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Autore: Nyuu_    10/06/2012    1 recensioni
“L'inconscio, per me, rappresenta ciò che una persona veramente è, ciò che una persona veramente vuole e vorrebbe essere. L'inconscio siamo noi.”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Notti insonni a domandarmi cosa avrei potuto fare per cambiare ciò che ho fatto.
La risposta è niente.
BEEP.
Non riesco ad accettarlo, non riesco ad accettare di aver perso il controllo della mia vita in un istante. È bastato un solo attimo per vedere dissolversi tutto il mio passato e il mio futuro. Tutto ciò che ero e tutto ciò che non sarei mai stata.
BEEP.
Suona la sveglia.
BEEP.

La lascio suonare.
BEEP.
Si spegne da sola.
Quanto tempo potrai passare a piangerti addosso?chiedeva J.
J non capiva. J non capisce. J non capirà. Ma forse neanche io ho mai capito il perché del mio gesto.

J mi ha fatto riscoprire cosa significa amare veramente. Mi ha fatto riscoprire anche cosa significa odiare veramente. Mi ha fatto capire che l'unica forma vera e pura di odio è verso se stessi. Non esiste l'odio verso gli altri se non in una proiezione di quello che proviamo per noi stessi.
E io odio me stessa, e odiando me stessa sono riuscita a capire chi veramente sono, e chi veramente non voglio essere.
Non sono la ragazza che ogni giorno si alzava alle sette, si truccava e di fretta guidava fino all'ufficio per poi starsene dietro ad una stupida scrivania a digitare inutili parole su un freddo schermo.
Non sono quella ragazza.
Io sono la ragazza che ha dato fuoco al suo appartamento ed è scappata. Sì io sono quella ragazza, ma allora perché perché perché continuo a rimpiangere di averlo fatto?
Non ho fatto niente di sbagliato a sbarazzarmi di tutto ciò che possedevo bruciandolo.
Il fuoco maledetto. Il fuoco purificatore.
J dice che l'ho fatto inconsciamente. Come posso aver fatto una cosa del genere inconsciamente?
Sai cos'è l'inconscio?chiede. No, rispondo. So che cos'è, in realtà.
Ma se c'è una cosa che ho imparato stando con J è che il mio sapere scalfisce nient'altro che una minima parte della conoscenza umana. E J sa che io lo so. E mi mette in difficoltà. Sa che odio ammettere di non sapere. Ma se c'è un'altra cosa che ho imparato è che a J piace mettere le persone davanti alle loro paure e ai loro odi. Quindi ascolto attentamente ciò che mi dice.
“L'inconscio, come lo intendeva Freud, è un insieme di impulsi e processi che non raggiungono la coscienza del soggetto e pertanto sono irrazionali.”
Sì, questo lo sapevo. Ma so che non ha finito il suo discorso.
“L'inconscio, per me, rappresenta ciò che una persona veramente è, ciò che una persona veramente vuole e vorrebbe essere. L'inconscio siamo noi.”
Noi siamo il nostro inconscio, ripeto.
J sorride e mi lascia da sola.
Il mio inconscio mi dice di fidarmi di J, mi dice che mi riesce a capire, mi dice che sotto la corazza dura che fa finta di avere nasconde segreti tremendi. Ma io non voglio cedere, io che sono così orgogliosa, io che sono così stupida.


Conobbi J una mattina nebbiosa. E pioveva. Qua piove sempre.
Fu J ad avvicinarsi a me, mi chiese un accendino. No, dissi che non ce l'avevo.
Ero sola, sola e disperata in una nuova città. Senza soldi e soprattutto senza una casa. E non so come, ma J lo capì.
“Seguimi” disse. E io lo feci; salimmo sulle scale esterne di un vecchio edificio di mattoni, scavalcammo una finestra ed entrammo in un monolocale.
“Puoi stare qui. Ci sarò anch'io.” e fece per uscire. Io gli chiesi il suo nome.
Cosa c'è in un nome? Ciò che chiamiamo rosa con ogni altro nome avrebbe lo stesso profumo dolce.
Romeo e Giulietta, dissi.
“Chiamami J.” disse.
Fu così che lo conobbi. Ed è così che lo voglio ricordare: come la persona che aiuta i senzatetto e i senza speranza. Quando sei un senza tetto sei destinato ad essere senza speranza.

Mi chiese di raccontargli la mia storia. E non lo chiese solo per circostanza, lo chiese perché gli interessava davvero. E mi ascoltò davvero, come nessuno aveva mai fatto in tutta la mia vita.
Gli dissi che avevo dato fuoco alla mia casa, gli dissi che i miei genitori mi odiavano, gli dissi che tutto ciò che mi rimaneva era il contenuto dello zaino che avevo con me.
“Fuori dall'ordinario.” fu il suo commento. Poi accese una sigaretta e mi domandò per quale scopo secondo me viviamo.
Risposi che non lo sapevo con certezza, ma che avevo imparato che di certo non viviamo per adeguarci a delle consuetudini. Viviamo per essere fuori dagli schemi, viviamo per rompere gli schemi che noi stessi ci siamo imposti, viviamo per superare i nostri limiti.
Io ho cambiato vita perché non faceva altro che adeguarmi alle regole imposte da altri.

Lui disse che trovava interessante la mia teoria. Disse che ero una tipa sveglia.
Fu così che mi innamorai di J.
Doomed c'era scritto sulla sua maglietta.
Doomed c'era scritto sul mio destino.
Fu così che mi innamorai di un uomo senza speranza.
Fu così che imparai che non tutti i senza speranza sono senzatetto.

J si rese conto che ero utile. Che non facevo troppe domande e che potevo dargli una mano nel suo lavoro.
J fa il netturbino, l'operatore ecologico.
Io lo aiutavo a pulire i rifiuti che l'uomo getta. L'immondizia. La sporcizia.
Ma ciò di cui l'uomo non si accorge è che la vera sporcizia, la vera immondizia di cui liberarsi è la ripetitività. Quando inizia la ripetitività finisce la libertà di vivere.

Finisci di vivere.
O meglio, sei vivo.

Ma non vivi.

  
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