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Autore: screaming_underneath    16/06/2012    16 recensioni
[Storia seconda classificata al contest indetto da Stellalontana sul forum di EFP - Quello che a loro (non) piace, sezione Twilight e vincitrice del premio speciale "caratterizzazione" per Paul Lahote]
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Paul Lahote.
Il signore dell'Ira, delle botte e delle incazzature. Il lupo più intrigante e fastidioso di tutti, quello con le battute imbarazzanti, le risate pesanti e la ricerca perenne di qualcuno con cui fare a pugni, per un motivo qualsiasi.
Ma qualcuno si è mai chiesto come siamo arrivati ad avere il Paul di Eclipse e Breaking Dawn?
Vi siete mai posti la domanda... ma com'era da piccolo? Perché è sempre arrabbiato? E' stato diverso, un tempo?
Un luungo flashback per scoprirlo insieme. Perché sarà anche uno stronzo, ma merita un po' di attenzioni e un lieto fine anche lui.
«Zitto. Non stiamo parlando di me, Paul. Q-quella cosa... che hai fatto...»
«Ti prego, chiamala con il suo nome. Scopare, trombare, fare un mambo orizzontale, fare sesso, fare l'amore... l'elenco è infinito, signor Perfettino. E alla fine, è sempre la stessa cosa... Il vecchio su-e-giù!»
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Paul Lahote, Quileute, Rachel Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, Più libri/film
- Questa storia fa parte della serie 'Battlefields'
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Armors
 
Anche i dannati amano.
[La chiamata dei tre - S. King]
 

 
La porta di casa sbatte forte e il rumore di passi si sdoppia: gli uni dalla veranda sino al vialetto in ciottolato, gli altri veloci per le scale, diretti verso la camera dei suoi.
Paul stringe ancora di più il cuscino sulla testa, inspirando a fondo per scacciare il pianto e non sentire il rombo della vecchia Ford in partenza; anche quello, sommato a tutto ciò che è stato costretto a sentire nelle ultime due ore, potrebbe arrivare a minare la sua corazza alla Batman, distruggendolo. La Corazza è l’unica difesa che possiede, quando il Casino inizia: perché sua madre avrà sempre qualche scusa fantasiosa per i suoi ritardi e suo padre sarà sempre ubriaco quando infine deciderà di affrontare la moglie, perdendo miserevolmente la battaglia.
Durante i litigi dei genitori – ma litigio mal di si addice a loro: Paul ha visto un film sulla Grande Guerra, una volta, e potrebbe giurare che le grida e le esplosioni che provengono ogni sera dal salotto di casa sua sono ben peggiori di qualche colpo di cannone austriaco – la Famiglia Felice Lahote non esiste più, non è mai esistita. Ci sono solo due estranei che si vomitano addosso parole e lanciano sedie e rompono specchi e vetri. E Paul? Chi è Paul? Nessuno si ricorda del silenzioso bambino del piano di sopra, quello che finge di dormire anche se non è mai stato più sveglio in vita sua, con gli occhi sbarrati e il cuore a mille. Paul che morde il cuscino premendosi forte le mani intorno alla testa, con indosso la sua corazza da Batman interiore perché
(Dio, falli smettere, ti prego Dio Buono...)
non riesce a smettere di ascoltare
(... prometto che faccio il bravo)
vorrebbe solo un bacio della buonanotte, una carezza della mamma
(“NO! TU NON MI PORTERAI VIA MIO FIGLIO!”)
vorrebbe solo una famiglia come tutte le altre
(“NON MI PARLARE CON QUESTO TONO, SUSAN!”)
vorrebbe poter correre da papà e abbracciarlo forte, per sussurrargli che gli vuole bene, che tutto sarà ok, che adesso è l’ora di dormire, dei sogni belli dove nulla va storto e la Famiglia Felice esiste ancora. 
Ma Paul ha otto anni, è lui il bambino. Così rimane in ascolto e ogni singhiozzo di Chuck Lahote non è che una piccola capriola del suo stomaco e un palpito più forte del suo cuore; ascolta, in silenzio, rannicchiato tra le coperte profumate di fiori che si è rincalzato da solo, un po’ alla bell’e meglio, quando gli è stato chiaro che sua madre non sarebbe salita da lui nemmeno quella sera. 
Le pareti azzurrine a nuvolette della sua camera non bastano a calmarlo, anche quando il peggio è passato e pure suo padre è scivolato piangendo nel sonno: pensa a sua mamma, che sarà chissà dove, forse a bere anche lei, forse con il misterioso uomo che Paul ha sentito tante volte nominare da papà; pensa alla colazione della mattina seguente, dove i suoi nemmeno si rivolgeranno la parola e gli baceranno una guancia in silenzio, accompagnandolo allo scuolabus mano nella mano solo per non farlo insospettire.
Paul sa tutte queste cose ma non dice nulla, anche se ha preso l’abitudine di tenere la sua Corazza Speciale indosso sempre, notte e giorno. Non vuole fare la figura del ragazzino debole a scuola, scoppiando a piangere per qualche pensiero triste. Lui deve essere forte, deve farlo per tutti e tre, perché non vuol finire come il suo amico Mark, che si lascia sballottare tra la vecchia casa al lago del papà e il nuovo fidanzato della madre senza dire una parola
(patrigno, si chiama patrigno, Paulie)
senza che i genitori capiscano quanto lui odi quella situazione. Perché deve fare il bravo bambino; e i Bravi Bambini di questo mondo stanno zitti al loro posto, e non si intromettono nelle cose dei grandi; i Bravi Bambini sono quelli che si meritano un papà e una mamma innamorati e buoni e gentili e Paul, che ne ha un paio che forse sono un po' difettosi, ha tutta l'intenzione di tenerseli ugualmente. Così stringe i denti e va avanti, di nuovo, come ci si aspetta che faccia.
Perché Paul è forte, deve esserlo.
 
«Tuo papà e tua mamma litigano spesso?»
A ricreazione, Mark lo strappa dai suoi pensieri con quella domanda a bruciapelo, ma Paul lo guarda pulirsi le mani appiccicose di merendina sulla maglietta di Spiderman e sta zitto, mentre l'amico gli lancia un'occhiata che è tutta comprensione e compassione.
Lui ci è già passato, è un esperto in quel campo. È diventato persino amico del vecchio avvocato Jackson, il legale di suo padre, e capita spesso che quel simpatico signore gli allunghi una caramella o uno cioccolatino, di quelli con il ripieno di caffè che non dovrebbe mangiare. Al signor Ames invece, l'avvocato di sua mamma, non si avvicina mai troppo: ha quel suo modo di camminare, come se strisciasse, che lo ha sempre dissuaso dal chiedergli una delle mentine che si ingurgita ogni
due minuti. O almeno, così ha detto a Paul.
«Sì. Quasi tutte le sere, ormai. Dici che smetteranno? Forse litigano per colpa mia». Senza volerlo, la frase gli scappa di bocca prima che riesca a fermarla, e Paul ha l'accortezza di portarsi alle labbra un pezzo enorme dal suo panino con uova e mortadella, così da non dover aggiungere più niente. Quella è la sua più grande paura, anche se non l'ha mai detta con tono di voce più alto di un sussurro, e solo e soltanto all'orecchio del suo orso di pezza, quello che se ne sta in fondo ai piedi del suo letto e gli funge da confessore.
«Ma no. Stanne certo, Paulie. Mio papà me lo ripete in continuazione... il tuo no?» Adesso Mark sembra sorpreso; quella è un'evenienza che non ha mai preso in considerazione. I grandi sono strani e litigano per le cose più strane, ma non si è mai domandato se parte di quegli urli fosse stata anche colpa sua. Lui, in fin dei conti, è solo un bambino. Una frase che sua madre ha ripetuto per tutto il tempo che sono andati avanti i colloqui in tribunale, per decidere a chi sarebbe stato affidato.
«No. Ma credo che sia perché mamma è tutto il tempo fuori e papà beve troppo. I tuoi perché si sono separati?» Paul sussurra appena, quella è una discussione privata, solo di loro due, e l'intervallo sta per finire e lui è curioso di sapere se tutti i genitori del mondo litigano per le stesse cose o solo i suoi gli sembrano così... stupidi.
«Mamma si è innamorata di Frank. Tutto qui. L'ha detto a mio padre, hanno urlato per un bel po' e poi si sono separati. Adesso lei vive a Port Angeles con il suo ragazzo e io la vedo una settimana sì e una no. Qualche volta viene lei qui a Tacoma... Non è così male, una volta che ti sei abituato. Ma vedrai, non succederà anche a te. Possono sempre fare pace, no?» Mark cerca di salvarsi all'ultimo, vedendo la faccia delusa dell'amico, e Paul annuisce solo per farlo contento.
Vorrebbe dirgli che no, non crede che faranno pace. Vorrebbe dirgli che no, non crede che si abituerà mai a vederli litigare e tirarsi sedie e gridare come dei matti, ma che vorrebbe lo stesso che continuassero, se ciò volesse dire rimanere Una Famiglia... Ma la campanella suona e la maestra li spinge di nuovo dentro classe con un sorriso, e Paul non dice nulla, come sempre.
Ha otto anni, e il mondo lo ha morso per la prima volta.
 
~
 
«Fa' come vuoi. Non m'importa».
«Non dire così. Lo sai che mi dispiace, Paul. Sarei voluto venire, sul serio». Suo padre lo guarda con aria mesta, la solita di sempre. È un uomo piccolo, un po' insignificante, che ha la brutta abitudine di stringersi nelle spalle, come per occupare ancora meno spazio nel mondo. Suo figlio lo disprezza per questo, così come disprezza la piega che ha lasciato prendere alla loro vita dopo il divorzio, come se non gliene fregasse più di niente e di nessuno. 
Gli occhi di Paul scorrono sul viso di lui, lentamente, soffermandosi sulle rughe precoci che gli solcano gli occhi scuri – identici ai suoi – e la bocca, per poi scendere fino alle sue braccia magroline, al petto scarno e ossuto che tende la camicia troppo larga per lui. Ha il colletto tutto spiegazzato, ma né Chuck Lahote né il figlio tredicenne ci fanno più caso, ormai. I pantaloni che Paul indossa e la sua t-shirt stinta ne sono la prova. Non c'è nessuna donna in casa, ecco cosa urlano. Non c'è nessuno e  nessuno più ci sarà.
«Ok. Ci vediamo». Paul si lancia in spalla lo zaino con il completo da football e schizza fuori di casa senza altro saluto se non quel borbottio; Chuck nemmeno risponde. Le loro conversazioni si limitano sempre a poche parole sbrigative – passami il ketchup, lava quei piatti, rifatti il letto, accendi la TV, buongiorno, buonanotte... – dette in fretta, con un tono appena sopra il sussurro. È raro che scoppi una lite, perché il padre è troppo buono e remissivo e il figlio troppo arrabbiato con il mondo intero perché riescano veramente a scontrarsi.
 
«'fanculo». Un sasso dalle dimensioni di un uovo prende l'orbita, arrivando fino ai piedi di Mark, che lo aspetta a metà vialetto già vestito di tutto punto per la partita. Ha un sorriso sulle labbra, ma quando vede la smorfia che incupisce il viso dell'amico corre ai ripari e si cala in una maschera neutrale. Ha già capito il qualcosa che non va.
«Tuo padre non viene». Non è una domanda. Mark sa bene come funzioni, la testa di un divorziato che lavora a pieno ritmo per mantenere figlio ed ex-moglie.
«Già. Non importa. Non cambia nulla. Se ne sarebbe stato zitto in un angolo stretto dentro quella sua camicia spiegazzata senza neanche parlare con gli altri genitori, e io sarei morto di vergogna al posto suo» sputa fuori Paul, passandogli accanto senza nemmeno rallentare. Una piccola parte di lui vorrebbe solo correre dentro casa, rannicchiarsi nel suo letto al piano di sopra e piangere, ma non può proprio. Come Capitano della sua squadra, non può certo mostrarsi come il debole frignone che è proprio il giorno dell'inizio del mini-campionato indoor della riserva.
"Ricorda la Corazza, Paul."
Ma anche quella non funziona tanto bene, ultimamente. Gli va stretta, come il pullover che suo padre ha lavato senza ammorbidente e che adesso non gli passa più dalla testa. È cresciuto lui troppo in fretta oppure è Batman che si è preso la sua innocenza?
Forse dovresti solo smettere di piangerti addosso per qualcosa di cui non hai colpa.
Ma non è forse quello che continua a fare anche il suo vecchio? Piangersi addosso va di moda, in casa Lahote.
«Mi spiace, Paulie».
«Fa come me. Fregatene. Non devi sempre essere dispiaciuto, Mark» gli ringhia contro, con più cattiveria di quanta intendesse. Vede l'amico indietreggiare, tendendo le mani in un gesto di scusa, e il senso di colpa che convive con Paul si fa più forte, pungendogli le costole. Il suo migliore amico viene a trovarlo solo qualche volta al mese, quando riesce a farsi accompagnare fino a Forks dal compagno della madre senza che questi protesti troppo, e ogni volta lui sembra trovare il modo di allontanarlo ancora di più da sé, come se il trasloco non avesse già minato abbastanza la loro decennale amicizia. «Scusa. Scusa. Dai, andiamo. Con te in campo faremo faville, oggi» prova a salvarsi con un complimento, e già sa che l'amico lo perdonerà, perché questo è il suo più grande pregio: per quanto Paul sia stronzo e potenzialmente egocentrico e menefreghista, alle volte, Mark lo sopporta e lo sostiene sempre.
Il ragazzo si avvicina di nuovo, e l'ombra di paura e sottomissione che aveva potuto leggere nei suoi occhi si dissolve, per fare di nuovo largo all'eccitazione. Allunga un pugno contro la spalla dell'altro, con un sorriso tutto denti che ne fa spuntare uno piccolo anche sul volto di Paul. «Ma certo, avevi dei dubbi, Big Paulie? Faville! Wauuuu!» grida, rivolto al bosco. Un vecchio corvo risponde con un gracchio infastidito e il Collie dei Littlesea intona una nota da lupo solitario decisamente migliore dello scadente stridio di Mark Turner, ragazzetto della periferia di Tacoma.
Ma “Paulie” ride, stavolta più apertamente. Suo padre gli ha dato buca per l'ennesima volta e i Giovani Lupi di LaPush sono destinati alla solita, gloriosa sconfitta, ma Mark vede sempre tutto in modo così ottimistico che non può non rimanere contagiato dalla sua allegria, anche in una delle sue giornate-no.
… E 'fanculo a Batman, alla sua corazza per niente inespugnabile, a genitori mezzi pazzi e alimenti da pagare e visite dallo psicologo e quella rabbia che gli corrode lo stomaco notte e giorno e sembra volerlo inghiottire e a fidanzati troppo giovani e dalla pelle troppo abbronzata e occhiali firmati dentro camicie sportive stirate di fresco e i capelli di sua madre sempre acconciati alla moda da un parrucchiere che deve guadagnare in una settimana lo stipendio bimestrale di suo padre e... sì, 'fanculo anche a Paul Lahote, che in tutto questo è rimasto fregato come un coniglio in trappola e non riesce a fare nient'altro che disprezzare suo padre e mordersi le unghie fino a vedere puntini di rosso fiorire sulla pelle e lagnarsi con se stesso strascicando il culo.
'fanculo a tutto.
Una risata con un amico è un balsamo che vale questo ed altro.
 
~
 
«Che schifo, fratello. Sul serio. Mia madre ti ucciderà!» Mark riesce appena a trattenere un conato, portandosi entrambe le mani alla bocca. Dalla gola, un gorgoglio sinistro annuncia ad entrambi che il lussuoso pranzetto della Nuova Signora Hunt sta per risalire a vedere il blu mare estivo che colora il cielo.
«Ucciderà te, se vomiti nella tenda. Va' fuori, per favore, prima di inzupparmi il sacco a pelo!» Paul tira fuori la lingua e arriccia il naso, spingendo l'amico verso la cerniera della piccola canadese.
«No. Dovrei ucciderti io. Come glielo spiego a mamma? “Ehi, la sai l'ultima? Paul non è riuscito a tenersi a freno e... hai presente quella bella ragazza gentile che abbiamo incontrato in spiaggia questa mattina? Oh, nulla di particolare, a parte il fatto che se l'è s-sc-scop...»
«Mi rifiuto di credere che tu non riesca a dire una parola così facile, Markie. Scopare. S-c-o-p-a-r-e. Su, non è difficile. Tra poco facciamo sedici anni, per la miseria!» lo interrompe l'amico, scandalizzato. Si lancia seduto sul suo materassino gonfiabile, senza smettere di adocchiare la grossa chiazza ben visibile sul copriletto della madre di Mark.
«Non mi interrompere, per favore. Il fatto che tu sia così... sboccato, non implica che debba esserlo anche io, signor nuovo Ron Jeremy dell'anno!» sbotta, puntando un dito contro Paul.
Lui ridacchia, divertito dalla situazione. «Oh, ma certo. Com'è che ti risulta tanto difficile usare certe parole veramente volgari, ma puoi nominare a memoria almeno tredici o quattordici nomi di attori e attrici PORNO, amico mio?»
La faccia di Mark vira dal bianco al violaceo in meno di otto decimi di secondo, il tempo necessario perché riesca a gesticolare all'altro di non fiatare e rimanere in ascolto, in cerca di rumori dall'esterno. Solo la TV del nuovo marito di sua madre, dalla piazzola vicina, e il rabbioso abbaiare del cagnone dei vicini, qualche camper più in là di loro. Nessun orecchio indiscreto, insomma. «Zitto. Non stiamo parlando di me, Paul. Q-quella cosa... che hai fatto...»
«Ti prego, chiamala con il suo nome. Scopare, trombare, fare un mambo orizzontale, fare sesso, fare l'amore... l'elenco è infinito, signor Perfettino. E alla fine, è sempre la stessa cosa... Il vecchio su-e-giù!» Paul batte le mani, allungandosi per quanto è possibile sul suo piccolo giaciglio. Ha un sorrisone a tutti denti che starebbe bene sul migliore assuefatto alle droghe pesanti del mondo.
«Scegli la parola che più ti aggrada e usala, o non ti farò parlare!»
«Bene, allora. Paul, tu non puoi scoparti la prima ragazzetta facile che ti capita a tiro. Non puoi portarla in questa tenda. Non puoi fartela sopra alle lenzuola di mia madre e soprattutto, non puoi e non devi e ti proibisco di fare sesso con qualsiasi cosa compresa la tua dannatissima mano destra quando io ti dormo di fianco. Ti prego, sul serio. Potrei morire dallo schifo».
Nuovo conato di vomito, e l'occhio di Mark che cade nuovamente sulla macchia nel copriletto non aiuta affatto. Si gira di nuovo di scatto e armeggia con la cerniera della canadese, per fuggire via.
«Scusa, amico. Bastava essere chiari, no? Queste regole non me le hai dette, quando mi hai proposto di venire in campeggio con Marito Giovane e Madre Depressa. Non pensavo ci fossero così tante restrizioni!» la voce di Paul lo raggiunge nello stesso momento in cui metà del pollo al chili di Maggie Hunt ottiene di essere rilasciato dal suo stomaco sotto forma di un violento fiotto di acido. La protesta dell'amico si perde nel rumore di Mark che rimette.
«C-ci sono, invece. Come ti è venuto in mente di fartela con me accanto che dormivo?» cerca di protestare flebilmente, una volta calmato il piccolo ottovolante incastrato in fondo alla sua gola.
«Beh, non è che tu abbia proprio protestato, eh? Hai russato tutto il tempo, angioletto!» Il testone bruno di Paul spunta fuori dalla piccola tenda, per sbattere le ciglia teatralmente, le labbra strette in una scadente parodia di una bambolina cinese.
«Non voglio sapere i particolari. Senti, c'è la pineta, oppure la spiaggia, se proprio non riesci a stare buono, ok? Ma non la tenda. Sopratutto se ci sono io all'interno. Puoi chiedere, se proprio non ce la fai, ma avvertimi, prima. Siamo d'accordo? Ah, e lava quello schifo, per favore. Non dare a mia madre un motivo per sbatterti fuori di qui. Ha accumulato abbastanza odio nei tuoi confronti, in questi ultimi dodici anni».
La ramanzina sembra finita. Con un sospiro, Mark rientra nella tenda, avendo però l'accortezza di tenersi una mano all'altezza della bocca. Meglio non fidarsi.
«Va bene, mammina!» lo sfotte Paul. Ha raccolto alla bell'e meglio le sue coperte e sta armeggiando nel portafogli in cerca di qualche moneta quando gli squilla il cellulare. Con uno sbuffo, lancia il pacchetto di biancheria verso un Mark sempre più orripilato. «Tieni qui un attimo, ok? Pronto, pa'? Mi senti?»
Gli risponde una scarica elettrostatica e Paul rotea gli occhi teatralmente, uscendo dalla tenda in cerca di punto dove la comunicazione non cada.
«Papà? Ehi?» nuova scarica, che si propaga lungo la sua nuca. “Smettila di fare lo scemo. È solo il tuo stupido, vecchio telefono cellulare, non un presagio di morte.”
Ma la voce di Chuck gli giunge, lontana per la distanza e piuttosto inquietante; e la recezione, per quanto cattiva, non lo è abbastanza per coprire quelle cinque parole.
Cinque parole.
E il mondo esplode.
 
~
 
«Vai via».
Nessuna spiegazione.
(Non posso. Non puoi, ricorda, Paul.)
«Non credo proprio. Non mi muovo di qui fin quando non apri, Big Paul. Cos'è, il gatto ti ha mangiato la lingua? O forse la mononucleosi ti ha reso più brutto di quanto non fossi prima? Ah, no. Fammi indovinare. Sono loro, vero? I tuoi nuovi amichetti. Sono loro che ti hanno mangiato la lingua? Non ti permettono nemmeno di rivolgermi la parola, adesso? Eh? Sono ad un livello troppo inferiore al tuo, Lahote?»
Fa più male il tono di voce con cui il suo migliore amico ha pronunciato il suo cognome o il fatto che lo accusi come tutti gli altri? «Non parlare di cose che non sai, Mark. Va' via». Paul stringe più forte le ginocchia intorno alla testa, respirando profondamente. Non può correre il rischio di trasformarsi quando è ancora in casa, e già sente il Lupo che gli preme nel petto, scalpitando per uscire.
Ricorda quello che ti ha detto Sam. Respira profondamente, evita lo scontro, sii razionale. Spingi il Lupo in basso.
«Ok, allora. Parliamo di quello che so, così va meglio? So che il mio migliore amico non si è fatto sentire per quasi un mese. So che tuo padre mi ha detto che sei stato molto malato. So che ha mentito, perché mi ha tenuto lontano da casa vostra per due settimane, quando sai benissimo che un po' di tosse e muco non sarebbero bastati a respingermi. Dici sempre che sarei un ottimo medico, perché ci so fare con la gente e le malattie non mi spaventano e forse sono anche intelligente. E allora cos'è che non va, Paul? Sono davvero quei due ragazzi che ti hanno allontanato? Cosa fanno, una specie di lavaggio del cervello, per caso? Sarei rimasto con te lo stesso. Non so cosa sia successo, ma non pensare di scaricarmi così. Cambiato o no, nuovi amici o no. Fino in fondo, giusto? Giusto, Paul?» Adesso Mark è sull'orlo delle lacrime e Paul lo capisce, perché ha quel suo modo tutto speciale di far stridere la voce per non farla tremare. È dura capire che nulla, alla fine, è cambiato all'infuori di lui.
«No, Mark. Non è più fino in fondo. Io... non posso semplicemente...»
«Cosa? Far finta che quest'ultimo mese sia stato come tutti gli altri? Io potrei. Non m'importa di quel che è successo. Se non mi vuoi raccontare nulla... sta bene, fratello. Ma non provare a tagliarmi fuori. Per favore» e anche se c'è rabbia, nella sua voce, le ultime parole sono lo stesso bagnate. Mark Turner non è mai stato l'elemento forte del loro duo, quello è sempre stato Paul.
Paul che respira forte, sempre più forte, e lotta con se stesso nella disperata ricerca delle parole giuste. Perché vorrebbe spiegare. Perché quel peso è così grande che alle volte, durante la notte, si sveglia e pensa che quel macigno che si porta sul petto lo schiaccerà, riducendolo in polvere. Perché Mark e Paul duettano insieme da una vita, ed è bastato un secondo – cinque parole – per distruggere quello che due divorzi, un sacco di litigi per le macchinine giocattolo e due padri semi incompetenti non erano riusciti a fare.
«Va' via, Turner». Da quanto non lo chiama per cognome? Odia quando lo fa; ma sa anche che forse è l'unico modo per cacciarlo via, per allontanarlo fin quando può. Come potrebbe capire? Deve ancora iniziare a capire lui stesso.
Le ginocchia iniziano ad intorpidirsi, tanto le tiene strette, ma Paul rimane fermo, immobile, e aspetta che quel su e giù di emozioni che lo corrodono dentro si calmi. Ed è impossibile, perché c'è quel sospiro, al di là della porta.
Rassegnazione. Ecco cos'è.
«Paul. Sono cinque giorni che cerco di parlarti. Ho passato più tempo davanti a questa porta nell'ultima settimana che dormendo in quest'ultimo mese. Tuo padre è pallido come la morte e mi ha confessato che ha paura anche solo a guardarti. Cosa è successo? Cosa gli hai fatto? Se è ancora per il divorzio dei tuoi... dovresti smettere di fartene una colpa e di darla a lui, soprattutto. Sono cose che succedono. E... dovresti dargli il tuo benestare, per il matrimonio, sai? Tuo padre mi ha detto anche questo. Che forse lui e Cora non si sposano. Sono preoccupati, Paul. Ti vogliono bene. Davvero non mi vuoi dire nulla?» Mark aspetta, Paul non risponde. Il Lupo ringhia forte, è sempre più furioso. Perché non capisce, oh no, non può capire. E rimane questa rabbia forte, questo senso di impotenza e stanchezza e dovere che non gli fa chiudere occhio e alimenta solo quel fuoco.
Paul ride, ed è il Lupo, è il Lupo a parlare, ma anche lui stesso. «Non avrebbe dovuto. Come posso perdonarlo? È colpa sua. Se adesso... è colpa sua, Mark. Non devi ascoltarlo, capito? Vattene, lasciaci in pace. Non ascoltarlo».
Parla di suo padre, o di se stesso?
(Io e Cora ci sposiamo, Paul.)
Da chi lo vuol far fuggire? Chi ha zanne e unghie e pelliccia, chi ha questa voglia di distruggere tutto ciò che lo circonda, chi ha cercato di saltarle alla gola e se Sam non fosse stato lì vicino
(Io e Cora ci sposiamo.)
(Io e Cora ci sposiamo.)
probabilmente l'avrebbe uccisa e avrebbe ucciso anche lui, suo padre, e cos'è allora questa paura, cos'è quel terrore che gli legge negli occhi e la distanza sempre maggiore e i piatti passati senza guardarsi e
(Fino in fondo, Paul, avevamo detto FINO IN FONDO insieme)
Mark che piange al di là della porta della sua camera e questo senso di vuoto e costante rabbia, rabbia, rabbia che non gli appartiene e non è lui ma è il Lupo, è sempre e solo lui, affamato di sangue e cattiveria e zanne e unghie e pelliccia e corse nel bosco e vecchie leggende e...
«No. Ti prego, va' via».
Cinque parole, di nuovo. La storia si ripete.
(Io e Cora ci sposiamo. No, ti prego, va via.)
Un ringhio che sale e si spezza sulle sue labbra.
«Va bene».
Passi che si allontanano velocemente, e anche questi, forse, non sono storia vecchia? Cambiano le persone, non cambia lui.
«Paul? Se vuoi, il numero è sempre lo stesso. Ricordatelo, quando ti sarai stufato di correre dietro a quei due». I passi si fermano, Mark torna indietro. Paul può percepire il sottile sibilo del legno della porta contro la mano dell'amico, quando ce la poggia sopra.
Mi dispiace, fratello.”
Passi, di nuovo. Stavolta scendono le scale in fretta e non si fermano, dritti fino all'ingresso, dritti fino alla macchina che non avrebbe dovuto prendere ma che ha guidato lo stesso fin da Tacoma, solo per lui. 
Paul conta fino a cinquanta poi esce, alzando la testa pulsante dalle ginocchia. Sam aveva ragione anche su questo. Se respira profondamente in quella posizione, il Lupo riesce a rimanere calmo quel tanto che basta perché non esploda nei suoi vestiti. Negli ultimi giorni ci riesce meglio, ci sta prendendo la mano proprio come avevano detto gli altri. La luce dell'ingresso lo ferisce, dopo giorni passati rinchiuso nella sua camera, ma non ci bada. Ha solo bisogno di uscire, di cancellare dalla sua testa l'immagine dei suo migliore amico che lo guarda ferito, con le braccia incrociate, da lontano, mentre lui scherza e ride con Sam e Jared tornando a casa spensierato, senza immaginare che sta per rovinare tutto per l'ennesima volta.
Mark appoggiato alla vecchia Ford, con un milione di domande negli occhi. Mark che guarda quei tre energumeni tutti muscoli e petto nudo e cerca di riconoscere il suo migliore amico tra loro. Mark che lo segue in casa chiedendo cose cui non può rispondere. Mark che piange, con la schiena alla porta di camera sua.
Sono uno stronzo.” 
E tanto basta. Il Lupo esplode, l'ululato disperato è raggiunto da altri due, uguali e altrettanto forti. Un coro di anime che gemono, chiedendo una spiegazione, un perdono che non arriverà mai.
 
~
 
Vai a farti un giro, Paul.
E lui ha obbedito, come sempre. Sia mai che riesca ad aggirare un ordine del Grande Capo Sam.
Per fortuna, ama correre. L'odore della foresta, degli animali, il profumo del muschio e il fischiare degli uccelli, sotto un cielo sereno che pare disegnato con gli acquarelli, fanno quasi dimenticare tutto il resto.
(CERTO, PAUL, RACCONTALO A QUALCUN ALTRO)
C'è suo padre, di nuovo attaccato alla bottiglia perché non gli è rimasto nient'altro, questo è vero. Forse Paul dovrebbe sentirsi anche solo un po' in colpa per come sono andate le cose tra lui e Cora, ma non è così. Non riesce a dimenticare che se adesso ha il privilegio di correre per una foresta al chiaro di luna, con quattro zampe e un'incazzatura perpetua, è tutto merito suo.
Vigliacco.
Ma non è vero. Si può accusare quanto vuole, ma non sarà mai dispiaciuto per niente di ciò che ha fatto.
Ci credi sul serio, Paulie?”
Il Lupo ringhia. Quel soprannome... perché l'ha usato? È storia vecchia. Roba da dimenticare. Gli ricorda solo ancora e ancora che nascondersi dietro le quattro zampe di un grosso canide non riuscirà mai a metterlo in pace con se stesso.
Perché è vero, è un vigliacco violento
("Va a farti un giro, Paul. Se non ti calmi Sam sarà costretto a spaccarti qualche osso, un giorno o l'altro.")
e Jacob e gli altri hanno tutte le ragioni del mondo, peccato che non sia nemmeno considerabile l'idea di ammetterlo pubblicamente. Sbatte contro un tronco senza neppure accorgersene, ruggendo furiosamente. Perché è tutto così... confuso?
Paul chiude gli occhi e il Lupo lo guida lungo sentieri già battuti, conosce la strada meglio dell'uomo, che già è perso di nuovo in quel mondo onirico fatto di sogni e ricordi e dolore e paura e IRA. L'ira c'è sempre, in ogni angolo del suo essere; lo zozza, sporcandolo dentro.
Pelo neroanima nera, dicono di Sam, che ha dovuto spezzare il cuore della ragazza che amava solo e soltanto perché al Lupo non andava bene. Solo e soltanto perché Emily era più giusta di sua cugina. Perché il Lupo è male, il più delle volte. Ha sete di sangue, sete di carne, di lotte, di furia, sete di vite spezzate e lacrime salate. Per quanto possa essere bello correre nella foresta come Solo Un Animale, Paul conosce troppo bene il risvolto della medaglia per essere davvero felice di essere mutato. Ma qualcuno dei ragazzi della riserva può davvero dirsi felice? Chi ha perso la fidanzata, chi gli amici o la famiglia. Quando diventi uno dei Protettori, tutto il resto non conta più nulla. È come essere un Men in Black tarocco, senza uniforme nera figa e pistolona ultrasonica né giocattolino friggi-neuroni.
Mark  non andava bene e il Lupo l'ha scacciato. Cora... Cora non c'entrava nulla, ma l'ho quasi uccisa con quel MIO scoppio d'ira. E il Lupo... ha allontanato anche lei. Io allontano tutti, sempre. L'ho fatto con mia madre, l'ho fatto con mio padre. Con il mio migliore amico. E continuo a farlo anche adesso.
E l'ira divampa, di nuovo, e sono zampe sanguinanti che scalciano il terreno e zanne che palpitano sotto la lingua e la voglia di uccidere e uccidere e sbranare e...
«Paul, smettila con questi pensieri autolesionistici e dati una calmata. Quil sta bene, ha solo una spalla lussata. Si riprenderà... chi diavolo è Mark?» Jared si intrufola senza permesso nei suoi pensieri, come tutti nel branco. Non è il benvoluto, in questo momento e mai, ma Paul non può bloccare un bel niente, nello stato confusionale in cui è adesso.
«Fatti i cavoli tuoi, Jar. Lasciami in pace» ringhia forte, e sente l'altro indietreggiare di qualche passo all'interno della sua testa, intimidito. Proprio quello che vuole. Silenzio.
«Non andare troppo a zonzo. Tra poco Sam ci vuole di nuovo tutti a casa sua. Occhio a quel che fai, Paul». Jared scompare dalla sua testa senza fare altre domande, leggermente irritato dal tono di voce con cui gli ha risposto, lasciando un silenzio quasi perfetto. Ci sono ancora Quil, Jake ed Embry da qualche parte, ma parlano tra di loro, e fanno poco caso a lui. Sanno bene che quando è in uno dei suoi momenti-no è meglio lasciarlo solo coi suoi pensieri.
È una giornata calda, d'inizio estate.
Si ritrova sul mare prima che se ne renda conto, con la sabbia tra le zampe e il fruscio del vento sulle onde come sottofondo; non dovrebbe rimanere così tanto allo scoperto ma il mare lo rilassa, e Paul ha davvero bisogno di qualche minuto per ritornare se stesso. È buffo, a dir la verità: se qualcuno si affacciasse su quello spicchio di spiaggia concava, riparata dagli scogli, avrebbe l'opportunità unica di vedere un lupo alto come un cavallo, disteso a pancia all'aria al sole di Giugno con le grandi zampe posate sul petto e le orecchie flosce da cagnolino da salotto.
Ma è solo il Lupo che ascolta, e si riposa. C'è l'umano che cerca di tornare a galla, cancellando quella follia omicida che ha guidato il suo scatto d'ira del tutto ingiustificata nei confronti di Quil, qualche minuto prima; e pian piano, con la dovuta lentezza, il respiro si fa più lento, le membra più piccole. Il muso si schiaccia, gli occhi cambiano di forma ma non di colore. La schiena si inarca e si stende, gli artigli da lupo diventano dita. La pelliccia scompare, lasciando un petto glabro e i corti capelli a spazzola.
Paul è nudo, disteso tra granelli di sabbia profumati, e la rabbia che divampa senza mai riposo nel suo petto è di nuovo imprigionata, anche se solo per poche ore. Tra quanto avrà un nuovo scatto nervoso? Sarà contro i suoi fratelli, contro suo padre, oppure la sua ragazza? Sarà per quell'ombra che Chuck Lahote è diventato, rannicchiandosi su se stesso, oppure per qualche vecchio ricordo di antiche risate, imprigionate in un vecchio giocattolo sul comò di camera sua?
«P-Paul Lahote? Sei tu, ragazzo?» La voce lo fa sussultare, quando ormai pensava di essersi calmato. A quanto pare, quello schifo di tensione cui sono tutti sottoposti negli ultimi tempi per salvare il culo di Bella Cullen lo ha provato più di quanto possa mai ammettere.
No buono. Calma, Paul.”
«Sì» risponde, ancor prima di individuare la fonte della voce. Una ragazza, di quello è sicuro. Conscio di essere nudo, ma abbastanza a suo agio, Paul si puntella sui gomiti, dando le spalle al sole cocente. Lei è sempre più vicina: lunghi capelli scuri, mossi dal vento, due occhi neri come la pece.
Ed un tintinnare campanelle, vetri che vanno in frantumi, la sua Corazza, ormai tanto provata dagli anni da non poter più sopportare un altro colpo. Sente il cuore fare un balzo in avanti, la gola chiudersi.
Sto soffocando.
Ma non è quello.
Rachel Black appare davanti a lui in tutta la sua bellezza, solida come una statua di marmo, col mento alto e quel portamento un po' sprezzante e beffardo che è sempre stato il suo timbro di garanzia, da che Paul ne ha ricordo... e anche una buona dose di sorpresa nel ritrovarsi davanti a quel ragazzone nudo e sorridente, apparentemente del tutto a suo agio. Quand'è che è diventata così bella? Nei suoi ricordi di bambino, quando viveva d'estate a LaPush assieme ai nonni paterni, era solo una ragazzetta tutti spigoli e fossette che si divertiva a tiranneggiare i più piccoli ma adesso...
La mascella di Paul cade, le labbra tremano. Il suo portamento tronfio svanisce in uno sbuffo di sabbia, mentre ricade sbattendo la testa contro la rena bagnata, in preda allo shock.
E la parola cade dall'alto, tramortendolo.
Imprinting.”
 
~
 
Il mare non è mai stato più tranquillo.
La donna dagli occhi stanchi è seduta su di una roccia puntuta che pare un dente di un gigante cattivo, caduto in mare dopo una battaglia. Ha i capelli neri al vento e sorride, nonostante si veda che non tutto va bene nella sua vita e un grosso livido all'altezza del suo zigomo sia lì a dimostrarlo.
Indossa una maglietta larga, con ghirigori colorati, che a malapena riesce a coprire la grossa pancia rotonda da mamma in dolce attesa.
Quando l'uomo la raggiunge, lei nemmeno si volge. Continua invece a guardare il mare, ascoltando quella dolce nenia che le fa compagnia da sempre. Certe cose non cambiano mai, e la voce dell'oceano è una di quelle; se chiude gli occhi, può quasi ritornare bambina, quando sua madre la prendeva per mano e la portava con sé tra gli scogli, facendole vedere come pescare ricci di mare con la punta delle dita senza pungersi. Un tempo certi ricordi facevano male; ma adesso che è tornata a casa, si è accorta che ciò che è rimasto è solo un dolce rimpianto, una tristezza vaga ed eterea che rende ancora più puri quei bei momenti della sua infanzia, quando era ancora tutto perfetto.
L'uomo è a torso nudo, nonostante sia ormai il tramonto e il vento tiranno di Novembre soffi forte contro di loro, ma pare non farci caso, come se ci fosse abituato. Senza dire una parola, per non interrompere quel silenzio perfetto e meraviglioso, si siede vicino alla moglie, prendendole una mano.
«Scusa. Sono uno stronzo». L'uomo, che fino a non molto tempo prima doveva essere stato un ragazzo, si aspetta di tutto, ma non che lei rida; ma Rachel ride, ride di cuore, con la testa rivolta in alto e le spalle che sussultano.
«Lo so, Paul Lahote. Ti conosco piuttosto bene». Fa la sostenuta, ma non troppo. L'ha già perdonato, di nuovo. Suo fratello la rimprovererebbe di avere il cuore troppo tenero, là sotto centimetri di puro acciaio... Ed è così, in fondo. Molto in fondo.
«Allora perché non scappi?» scherza lui, posando un bacio lì dove il suo piccolo riposa, al caldo e al sicuro dal mondo. Ha le mani calde, bollenti, che fanno venire a Rachel un profondo brivido, di quelli che ti scuotono l'anima.
Nulla di spiacevole, comunque. Crede di sapere come si chiama, quel brivido.
«Perché ti amo. Perché non mi faresti mai del male. Io ti conosco, Paul. Non devi per forza fare la parte del delinquente tormentato, con me. Tu sei una brava persona. Hai i tuoi brutti momenti, come tutti. Magari più spesso di altri... ma a me va bene così. Mi fido di te». Si volta verso di lui e lo bacia con dolcezza, posandogli una mano sul viso.
«Non dovresti. Sai cosa ho fatto, in questi anni». Paul scuote la testa, lasciando gli occhi vaghino lontani, verso il confine invisibile tra cielo e mare.
«So anche cosa hai fatto per me. Con me. Qui». Rachel gli intrappola una mano e se la porta al ventre, dove il bambino, un bel maschietto di sette mesi, scalcia come un asinello. «C'è tuo figlio. E tu non gli farai mai del male, chiaro? Io mi fido di te». Lo ripete due volte, lentamente, per calmarlo. Le dita di lui si stringono alle sue e poi le rilasciano, ancora e ancora. Infine, Paul sospira.
«Non sarò un buon padre. Mark me lo diceva sempre. Sono una testa calda, io» si schernisce, e un piccolo sorriso gli appare sulle labbra, ricordando quel suo amico d'infanzia.
Ma è vero. Lui ha già fatto tanti casini, cosa gli impedirà, in futuro, di continuare a farne? E suo figlio non ha nessuna colpa. È un esserino nuovo, ancora da divenire, con il peso di un cognome come il suo da sopportare persino prima della sua nascita.
«Sarai un ottimo padre, invece».
«E se mi arrabbio? Di nuovo, come oggi? Non volevo farti del male, Rach, lo sai vero?» La frase gli esce quasi come una supplica, ma lei è sua moglie, può permettersi uno scivolone. Se solo i ragazzi sapessero quanto si è ammorbidito, da quando è sposato... Eppure, non è abbastanza.
Non ha più crisi come i primi tempi, quando rimanere nella sua pellaccia umana era talmente difficile da fargli lacrime gli occhi e avere cerchi alla testa che duravano ore intere, certo... ma quella rabbia c'è ancora, sopita ma sempre pronta a ravvivarsi, come fuoco morto sotto le braci di un camino. E ogni tanto capita che scoppi, così, semplicemente. Come quella mattina.
Il livido sulla guancia di lei sembra accusarlo, viola contro il sole che cade. Come ha fatto a non controllarsi?
«Se dovesse accadere davanti a nostro figlio, sbattimi fuori di casa, Rach. Lo farai, vero? Non voglio che lui soffra perché suo padre è un incosciente bastardo senza spina dorsale». Parla di sé oppure di suo padre? Forse di entrambi.
Sa solo che si sente indifeso, quando pronuncia quelle parole. È un ammissione di colpa, un tentativo di redimersi da anni di bastardate, di scatti d'ira, di urla e cattiverie, di pianti nascosti e tremiti alle mani. Non c'è più nessuno scudo tra lui e il mondo. Batman è caduto da tanto tempo, lasciando dietro di sé una scia di nemici e una città scoperta, senza difesa.
«Lo so. Lo farò, te lo prometto». Rachel lo bacia di nuovo, più dolcemente, prima di aggiungere in un sussurro «Non ce ne sarà bisogno, comunque. Tu hai me».
E Paul sospira, contento, al vento novembrino.
 
Non c'è più Batman, non c'è più un Mark Turner nel suo duo, o quelle risate a cuore aperto che si faceva con suo padre da bambino. C'è solo il Lupo, alle volte cattivo, alle volte buono.
C'è Rachel, c'è l'amore.
E, alle volte, quando la notte è fonda e lui non riesce a dormire, riesce ancora a sorridere, e a pensare positivo, fino in fondo, con il piccolo Mark, Mark Lahote, che prende a calci il mondo ancora prima di conoscerlo. 
 
E la vita è bella, e non c'è bisogno di corazze per affrontarla.





NB 29/03/16: questa storia partecipa al contest "Secondario a chi?" indetto da Ray Wings sul forum di EFP
   
 
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