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Autore: ibelieveinJam    14/06/2012    2 recensioni
‘Non sono più quel John Watson’, ripeteva ai più che dicevano di trovarlo diverso.
‘Non sono più John Watson’, ripeteva fra sé e sé.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Okay, premettendo che non scrivo storie da tipo due anni, non mi linciate se fa schifo, non ha nemmeno tanto senso. Anyway, buon divertimento!
Le recensioni sono ben accette, pretty please, e prometto di non scrivere mai più. Forse. :D -Serena.

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La sua risata ruppe il silenzio.
Nessuno l’aveva sentito ridere nell’arco di mesi, tanto che Mrs Hudson quasi si pizzicò il braccio per paura di aver sentito male. John Hamish Watson non rideva dal 4 Maggio dell’anno precedente, per essere più precisi, e tutti sapevano il perché. Anzi, avevano ormai anche perso ogni speranza di far tornare indietro il vecchio John che tutti conoscevano.
Non sono più quel John Watson’, ripeteva ai più che dicevano di trovarlo diverso.
Non sono più John Watson’, ripeteva fra sé e sé.
Dopo tutto quel tempo non puoi più sperare di tornare come prima, illeso, senza cicatrici.
Non era la prima volta che gli succedeva, e lo sapeva benissimo: qualcosa dietro te la porterai per sempre.

Ogni mattina, da quel 4 Maggio, il dottor Watson si svegliava di soprassalto, correva in bagno, si bagnava un po’ il viso e passava dieci buoni minuti a fissare la cicatrice sulla spalla, ormai bianca. La fissava e, giorno dopo giorno, era sempre più convinto che quella fosse la cicatrice meno importante che avesse. Poi chiudeva gli occhi, li stringeva finché non sentiva le tempie pulsare e, vestitosi, acchiappava con un gesto automatico il buon vecchio bastone e se lo portava a spasso nel parco.

Di tanto in tanto faceva un giro al Barts, portava un caffè a Molly e chiacchierava un po’ con lei.
Poche volte gli era capitato di trovarsi, senza accorgersene, nell’ultimo laboratorio in cui lui e Sherlock avevano passato del tempo insieme. Ancora più raramente si era trovato sull’ormai famoso tetto dell’ospedale. Arrivava lì e poi cercava di capire come ci fosse arrivato, invano. Era sempre come se una forza superiore l’avesse trascinato su per quelle scale e l’avesse portato a sedersi su quel maledetto cornicione. Le prime volte i passanti da sotto si fermavano a guardare, un po’ preoccupati e un po’ incuriositi dallo strano tipo seduto in un luogo un po’ anticonvenzionale per riposarsi a metà mattinata.

Questo era quel poco che rimaneva di John Watson: un bastone e una testa quasi completamente svuotata, piena solo di angoscia e domande. Tante domande. Domande che sembrarono prendere una vacanza quando si scontrò per sbaglio con una giovane professoressa, tornando a casa in metro. Fu come se quello scontro lo avesse svegliato da un torpore che sembrava non aver mai avuto un inizio –figurarsi una fine, pensava John.
Una fine però ci fu, apparentemente, perché dopo un paio di secondi il dottore si accorse di quello che stava succedendo attorno a lui: tutto aveva ripreso a muoversi. Decise di prendersi altri due secondi però, perché insieme a questa piccola esplosione di coscienza del mondo era riaffiorato anche un piccolo ricordo. No, non era un ricordo. Un dejavu? Neanche. Era un cellulare, un laboratorio e un pizzico di adrenalina, e John impiegò esattamente due secondi per realizzare cosa avessero in comune queste tre cose con quello che stava succedendo adesso in metro, davanti a quella donna. Tutto aveva ripreso a muoversi, così come era successo molto tempo prima, solo poco dopo il suo ritorno dall’Afghanistan. John lo prese come un segno del destino –o qualcosa del genere- e non esitò, anche se con quattro secondi di ritardo, a presentarsi a quella donna che continuava imperterrita a fissarlo, con un ghigno dolce sul viso e gli occhi pieni di curiosità davanti a un uomo che non riusciva a decifrare.

-Mary, mi chiamo Mary, e lei si è macchiato la camicia col caffè!
-Oh, non è un problema, si figuri, piuttosto mi scusi lei se le sono praticamente caduto addosso!
Mary tentò di balbettare qualcosa, arrossendo leggermente: -Ma si figuri! Vuole che l’accompagni a prendere un altro caffè? Il suo è finito tutto a terra. Sempre se vuole, mi spiace, non volevo essere così irriverente, io-
-No, uhm, certo, possiamo andare, non avrei nulla da fare in ogni caso!

E, un caffè tira l’altro, Mary finì per essere invitata alla cena della vigilia di Natale al 221A di Baker Street, perché nel B John proprio non voleva tornarci, e comunque avrebbe cucinato Mrs Hudson, quindi tanto valeva pranzare proprio da lei, e poi lei era contenta di vederlo in compagnia.
Era stato servito il dessert, e a tavola erano seduti Greg, Molly, il suo nuovo fidanzato –niente di pericoloso questa volta, Mrs Hudson, John e Mary, e  Mycroft aveva appena bussato alla porta, di passaggio solo per un ‘buon Natale’ troppo freddo e distaccato per essere anche credibile.
L’argomento della serata era, ovviamente, la giovane Mary Morstan, professoressa di scienze astronomiche di un liceo Londinese. I capelli color rame, di solito raccolti a treccia, ora erano sciolti e lisciati, e facevano da cornice a un viso rossiccio, spesso sorridente. Sembrava la donna perfetta per John, a detta di Mrs Hudson, ed era subito diventata la migliore amica di Molly, con cui aveva subito iniziato a parlare di gatti e bebè. Greg l’aveva conquistata con un paio di battute e continuava a farle domande su John, perché gli voleva bene e, soprattutto, voleva che stesse bene. E tutti capirono che stava bene non appena Mary rispose a qualcosa e a John scappò una risatina. Greg rimase a bocca aperta, Molly lasciò cadere il cucchiaino nella mousse e Mrs Hudson si pizzicò il braccio, perché non poteva essere vero. Servirono esattamente quattro secondi a John per rendersi conto di quello che era appena successo, e mentre tutti erano ancora immobili, lui decise di alzarsi da tavola.

John Watson acchiappò automaticamente il bastone, scese le scale e rimase immobile a fissare il vuoto.
Non sentiva più niente se non la colpa che lo trascinava giù, perché non poteva permettersi di sorridere, perché il nuovo John Watson non poteva sorridere. Il sorriso di John Watson doveva rimanere sepolto insieme a chi, di sorrisi, ne aveva bisogno. John non aveva bisogno di sorridere, non aveva nessuno per cui sorridere. Mary non era Sherlock. Questo era tutto quello che importava per lui. Nessuno era Sherlock.

Purtroppo o per fortuna, questi turbamenti svanirono col passare dei giorni, e qualche mese più tardi una quarantina di persone erano tutte in ghingheri per il matrimonio tra medico e professoressa.
Era un aprile freddo e i neosposini avevano appena preso un aereo per le Alpi, perché Mary amava la Svizzera e John amava Mary. Ed era il 4 maggio quando i due tornarono a Londra, con due giorni di ritardo per colpa dei ritardi aerei. E il 4 maggio era un giorno triste, grigio e vuoto, quindi Mary decise di defilarsi al più presto appena arrivati in città. John si sentiva  in colpa, ma come i due precedenti anni si trascinò in cimitero, questa volta limitandosi solo a far scivolare una mano sulle lettere dorate della lapide prima di voltarsi e tornare indietro. Non disse una parola, e nell’arco di sette minuti era già su un taxi, di ritorno a casa.
E se c’era una cosa che avrebbe dovuto imparare in compagnia di Sherlock, era proprio di non fidarsi dei taxi.
Perché stavano svoltando a sinistra? E perché il tassista non ascolta quello che dico? Sarà un altro serial killer? Speravo di non dover più fare i conti con psicopatici  vari.. Ma John sapeva, in fondo, dove portava quel percorso. Sperava di sbagliarsi, ma poi perché lo stava portando proprio lì? Magari aveva sbagliato a dargli l’indirizzo, quanti scherzi che fa il subconscio. Ma no, non poteva essere.
E invece il taxi parcheggiò proprio di fronte al 221 di Baker Street. John chiuse gli occhi, prima di ripetere che –No, non è questo l’indirizzo che le avevo detto, deve portarmi a Conway Street. Conway Street, per favore.
Ma niente, l’uomo al volante non mosse un muscolo. Semplicemente aprì il finestrino, accese una sigaretta e rimase lì, aspettando che il suo passeggero scendesse. John aprì lo sportello dopo qualche minuto, e non fece neanche in tempo a girarsi per pagare che il taxi era sparito nel traffico londinese.
blip. Un messaggio. John raramente riceveva sms, soprattutto dopo quel maledetto 4 maggio.
Apri la porta. –SH
Il numero era privato, ma quelle due lettere alla fine del messaggio lo fecero trasalire.
Uno scherzo, e anche di cattivo gusto. Poteva essere stato Mycroft? Insomma, chi altri?
E sì, Mycroft era davvero un idiota, ed era sicuramente lui alla guida di quel taxi.
O qualche suo collaboratore. No, per niente divertente.
John si guardò intorno, salì i due gradini e si trovò di fronte al portone che per quasi due anni aveva significato per lui casa. Frugò nelle tasche, perché sì, portava con sé ancora le chiavi dell’appartamento.
E dopo due giri abbastanza incerti spinse il portone, chiuse gli occhi ed entrò dentro. Niente.
Cosa si aspettava di trovare? Sherlock era morto da tre anni esatti.
Morto, sepolto e compagnia bella. L’aveva visto suicidarsi. E l’aveva visto a terra, coperto di sangue.
Cosa sperava di vedere?
John si poggiò di schiena al muro, cercando di calmarsi almeno un po’. Era uno schifo.
Cos’avrebbe dato per sentire ancora una volta quel- no, non può essere.
John si fece coraggio e, poggiatosi saldamente al suo fedele bastone, provò a salire le scale, un gradino dopo l’altro, con il cuore a mille e il respiro affannoso. Quella non era una semplice melodia. Quella non poteva suonarla chiunque. Le note malinconiche echeggiavano nell’atrio inconfondibili. Le scale sembravano infinite, e tutto girava un po’ di più quando John si trovò di fronte alla porta d’ingresso del 221B. E prima che poggiasse la mano sulla maniglia, qualcun altro l’aveva già aperta.
Una sagoma scura, solo il volto illuminato.
Una cravatta, un ghigno esaltato e una calibro 38 furono le ultime tre cose che gli occhi pieni di speranza del dottor Watson videro, in quel del 221B, Baker Street.

   
 
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