Seven
Deadly Sins
Tetsu to hagane ja
magaru, magaru, magaru.
Tetsu to hagane ja
magaru, My Fair Lady.
I tendaggi di quel
teatro stantio raccontavano storie mai entrate in scena, il
palcoscenico ormai
da anni risentiva di tutti quei passi mai fatti che l’avevano
calpestato, i sedili
vellutati rovinati dalle persone che, colte dall’entusiasmo
dello spettacolo,
si erano alzate ad oltranza, inondando quel teatro di applausi
semieterni.
Ballerini virtuosi non avevano eseguito lì le loro studiate
coreografie, gli
artisti folli non avevano mai inondato il palco grigiastro con la loro
creatività stravagante.
Quel teatro, polvere sugli spettri e sui violini, ancora con
l’orologio fermo a
quell’estate del 53, conosceva una sola, immutabile, opera.
La danse macabre.
Quando Tsunayoshi Sawada spostò le tende per entrare nella
sala, e ricevette
come biglietto d’invito una fitta polvere sul suo cappotto,
capì che nulla era
cambiato lì, e nulla sarebbe cambiato.
Lì l’aria era monotona e perennemente umida, una
cappa di fresco veleno che
regale se ne stava in disparte, ignorando il caldo esterno. Un umido
mortorio
colorato di uno scarlatto spettrale.
Per questo Tsunayoshi indossava un cappotto stretto in petto e corto
davanti,
mentre dietro si dileguava come un’ombra devitalizzante sotto
la maschera di
uno strascico da sposa.
I tacchetti degli stivali rievocavano –assieme allo schiocco
dei guanti di
pelle appena indossati- gli ardenti echi di quegli applausi grandiosi,
quegli
applausi tanto forti da far tremare i teatri. Con un gesto altero mise
a tacere
quell’illusione, e i sedili tornarono ad essere marci di
polvere e di peccato.
Quel teatro era la sua casa.
Era la loro casa.
Camminò ancora, senza possedere un’ombra, avvolto
in quel lungo strascico da
sposa. Tenne lo sguardo basso a rimembrare i loro
passi, e ai suoi si sovrapposero quelli di tanti altri,
fantasmi del passato che ancora lo perseguitavano. I bottoni di quel
cappotto
richiamavano lo stemma dei Vongola, e lo stringevano tanto forte da
trasformarsi
quasi in un corsetto matrimoniale; eppure andava avanti, senza emettere
alcun
suono che potesse indicare la sua sofferenza.
Sospinto da quel pubblico eccitato da una nuova esibizione, si
fermò sotto il
palco, la vista già annebbiata.
Alzò
il braccio arcuandolo tenuemente e alzò il volto, fissando
quel palcoscenico
illuminato così lievemente da apparire come un fantasma in
movimento.
Aspettò che quegli applausi incorporei smettessero di
cantare e schiuse le sue
labbra, adornate di perenne modestia.
«London Bridge
is falling dawn,
falling dawn, falling dawn,
London Bridge is falling dawn,
my fair lady.»
Sul palco qualcosa
si mosse. L’illusione di un movimento si stanziò
in un inchino veloce e riprese
a ballare verso di lui, delineata e lontana come la fiamma di una
candela
destinata a spegnersi in pochi istanti.
Il ballerino
si fermò, sorridendo di sbieco, e arcuando le labbra a
rassomigliare un fil teso da una freccia, tentò la sua
esibizione. Ma le manie
di protagonismo di Mukuro Rokudo andavano oltre il normale, e con lo
stesso
gesto altero del Decimo si puntò le luci invecchiate su di
lui, concedendo a
quel pubblico la deliziata visione di un essere perfetto come lui.
«La
mia sposa è venuta,
è venuta! E’
scappata dalla sua torre d’avorio ed è venuta a
concedersi a me. Non è vero,
Tsunayoshi Sawada? La mia sposa perfetta.»
Sfiorò
la risata maligna, non cedendo però nell’inganno.
Tsunayoshi mancò un
paio di battiti prima che il suo corpo intero iniziasse a tremare. L’ansia da
palcoscenico.
Quella luce
proveniente dal basso attillava ogni suo singolo pregio: gli zigomi
alti e perfetti, il collo ridente e soave, le labbra che si
confondevano con la
pelle di ceramica.
Mukuro Rokudo era
tutto e lui era niente.
«Oggi
è un giorno speciale, per questo sei una funeraria sposa. E
per
festeggiare, la messa in scena di oggi sarà un po’
più impegnativa del solito.»
Prese un attimo di pausa per godersi il volto del suo piccolo e
delicato
amante, e poi riprese il suo discorso fluente.
«Siamo diventati grandi
ormai,
Tsunayoshi. Di spettacoli ne abbiamo fatti tanti in questo teatro, io e
te.
Ma, per
festeggiare il mio venticinquesimo compleanno, sto per chiederti una
cosa particolare.»
Un suono
metallico nacque tra le mani dell’illusionista, che lo
portò alla luce
senza troppe menzogne.
Teneva con
sé una pistola.
Lo sguardo
perso nel piacere dell’amore ossessivo.
Sette colpi.
Stava per
mettere in scena il suo spettacolo migliore.
Sette, come i
peccati capitali.
«Balliamo,
Tsunayoshi Sawada?»
Con un salto
balzò giù dal palco, ridendo follemente.
Il Decimo,
colto all’improvviso, riuscì a spostarsi di
sbieco, saltando a sua
volta sui decadenti sedili. Era bianco in volto, ancora una volta.
Assieme a
lui balzò anche la coda del cappotto signorile,
sparpagliando in aria polvere
assuefante che gli diede l’illusione di indossare un velo da
sposa.
Come poteva amare
un uomo simile?
«Ira!»
urlò Mukuro Rokudo, le corde vocali vibranti come un
violoncello accordato in
modo maniacale. Gli piacque il volto marmoreo del suo amante e il primo
sparo risuonò
sordo assieme agli applausi.
Con un
movimento azzardato ma ugualmente delicato, Tsunayoshi saltò
in
equilibrio su un altro sedile, e il proiettile colse unicamente il
cappotto
lateralmente. La paura gli imperlava le gambe.
«La rabbia furente che
mi coglie quando
non sei qui con me!»
tuonò nuovamente, spostandosi verso la sua preda a
passo di danza. Ricaricò la pistola e solo allora il Decimo
capì a pieno.
Se voleva
sopravvivere abbastanza a lungo da vedere il finale dello spettacolo
doveva ballare.
Era iniziata
la danse
macabre.
Gli occhi di
Mukuro tremarono violentemente. «Invidia!»
Girò
su se stesso in un movimento dannatamente
aggraziato e sparò ancora, sfondando il sedile con
l’intenzione di far cadere l’altro,
che invece balzò sull’altra fila, gli occhi tristi
nel constatare la follia
perversa che sanguinava tra le labbra e scivolava lungo il collo
dell’altro.
«Per tutte le volte in
cui non
desidererei altro l’attenzione che regali agli altri
guardiani!»
«Accidia!»
il colpo arrivò netto nella spalla destra e
barcollò, cadendo come un peso
morto tra i sedili. Il dolore gli attanagliava la vista e cercava di
portarsela
via per distruggerlo, ma con le lacrime nelle iridi si
rialzò e corse alla
cieca, gettandosi tra tende e cadendo nelle quinte.
Il cuore gli
batteva tanto forte che sembrava stesse per cedere, e non gli
diede l’udito per sentire lo scatto e la risata esattamente
dietro di lui.
Scappò
dalla mano insanguinata prima di esser preso come in un incubo, e
ballando come Mukuro tanto desiderava, si gettò tra gli
strumenti musicali. L’impatto
con quei freddi e inutilizzati strumenti gli stordì i sensi,
ma quella voce
riuscì comunque a perseguitarlo.
«Avarizia!»
Il colpo
perforante della pistola gli arrivò accanto, sfondando il
cuore di un
violino che si trasformò in rugginosa polvere.
«Ti posseggo a tal
punto che nessun altro
potrà più farlo!»
I loro corpi
si sfiorarono per un istante e avvertì la gelida mano
tastargli le
labbra e dissolversi nel nulla.
Il sangue
scendeva copiosamente dal braccio, lasciando a terra macchie
distinte; la penombra gli giocava un brutto gioco, trasformandole in
petali di
rosa e ghigni salmastri.
Corse a
perdifiato, avvertendo quello sguardo su di lui, inciampando tra vesti
ed oggetti di scena.
Due colpi
consecutivi tanto vicini da donargli un brivido di terrore
atrofizzato.
«Gola,
superbia!»
Due colpi
consecutivi che gli avevano lambito le guance, ora a fuoco.
«Mio, e mio soltanto!
Chi altro folle
compara la mia superbia alla sua?»
Si
gettò col respiro affannato sul palco, ormai diventato quasi
cieco dal
bruciore delle ferite penetranti.
Come una
pellicola degli anni 20 bruciacchiata dalle guerre, la sua mente non
ragionava più a pieno.
Accasciato su
quel palco se ne stava rannicchiato ad aspettare il settimo
colpo.
Nei meandri
delle quinte ancora risuonava quella risata, ancora l’aria si
spostava sotto il tono di un mago incompreso da tutti.
E poi,
arrivò.
Lento e freddo
come solo un ballerino d’élite poteva essere.
Si
gettò su di lui ridendo, sfiorandogli i capelli con la mano
libera e
poggiando le labbra assassine sull’orecchio ormai insensibile.
I loro respiri
si fusero in un’unica orchestra.
«Lussuria...»
La pistola
gelida gli marcò la fronte, prendendo possesso di essa.
«Quella
di cui tanto ci macchiamo assieme.»
Altro sangue
ricoprì il cappotto: il sangue di Mukuro.
«Che
si chiudano le luci, che cali il sipario.
Perché
continueremo questa danza...
…all’inferno!»
L’ultimo
colpo fu sovrastato dagli applausi dei fantasmi in sala,
che si
alzarono con tutta la polvere,
e lanciarono
loro rose marce per congratularsi
di quella
messinscena così reale.