sorella, avevano lividi sul viso e sul corpo e la veste strappata. Non chiesi perché, né chiesi di mio padre o di mio fratello più piccolo. Volevo piangere e non ci riuscivo.

 Mi dissero che di colpo tutte le capanne avevano preso fuoco e tutto il legno si era sbriciolato, solo le capanne vicina a quella dello stregone erano state risparmiate. Lui era morto dissanguato, cercando di disfare la magia che ci aveva attaccato. Lì gli uomini avevano cercato di combattere, con il legno contro il metallo e lì erano morti, liberi. C’era invidia per quella sorte. 

 

 Al mattino vennero a prenderci. Tirarono fuori dal recinto me e le mie compagne, ci fecero togliere la veste e ci fecero stare in piedi, nude e sporche, davanti a uomini che, da quanto sapevo, non potevano guardare le donne nude. E da quello compresi che non ci consideravano davvero esseri umani.

 Tutti gli uomini luminosi avevano facce strane e innaturali. Bianche, senza barba, come quelle dei bambini. Avevano capelli dai colori insoliti, persino rossi. Pochi quel giorno indossavano effettivamente il metallo. Per lo più portavano una corazza di cuoio e abiti di tela consumati e sporchi. Puzzavano anche se non avevano passato la notte nello sterco.

 I capi, però, erano vestiti di metallo e portavano un copricapo con in cima strani pennacchi colorati. All’ombra dell’elmo i loro occhi chiari brillavano e sembravano i più crudeli di tutti. 

 Tra loro c’era un uomo diverso. 

 Portava una lunga veste rossa ed era più basso e più esile degli imponenti uomini vestiti di metallo. Come un vecchio, usava un bastone, ma era invece giovane. Aveva capelli color dell’erba secca sopra un viso da ragazzo stanco.

 Due uomini, di quelli vestiti di cuoio e di tela, mi presero. Mi scelsero per prima, compresi poi, perché mi ritenevano la più bella. Lo fecero per le stesse ragioni per cui tra le mie compagne ero considerata la più brutta, perché ero troppo alta e snella, senza fianchi floridi, e avevo occhi troppo chiari, come il mare vicino alla riva. 

 Mi buttarono a terra ai piedi del giovane vestito di rosso. 

 Molti degli altri risero, applaudirono e fecero dei gesti osceni, come se si aspettassero che lui mi prendesse lì, sullo spiazzo, davanti a loro. L’uomo in rosso fece un gesto sprezzante e uno dei capi disse alcune secche parole che zittirono tutti. 

 Si fece avanti un uomo che conoscevo. 

 Era uno dei mercanti che di tanto in tanto giungeva alla nostra isola. Aveva i tratti di uno di noi, aveva colore delle rocce e della pelle delle balene, le nostre sorelle marine. Portava la barba florida e riccia, come si conviene ad un adulto, ma indossava le vesti di tela e di cuoio degli invasori.

 - Sei fortunata, Ehlohe. - mi disse, nella mia lingua - Sarai la schiava del mago del re.

 Io non conoscevo il significato della parola “schiava” e sbattevo gli occhi, stupida e arrabbiata.

 - Dovrai servirlo, fare quello che ti sarà detto e compiacerlo, come una moglie con il marito.

 Mi vendeva, uno della mia gente, come fossi un oggetto.

 Mi alzai in piedi e gli sputai in faccia, un gesto banale e inutile.

 Mi bloccò un uomo che non portava armi, ma era abbastanza forte da trattenermi e mi trascinò via. Dietro di noi venne il giovane mago del re, qualsiasi cosa questo volesse dire, appoggiandosi al bastone.

   
 
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