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Autore: Mirae    14/06/2012    2 recensioni
dal testo: “Odio il giallo, l’arancione, il marrone e il verde. Tra questi quello che odio di più è l’arancione. Però è strano: io adoro il deserto e odio i colori che lo descrivono maggiormente. L’arancio della sabbia all’alba, il giallo che assume a mezzogiorno e il marrone all’imbrunire...”
2^ classificata al contest "Un pizzico di drammaticità, introspezione, nonsense e sovrannaturale" indetto da
SherryDMP con 47/50.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nickname e autore: Mirae
Titolo storia: La gente ha un’insaziabile curiosità di conoscere tutto, tranne ciò che  vale la pena conoscere.
Genere: introspettivo
Rating: verde
Avvertimenti: one-shot
Pacchetto scelto: (Alice) – La gente ha un’insaziabile curiosità di conoscere tutto, tranne ciò che              vale la pena conoscere.
Luogo:deserto
Introduzione/riassunto: dal testo: “Odio il giallo, l’arancione, il marrone e il verde. Tra questi quello che odio di più è l’arancione. Però è strano: io adoro il deserto e odio i colori che lo descrivono maggiormente. L’arancio della sabbia all’alba, il giallo che assume a mezzogiorno e il marrone all’imbrunire...”
Note: la citazione riguardo i colori del neolitico è tratta da “Il linguaggio della Dea” di Marija Gimbutas”. Si tratta di un libro davvero interessante che, cito dalla quarta di copertina, ‘riporta alla luce la civiltà pacifica dell’Europa antica e i simboli della Dea, prima della nascita delle religioni patriarcali’. [Per chi ne fosse interessato/a, avverto che costa la bella cifra di euro 36,00].







“Signorina Shore, prego si accomodi”.
Si alzò sbuffando. Odiava quelle sedute, ma dopo quello che era successo alla sua famiglia il tribunale l’aveva praticamente obbligata ad andare da uno strizzacervelli. Temevano forse che sarebbe diventata uno psicopatico come quello che le aveva portato via i suoi congiunti?
Lo studio del dottor Morrison era arredato classicamente: un’elegante scrivania in noce con due poltroncine, un divanetto, l’immancabile chaise longue, mentre alle pareti spiccavano la sua laurea e innumerevoli attestati più un bellissimo olio su tela raffigurante Narciso nell’atto di specchiarsi nel fiume. I muri erano stati affrescati di bianco e pure tutto il mobilio era del medesimo colore, perfino la libreria! Solo la scrivania e la chaise longue offrivano una macchia di colore.
Melissa amava i colori, non proprio tutti, certo, e quell’ufficio le dava l’impressione di riflettere un’assenza di personalità. Si chiese come mai una persona così potesse fare lo psicologo. Mah!
“Allora, Melissa, come stai?”
Appena aveva varcato la soglia dello studio, Eric, così si chiamava colui che la seguiva, si era alzato e le aveva teso la mano sorridente. Aveva circa trentacinque anni, capelli e occhi scuri e la pelle perennemente abbronzata.
Vedere quella pelle abbronzata le fece ripensare alle estati che trascorreva al mare, con i suoi genitori e i fratellini e a quel ricordo le lacrime le salirono prepotenti agli occhi.
No, non posso piangere, non ora, altrimenti quello riprende la sua solita tiritera, pensò, mentre, facendo violenza su se stessa, le ricacciò indietro.
“Bene, dottore. Oggi sto molto bene”.
“Bene. Allora possiamo cominciare subito. Accomodati pure sulla chaise longue”.
Le piaceva sedersi lì sopra. Se avesse avuto la possibilità economica ne avrebbe comprata una anche lei. Non di pelle, però! Odiava la sensazione di appicicaticcio che le dava quel materiale in estate; preferiva di gran lunga il fresco e più pratico cotone!
“Di cosa vogliamo parlare?” Odiava quelle sedute, ma almeno Eric lasciava che fosse lei a incominciare il discorso. E la risposta le venne spontanea. “Di colori”.
“Colori?”
Dio, perché tutti pensavano che, dato il lutto che le era capitato, avesse perso amore verso l’esistenza? Eppure mai come da quella sera aveva amato così tanto la vita! E i colori ne erano la sua manifestazione più eclatante! Come anche i profumi. In quel momento, però, aveva voglia di parlare di colori. Ai profumi ci avrebbe pensato la prossima seduta.
“Sì, colori! Oggi sono dell’umore per affrontare solo questo argomento”. Pungente come ogni volta che veniva contraddetta. Aveva sempre avuto questo brutto vizio, sin da quando era una bambina: sua madre glielo faceva notare sempre. Eric, invece, pensava... già cosa ne pensava lui di questo suo lato del carattere? Oh, beh, magari ne avrebbero parlato in un’altra seduta, forse dopo quella sui profumi.
“Bene, allora, quali colori ti piacciono e quali no?”
“E perché devo essere io a parlare per prima? Non potrebbe cominciare lei questa volta?” Domanda assurda, lo sapeva bene: era lei in analisi, mica lui, che, detto tra parentesi, era colui che doveva analizzarla. Cielo, che brutta parola le era venuta in mente!
“Non ti hanno mai detto che non si risponde ad una domanda con un’altra domanda?” Le piaceva, Eric. Magari in un’altra occasione sarebbero anche potuti diventare amici.
“L’ha appena fatto anche lei, dottore”.
“Preferisco che tu non mi dia del ‘lei’: mi fa sentire più vecchio”.
“Va bene. Allora: cominciamo dai colori che odio, visto che sono pochi. Odio il giallo, l’arancione, il marrone e il verde. Tra questi quello che odio di più è l’arancione. Non saprei dire il motivo, quindi non chiedermelo, però, non lo so. Non mi piace e basta. Forse, chi lo sa, il mio corpo rifiuta l’energia che sprigiona questo colore. Però è strano: io adoro il deserto. L’ho visto per la prima volta alcuni anni fa, durante un viaggio con la mia famiglia in Egitto. Ero, cioè eravamo, alla piramide di Zoser e lì, davanti a me si estendeva l’immensa distesa del Sahara. Avrei voluto abbracciarlo. Non so come mai, ma mi sono sentita parte di esso. Comunque, come ti stavo dicendo, è singolare che ami il deserto e poi detesti proprio i colori che lo descrivono maggiormente: l’arancio della sabbia all’alba, il giallo che assume a mezzogiorno e il marrone all’imbrunire...”
Si fermò un attimo per raccogliere al meglio i pensieri.
“E il verde? Pensi alle oasi?”
Le oasi! Che stupida! Non ci aveva mai pensato. Le oasi erano ciò che di più familiare la gente associava al deserto, assieme alle dune. Ma lei era diversa dalla maggior parte delle persone.
“No, veramente per me il verde è legato al deserto perché un tempo, e sto pensato in special modo al Sahara perché per me quello è IL deserto, quella immensa distesa di sabbia era in realtà una ricca prateria. Te la immagini una prateria al posto del deserto? Con i dinosauri... no i dinosauri nel neolitico non c’erano più, però volevo dire: questa sconfinata prateria con animali, uomini e donne che al fuoco incerto di qualche falò dipingevano le grotte con i colori che avevano a disposizione? Il bianco per i morti, il nero per la fertilità e il rosso per la vita”.
Sul suo taccuino, Eric annotò che aveva citato per prima cosa i morti e che i colori che menzionava erano legati da una parte ad un luogo che sentiva di amare, mentre dall’altra quello stesso posto era comunque una zona inospitale. Melissa, però, non aveva minimamente accennato a quel particolare: anzi, lei lo vedeva come un ambiente pieno di vita, ed Eric scrisse anche questo. Un’altra cosa di cui prese nota era che aveva associato il rosso alla vita, anziché alla morte. Poi ci ripensò e cancellò quest’ultimo appunto: tutti avevano dato contro alla sua paziente sin dal giorno successivo alle esequie dei suoi familiari solo perché aveva cominciato a vestirsi di rosso. Gli assistenti sociali avevano deciso di ricorrere al tribunale per obbligarla a quel ciclo di sedute per farla ‘guarire’. Ma guarire da che cosa? Secondo lui, Melissa era sanissima. Certamente, però, un aiuto psicologico in quel frangente le poteva fare solamente bene, ma aveva deciso di non ricorrere alla terapia farmacologia, proprio perché non ne vedeva il motivo. Da quello che aveva capito, la ragazza, dopo aver visto la morte in faccia, si era attaccata ancora di più alla vita. Non vestiva di rosso per un morboso attaccamento al sangue, piuttosto perché era il colore che maggiormente associava alla vita! Decise comunque di stuzzicarla ancora un po’. Durante le sedute aveva notato che era piuttosto suscettibile e non amava essere contraddetta, ma di quel lato del suo carattere ne avrebbero parlato in seguito, quando lei si sarebbe sentita pronta ad accettare ulteriori critiche.
“Perché hai associato il bianco ai morti, il nero alla fertilità e il rosso alla vita? Il bianco indica la purezza e il nero la morte”.
“Sì, al giorno d’oggi i colori vengono personificati così, ma nel neolitico, quando il deserto era una verde pianura, gli uomini primitivi avevano associato il bianco al colore delle ossa, che erano un simbolo di morte, mentre il nero veniva assimilato all’utero, quindi alla gestazione. Di conseguenza il rosso è legato al sangue che esce durante il parto e perciò ad una nuova vita”.
“Per te quindi il sangue è associato alla vita che nasce?”
“Non solo alla vita che nasce, ma alla vita tutta. Infondo, anche nel romanzo di Bram Stoker ‘Dracula’, il conte Vlad viene maledetto perché ha osato bere del sangue, fonte di vita”.
“Dracula era un vampiro, un non morto”.
“Solo dopo aver bevuto il sangue”.
“E tu che pensi?”
“Che avesse amato così tanto sua moglie da essere impazzito quando lei si è suicidata”.
“Nella realtà le cose sono andate un po’ diversamente, però”.
“Vero, ma io mi riferivo al romanzo”.
“E ti è piaciuto?”
“Il romanzo? Non impazzisco per la letteratura dell’Ottocento, mi sembra piuttosto pomposa. Ho visto il film e sì, mi è piaciuto. Anzi: mi sono commossa che ho perfino pianto!”
“Hai... pianto?”
“Sì, ho pianto! La gente tende a considerare ‘Dracula’ come un romanzo o film dell’orrore, ma non si sofferma mai pensare che in realtà si tratta di una bellissima e tristissima storia d’amore”.
“E tu è così che lo vedi? Come una storia d’amore?”
“So perfettamente di essere diversa dalla maggior parte delle persone. Ho sempre creduto che il mio fascino consistesse proprio in questo, prima del funerale della mia famiglia. Il giorno dopo, quando vennero gli assistenti sociali per rendersi conto di come effettivamente stavo e mi videro con indosso un abito rosso, beh, la storia la conosci dottore... Ah, per la cronaca era lo stesso abito che vesto ora. Io amo il rosso. L’ho sempre amato. Ho soprattutto abiti invernali di questo colore perché l’inverno lo ritengo una stagione triste e cupa, e il rosso mi dà la giusta carica per affrontarlo”.
“È per questo che ti sei subito vestita di rosso: per affrontare la nuova realtà? Ed è per lo stesso motivo che ti abbigli con questo colore quando vieni alle sedute: le ritieni tristi e cupe?”
Non gli era sfuggito che alla sua prima domanda lo sguardo di Melissa si era adombrato immediatamente e probabilmente ora stava lottando con se stessa per non piangere.
Avevano già affrontato l’omicidio dei suoi cari, ma ogni volta, anche se sembrava che la ragazza ne parlasse con noncuranza, era evidente che quel ricordo le facesse male. Molto di più di quanto lei stessa non voleva ammetterlo. Prima o poi, però, quel dolore doveva affrontarlo in tutta la sua potenza, ma ora non voleva forzarla. Non la riteneva ancora pronta ad un simile passo.
“Torniamo al deserto. Hai detto tu stessa che è un posto che ami, eppure gli hai associato colori che odi, mentre il rosso, che adori, non lo hai menzionato, tuttavia non sarebbe forse l’elemento cromatico più facilmente collegabile a tale luogo?”
“Per via dell’elemento fuoco? Non saprei, cioè non ci ho mai pensato. Forse perché il deserto è una zona piuttosto ardente, quanti gradi ci sono di giorno?, e il rosso è una tinta calda, quindi ci sarebbe un surplus di calore, non credi dottore?”
“Non ti piace il caldo?”
“Io adoro l’estate e al freddo preferisco il caldo, ma questo non c’entra niente con i colori”.
“Hai ragione, però vedi: il colore non è mai una tinta netta, è un qualcosa di talmente sfumato che tocca svariati argomenti e tutti meritano di essere presi in considerazione”.
“Quindi non mi ritieni pazza perché invece di portare il lutto mi vesto di rosso?” La sua voce tremò, tradendo uno straziante desiderio di essere considerata una persona come tutte le altre con i suoi pregi e i suoi difetti, e le sue stravaganze. Perché Melissa era un po’ stravagante, ma chi non lo è? Infondo lo siamo tutti, a modo nostro. Un tempo, prima di quella dannata sera, amava vestirsi come una Lolita. Chissà cosa avrebbero pensato di lei gli assistenti sociali se quel giorno anziché trovarla vestita di rosso l’avessero vista conciata in quel modo? A questo pensiero scoppiò a ridere. Una risata che le nasceva dal profondo del cuore, ma che lasciò perplesso il dottor Morrison. Del resto, come poteva non essere rimasto sorpreso da quello scoppio di ilarità ignorando i suoi pensieri?
“Oddio, scusami”. Si asciugò le lacrime che le stavano uscendo dagli occhi: era da tempo che non rideva così di gusto. “Lo so che la maggior parte delle persone pensa che chi ride da solo è pazzo, però stavo pensando a quanto ero stravagante una volta: sai che amavo agghindarmi come una Gothic Lolita? Con una gonna lunga fino al ginocchio con una forma a campana data da varie sottovesti di tulle, corsetti, camicie bianche con maniche a palloncino e cappelli. Tu mi ci vedresti vestita così? Ecco, magari alla prossima seduta verrò vestita così, infondo è da tanto che non mi agghindo più in quel modo... così capirai meglio perché prima sono scoppiata a ridere in quel modo”.
“Ammetto che mi hai incuriosito quando sei scoppiata a ridere: è stata la prima volta che hai riso, qui, nel mio studio. A proposito del bianco, prima lo hai associato alla morte, ed è stato il primo della triade che hai menzionato. Ti va di parlarne?”
“A onor del vero, non sono io che lo dico, ma lo avevo letto nel libro di un’archeologa di cui adesso non ricordo il nome... Gimbutas, mi pare. E comunque io lo associo alla Divinità”
“Alla Divinità?”
“Sono Wiccan: per me il bianco è associato alla Divinità, il rosso agli Elementi e il nero agli Antenati. Non credo di averlo citato per primo per un motivo particolare. Forse perché nell’alfabeto la ‘b’ viene prima della ‘n’ e della ‘r’. E non l’ho inventato io l’alfabeto. Invece, per i Tibetani il bianco indica mancanza di colore, quindi povertà, o almeno così ho letto in un romanzo”.
“E di questo studio, delle sue pareti e del suo mobilio che ne pensi? È minimalismo o povertà?”
“Mi sa tanto di ambiente asettico, impersonale”.
Annotò anche questo. “Viva la sincerità. Ma torniamo al deserto e ai suoi colori. L’arancione, che quello che odi di più, lo hai associato all’alba. Non ti piace l’alba?” Quella strana teoria dei colori lo aveva incuriosito parecchio.
“No. Un nuovo giorno inizia, è vero, ma in questo modo muore la notte. E io adoro la notte. La sua oscurità ricca di colori. Sì, hai capito bene: noi occidentali riteniamo il bianco come la somma di tutti i colori, invece io ritengo che questi sono presenti proprio nella notte, come i sogni. Di giorno il colore è tangibile, ok, ma di notte, non so, è diverso... E poi c’è il silenzio, un silenzio che amplifica tutto, anche il tuo respiro, il battito del tuo cuore. È un momento magico la notte, e l’alba rompe quest’incantesimo”.
“E anche il verde, che hai accumunato ad una prateria ormai estinta, non ti piace: perché?”
Cominciava a stancarsi. Quei colori non le erano mai piaciuti, punto. Non le era mai passato per la mente scoprire per quale motivo. Era sempre stata curiosa, è vero: quando era piccola e i suoi genitori le raccontavano le storie, lei voleva sempre sapere il perché e il per come, col solo risultato di sfiancarli, ma non si era mai interrogata sui motivi dei suoi gusti. Forse perché era più semplice interrogare gli altri piuttosto che se stessi?
Questa volta i ruoli si erano invertiti: toccava al dottor Morrison domandarle il perché e il per come, sfiancandola.
Tutte queste domande, però le avevano fatto capire una cosa.
Lei aveva sempre considerato gli altri con una sorta di superiorità. Aveva sempre ritenuto che la gente avesse un’insaziabile curiosità di conoscere tutto, tranne ciò che valeva la pena conoscere, mentre lei si reputava una persona profonda, che andava al cuore delle cose. Invece... anche lei era una persona superficiale. Stava riflettendo sul fatto se fosse necessario o meno rendere partecipe il dottor Morrison di questa sua presa di coscienza: farlo avrebbe comportato certamente una riduzione delle sedute, almeno lo sperava.
All’improvviso suonò una sveglia.
“Bene, direi che per oggi è tutto. Ci rivediamo tra quindici giorni. Prendi pure l’appuntamento con Claire”.
Freddo, professionale. Non sembrava affatto la stessa persona di poco prima.
Uscì da quell’ambiente asettico per immergersi nei colori, nei rumori e nei profumi del mondo.
Il deserto, però, restava in un angolino dentro di lei, ben custodito.
   
 
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