ALEX
Non aveva pianto.
Non aveva versato nemmeno una
lacrima.
Mai.
Questo lo rendeva agli occhi
di tutti strano, sospetto, palesemente indifferente.
La gente lo evitava con cura e
chi gli si avvicinava si ritraeva alla velocità del fulmine, portando con sé la
convinzione che lui, Alex, nel migliore dei casi,
fosse un individuo gelido.
E a lui andava bene così.
Stranamente, l’unico a fare
un’eccezione era stato Marius, il padre di Yuris e sì, forse anche Vincent.
Per loro però il discorso era diverso, loro l’avevano conosciuto prima.
Marius l’aveva
sostenuto e continuava a sostenerlo nonostante l’ostilità comune nei suoi
confronti. Sembrava non gli interessasse.
Alex solo poteva intuire l’origine di quel comportamento:
lui, malgrado tutto, era l’ultimo legame che quell’uomo
aveva con Yuris, con sua figlia.
Per questo non l’aveva mai
accusato, uno dei pochi peraltro, anche se, e Alex
non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, nei suoi occhi talvolta poteva leggere
un muto rimprovero. Un rimprovero a cui molti altri non avevano esitato a dar
voce.
Perché tu sì e lei no?
Quando quella domanda si
faceva troppo imperiosa nel fondo di quegli occhi scuri, gli stessi di Yuris, lui distoglieva lo sguardo e fuggiva.
Ormai era quasi un anno che
non tornava a fargli rapporto, così come non era mai andato al cimitero di Mont Home .
“E’ bella sai” gli aveva
detto quell’uomo che tante volte si era piegato sui
suoi dolori e su quelli degli altri “ci sono i fiori che piacevano a lei”aveva
aggiunto con un sorriso triste.
Accanto a quella di Yuris vi era la tomba della madre. Due immagini che si
somigliavano fin troppo.
Lui pensava che il marmo
grigio, così anonimo, non si addicesse molto a Yuris,
preferiva ricordarla sorridente, mentre gli dava l’ok
dal posto del navigatore, coi capelli scompigliati dal vento.
Dopo la sua scomparsa aveva
capito subito soltanto una cosa: non voleva più pilotare da solo la vanship su cui avevano volato insieme. Per questo se n’era
liberato.
“Un pilota non abbandona mai la sua vanship, per quanto ferita possa essere, può sempre essere
riparata” era solito ripetere Hamilcar Valca.
Hamilcar Valca
e George Head…
Ricordava le loro espressioni
attente davanti ai suoi primi entusiastici racconti di voli e missioni, loro
che ne avevano passate tante, ma che trovavano sempre il tempo di ascoltarlo.
E poi c’erano state le sere
trascorse a perfezionare fin nei minimi dettagli le vanship
che avrebbe dovuto condurli a Disith, con la moglie
di Hamilcar, George era
vedovo, a portar loro il thè caldo nel fienile che
fungeva loro da hangar.
Aveva imparato così tanto da
loro…
In realtà preferiva non rievocare
quei momenti, quando aveva dovuto annunciare la morte di suo marito alla
signora Valka. E i bambini… quei bambini.. la loro
espressione quando avevano saputo…
Allora, quando quelle
immagini che credeva dimenticate riaffioravano nella sua mente serrava più forte
le palpebre e stringeva il bicchiere pieno.
Quei bambini, per un gioco
crudele del destino si erano presentati sulla sua nave con la vanship che lui credeva di non rivedere più.
Avrebbe dovuto confessare
loro verità, allungare una mano, salutarli e dire:
Sono stato io a ucciderli…
Yuris forse non
avrebbe approvato, ma ora si chiedeva quante e quali delle cose che aveva fatto
dopo la sua morte lei avrebbe
appoggiato.
Inoltre, se avesse deciso di
rivelare loro la verità avrebbe dovuto raccontare di quello che era successo, parlare
di quegli occhi che l’avevano guardato, mentre…
Inutile, non l’aveva mai
detto a nessuno.
A nessuno.
Non interamente per lo meno.
Nemmeno al padre di Yuris, cui aveva risparmiato i pietosi dettagli della morte
della figlia.
Così, alla fine aveva
lasciato perdere, l’avrebbero detestato comunque, ma per i motivi sbagliati.
E poi c’era Sofia. Sofia, Sofia.
Lei non lo odiava. E questa
purtroppo, era la sua unica colpa.
Quando la guardava, talvolta,
vedeva in lei la stessa luce che animava gli occhi di Yuris.
La stessa determinazione, la stessa fiducia.
La stimava certo, si fidava
di lei, ma non l’amava, né mai avrebbe potuto farlo, perché lei non era Yuris.
Erano in pochi a saperlo…a
sapere che suo “padre” era il conte XXX, pezzo grosso, ai suoi tempi, della
flotta imperiale.
L’aveva sempre visto di rado
e non erano mai andati più in là di un colloquio così formale da sfiorare il ridicolo.
Dopotutto l’unica cosa che il
padre gli aveva donato era stato il suo cognome.
Tutto qui.
Yuris gli aveva detto che non erano importanti i legami del
sangue, ma quelli del cuore e lui le aveva creduto. Allora era molto romantico.
Lei aveva perso sua madre da
piccola; per questo diceva che suo padre l’aveva amata ancora di più, come se
dovesse compensare col suo affetto anche quello della moglie. Perché non la mia bambina?
Ad ogni modo da quando si era
iscritto all’Accademia lui e Rowe senior non si erano
più visti, se non in un’occasione.
Quella volta l’uomo, l’adulto
e il ragazzo si erano limitati a
studiarsi, poi il generale aveva detto una cosa che Alex
non avrebbe più dimenticato.
“Un pilota non abbandona mai
la sua vanship”.
E sul suo volto,
involontariamente, si era formata una smorfia che difficilmente suo padre
avrebbe apprezzato.
Adesso però, niente di tutto
questo aveva più importanza.
Erano tutti morti, tutti
quelli che aveva amato.
Si guardò distrattamente allo
specchio.
Era davvero lui, quell’ individuo dall’aria ombrosa e torva il giovane famoso
per i suoi scherzi e la sua risata che correva per i corridoi dell’accademia,
incurante dei divieti?
Si sfiorò la cicatrice
nascosta sotto un ciuffo di capelli mossi.
Bruciava.
“Ti fa male?” Una vocina
infantile, da bambina.
Si voltò di scatto: Alvis Hamilton.
“Ti fa male?” ripetè ostinata Alvis, stringendo
un peluche tra le braccia.
“Quello…” sussurrò Alex. Perché lo notava soltanto ora?
“Questo?” disse Alvis affondando il volto
nella sua preziosissima capretta”me l’ha dato Claus,
ma era di Lavi”.
Claus certo e Lavi. I figli Di Hamilcar
e George.
“Una volta conoscevo una
ragazza che ne aveva una uguale”mormorò Alex e si
stupì anche lui per quell’uscita.
“Oh Alex,
guarda com’è carino!!!Perchè non me lo prendi?”
“Non abbiamo tempo adesso Yuris, dobbiamo passare a prendere quel pezzo che ci serve
..”aveva risposto lui allontanandosi a grandi passi.
Con la coda dell’occhio però Alex aveva preso nota del nome del negozio per tornarci in
seguito.
Lei se la portava ovunque,
proprio come Alvis, diceva che era il loro
portafortuna.
E poi com’era tipico di Yuris, aveva regalato quel peluche che adorava e portava
sempre con sé a un’altra bambina, alla figlia di George
Head.
“Lei ne ha più bisogno”
questa erano state le sue parole, accompagnate da un sorriso.
Yuris era così,
aveva il dono del gesto giusto.
“Ma lei stà
sempre qui da solo?” domandò la bambina gettando uno sguardo sulla stanza
spoglia.”di là preparano una festa, non sente la musica?”
Alex si ricosse dai suoi ricordi.
In realtà sentiva tutto, ma
non gli diceva nulla. Aveva partecipato
a tante feste, a tanti balli, una volta, ma quell’epoca
era finita da un pezzo, con un cappello che svolazzava solitario tra le nubi
del grand stream, dieci
anni prima.
Fece segno di no e la
bambina, dopo un’alzata di spalle fece per andarsene.
In quel momento un vuoto
d’aria fece oscillare la nave e Alvis sarebbe
sicuramente caduta all’indietro se Alex non si fosse
sporto in avanti prendendola al volo.
Alvis si trovò tra le braccia del capitano.
“Grazie” mormorò un po’ impacciata
raddrizzandosi.
Poi Alex
la vide bloccarsi e allungare una mano verso di lui.
“E’ proprio una brutta ferita” disse con aria inspiegabilmente saputa per una bimba
di quell’età. Gli scostòla
frangia e accarezzando i contorni frastagliati di quel taglio.
Alex annuì piano.
Gli Hamilton…
Era uno dei pochi a conoscere
com’erano andate veramente le cose e si augurava vivamente che quella bambina non
dovesse apprenderlo mai.
“Brucia?” domandò Alvis guardandolo negli occhi.
“Qualche volta.”
“E ti fa male anche qui?”
mormorò Alvis puntando il dito contro il suo petto.
“Qualche volta”.
Per un momento tacquero
entrambi.
Le note di un lento si
diffusero per la sala.
“Ah questa la conosco!!”
esclamò Alvis concentrandosi subito sulla novità.”Sofia
dice che bisogna esercitarsi molto e …”Alvis tornò a
guardarlo incuriosita.
D’improvviso il capitano
della Silvana non le faceva più tanta
paura come all’inizio. “ balliamo?”
“Non sono capace” mentì Alex.
Quante volte l’aveva fatto?
Quante volte aveva stretto la
mano di una ragazza invitandola a ballare…
Alvis abbozzò qualche incerto passo, da sola al centro
della stanza.
Tap tap tap.
“Insomma Alex
vuoi fare un po’ di attenzione?Il capitano di una nave deve essere impeccabile”
lo rimproverava Yuris durante le prove per il gran
ballo di fine anno.
“ Ti è sfuggito un piccolo
dettaglio: io non sono ancora niente di più che un semplice allievo, conto meno
di..”aveva protestato lui.
“Ma vuoi diventare capitano
no?Vuoi avere una nave tua.”
“E tu come fai a
saperlo?”D’altra parte perché sennò intraprendere la carriera militare?”Bè, dopotutto è il sogno di qualsiasi giovane militare
che…”
Lei l’aveva interrotto” Ti
sbagli Alex Rowe. Ti sbagli
di grosso, non è per questo.”
Lui aveva incrociato le
braccia sul petto “E allora perché sentiamo? Visto che tu lo sai meglio di me?!”
Lei aveva sorriso invitandolo
a ballare e lui aveva ceduto, come al solito.
E poi accadde.
La musica era cambiata e una
lenta melodia si diffondeva per la stanza.
I passi
ordinati di Alvis si fermarono all’improvviso.
“Perché piangi? domandò la bimba turbata.
Conosceva quella canzone.
Il ricordo sì poteva
sopportarlo, ma non la musica associata al ricordo. Era troppo. Persino per
lui.
Perché io sì e lei no?
Si voltò a guardare il sole morire all’orizzonte, attraverso
l’oblò.
La luce gli feriva gli occhi.
Avvertì una leggera pressione
sulla mano: era Alvis che la stringeva, accanto a
lui.
Si concesse un fugace sorriso
e tornò a guardare il giorno che implorava misericordia alla notte.
fine