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Autore: Kristah    11/06/2012    2 recensioni
E'.... giuro. E' soltanto una breve shot che ho scritto oggi pomeriggio per farmi passare il blocco dello scrittore che avevo da una settimana.
A voi che frega del mio blocco dello scrittore, se nemmeno sono una scrittrice? Nulla, ecco che vi frega.
Comunque... niente, se vi va di leggere qualcosina di cortino, e un po' triste / malinconico... C'è la mia one shot.
Dal testo:
Era il 25 dicembre del 1975 quando accadde tutto questo.
Avevo 22 anni ed ero una ragazza che pensava che la vita finisse quando finiva l’amore.
Ad oggi, 11 giugno 2012, all’età di 59 anni, sono ancora pentita di aver rivolto a quel ragazzo parole colme di odio e di disperazione.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Devi adattarti a quello che la vita pone sul tuo cammino.

Guardai il foglio di carta che lentamente si accartocciava, come se fosse stato trapassato da parte a parte da una freccia avvelenata.
Sentii bussare alla porta di legno della mia camera: “Avanti”, dissi, mentre con un sospiro leggero mi allontanavo dal caminetto, dove il foglio di carta si era trasformato in cenere più velocemente di quello che mi aspettavo.
Entrò la mia sorellina di sette anni: “Mamma dice che la cena è pronta”
“Arrivo subito”, la rassicurai fissando per l’ultima volta il camino e dirigendomi svogliatamente al piano di sotto, dove sentivo distintamente le voci di mio padre e di mio zio discutere animatamente di politica.

Pensai che non sarebbe mai veramente riusciti a staccare la spina dal loro lavoro, perché mio padre non era sposato con mia madre, ma con il suo lavoro, mentre lo zio non era sposato affatto, quindi poteva dedicare molto più tempo all’impresa.

Vidi mia madre in piedi con il vassoio in mano, sopra di esso era poggiato il polpettone.
Certo, era il giorno di Natale.
Avevo perso la cognizione del tempo, sapevo soltanto che c’erano le vacanze e che ero tornata a casa senza fiatare.

Avevo bisogno di stare lontana dall’università per un po’; le pareti del mio dormitorio erano diventate improvvisamente troppo strette e asfissianti per me.
Per tutti gli altri erano le solite pareti di sempre, e i loro alloggi erano gli stessi dove avevano passato delle serate stupende.
Anche io ci avevo passato serate stupende, che sono diventate inesorabilmente ricordi troppo dolorosi da ricordare.

“Sei troppo orgogliosa di te per chiedere scusa anche se hai sbagliato!”
Le parole mi rimbombarono nella mente, come se fossero state richiamate da qualcosa, o da qualcuno.

Avevo preso posto accanto alle mie sorelle, mentre mia madre serviva a tutti la cena.
“Sei orgogliosa. Non capisci nulla e se non ti dai una regolata adesso, non cambierai più”
Il tono con cui le aveva pronunciate era stato estremamente duro. Lo avevo sentito utilizzare quel tono soltanto una volta in tutto il tempo che lo conoscevo.

Una sola volta, contro suo padre e le accuse che gli aveva rivolto.
Ero presente anche quella volta.
Ci ha rivolto le stesse parole.
Ha seguito il suo copione.

“Non hai capito niente. Non mi hai ancora capito”

Sembrava che nessuno lo avesse mai capito, e il vittimismo fosse l’unica arma che aveva a disposizione per potersi far accettare.

Ripensarci adesso mi fa schifo.

Il telefono si mise a squillare, e mia madre andò a rispondere, con la stessa calma e pacatezza che l’accompagnavano ovunque.
“Pronto?” chiese in modo gentile, poi continuò, sempre più a disagio: “No, non è in casa”
Il suo interlocutore alzò la voce, ma non abbastanza perché io potessi sentire le sue parole; mia madre probabilmente gli rispose per le rime: “Ascoltami bene. Sta meglio senza di te. Forse questo non lo hai ancora capito. Frequenta l’università per inseguire il suo sogno, non per farsi rovinare la vita da uno come te”.
Gli chiuse il telefono in faccia, consapevole del fatto che tutti nella sala da pranzo l’avessimo sentita. Fece finta che non fosse successo nulla, ma avevamo tutti capito chi era.
Il telefono squillò nuovamente, interrompendo l’imbarazzante silenzio che si era venuto a creare tra gli ospiti della casa.
Fui io ad alzarmi.

“Pronto?” chiesi, con il cuore che batteva a mille per l’emozione.
Volevo che fosse lui.
Lo speravo.
Volevo farlo restare di stucco.
Dirgli che ero cambiata.
Dirgli che lo avevo finalmente capito.
Desideravo rivolgergli la parola ancora una volta.

“M-mi dispiace” sentii dall’altro lato della cornetta.
“A me di più”
Presi fiato per continuare il discorso che si stava creando nella mia testa, ma il mio interlocutore non aveva finito.
“Mi dispiace essermi comportato da coglione; mi dispiace aver creato questa situazione di merda. Ma soprattutto mi dispiace averti ferita. Comunque volevo dirti che… i miei piani sono cambiati. Cambierò università. Per non disturbare nessuno”
Feci per ribattere ma lui continuò.
“No. Tutto quello che puoi fare è lasciarmi andare e … chi lo sa, magari le nostre strade si incontreranno di nuovo. Mi spiace dirti addio per telefono, ma sono all’aeroporto; sto partendo e nessuno sa dove sono diretto.
Addio”

Non mi ero nemmeno accorta di avere iniziato a piangere silenziosamente.
Non m’importava di lui, in fondo. Giusto?
Stavo piangendo per la gioia di non rivederlo più.
E perché, nonostante tutti mi avessero avvertita più di una volta, io non avevo voluto ascoltare le loro raccomandazioni.
Non mi amava veramente.
Non me lo aveva mai detto.
Eccezion fatta che per la lettera che era bruciata nel camino.

Corsi in camera e nessuno tentò di seguirmi; chiusi la porta a chiave e appoggiai la schiena alla porta di legno, che sapeva di cera d’api.

“Ti amo” erano le ultime due parole della lettera che non mi sarei scordata per tutta la vita.

Era il 25 dicembre del 1975 quando accadde tutto questo.
Avevo 22 anni ed ero una ragazza che pensava che la vita finisse quando finiva l’amore.

Ad oggi, 11 giugno 2012, all’età di 59 anni, sono ancora pentita di aver rivolto a quel ragazzo parole colme di odio e di disperazione.
Gli scrissi molte lettere.
Nessuna è stata mai inviata, perché mancava, e manca tutt’ora l’indirizzo del destinatario.

Le nostre strade non si sono più incrociate.

-Ma, nonna …
disse una ragazza di quattordici, quindici anni, seduta su una poltrona di velluto rosso di fronte ad una donna di media statura, con gli occhi marroni e i primi capelli bianchi.

-Sì, tesoro?
disse la donna che aveva appena terminato la sua narrazione.

-Perché hai sposato il nonno se eri innamorata di lui?
Era così innocente nel chiederglielo. Era così ingenua.

-Cara mia. Poche persone possono avere quello che vogliono realmente. Molte volte ti devi adattare a quello che la vita pone sul tuo cammino. Non era destino che io e lui dovessimo nuovamente incontrarci. In compenso ho trovato un uomo molto gentile e carino, che mi ha dato tanto affetto. Forse anche più di quello che riceveva da me.
E ora va’. Tua madre ti sta aspettando in macchina.

La ragazzina annuì una sola volta con la testa e, ancora persa nel racconto di sua nonna si diresse verso la porta.
Non appena si chiuse, la donna si alzò senza il minimo rumore e si mise ad osservare una fotografia in bianco e nero che raffigurava una ragazza dal sorriso brillante e un ragazzo più grande di lei di diversi anni, che era intento a guardarla.

-Forse non ti ho amato, ma ho apprezzato il fatto che tu mi abbia accettato anche se il mio cuore apparteneva ad un altro.
sussurrò lei al ragazzo raffigurato nella foto, per poi dirigersi in un’altra stanza della grande casa dove aveva ricevuto la telefonata il giorno di Natale e dove aveva bruciato la lettera.

Non si era mai ripresa il suo cuore, anche se erano passati 37 anni.

  
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