Annotazioni:
per la serie “tutto meno che studiare per la
maturità”, una storia dai toni
lievemente surreali.
VOLEVO UN CANE
Erano davvero
in pochi a portare a spasso il proprio cane in paese, li si contava
sulle dita
di una mano: la zitella del quartiere lungo la via del camposanto e la
ragazzina col naso storto che trascinava un bestione più
grosso di lei, senza
dimenticare lo strano personaggio che riusciva a tenerne ben tre al
guinzaglio
e con un solo strattone li indirizzava a suo piacimento. Il resto della
gente
si limitava a scegliere fra due possibilità: lasciarlo
libero per strada o
smistarlo da qualche parente nelle masserie in campagna,
giustificandosi
dicendo «povero cristiano,
che ha da
fare qua in città, troppe macchine!». Pochi si
prendevano la briga di portarlo
a passeggio. L'idea di dover uscire di casa per portare il cane a
sgranchirsi
le zampe era una cosa da americani, che raccontavano gli emigrati degli
anni
'50 quando, ritornati, non ricordavano altro che taxi, strade enormi
come
arterie e palazzi con ascensori, alti quanto il campanile della chiesa.
Lei
ogni mattina attraversava la piazza in pantaloncini morbidi e
canottiere
colorate, tenendo al guinzaglio un cagnolone dalla lingua penzolante.
Lei era
una pioniera, portava a spasso il suo cane e, secondo Cristiana, lo
faceva
divinamente.
C’erano due
cose che avrebbe voluto domandare ad un ipotetico genio della lampada:
la
prima, un corpo più bello. Cristiana era convinta che ci
fossero persone
destinate ad essere magre ed aitanti, altre cui toccava nascondere i
rotoli di ciccia
in eccesso sotto maglie troppo larghe e sperare che nelle fotografie
non
fossero evidenti altri rigonfiamenti. L’obiezione proposta
dalla sua coscienza
era che poteva sempre mettersi d’impegno e dimagrire; no, non
era vero niente, anche
se avesse perso la metà dei chili che segnava la sua
bilancia non sarebbe mai
stata slanciata e tonica, le sarebbero sempre rimaste le spalle grosse,
il
bacino largo e un seno con troppe smagliature. La seconda cosa
intensamente
desiderata era un cane. Le due richieste si escludevano a vicenda: se
avesse
potuto rendere il suo corpo improvvisamente agile e attraente non
avrebbe avuto
bisogno di un cane, ma siccome la prima ipotesi era di difficile
realizzazione
si era riservata una seconda opzione, quella di comprarsi un cane,
perché se
avesse avuto un cane – uno qualsiasi, che fosse brutto,
piccolo, grande o
bastardo non importava – sarebbe potuta scendere
giù in piazza ogni giorno
della settimana, dal lunedì al sabato, e portarlo al
guinzaglio e mandarlo
addosso proprio a quel bestione che trainava la ragazza; era il suo
piano
perfetto e ogni giorno, nei cinque minuti che questa impiegava per
trascinare
l’animale da un capo all’altro della piazza, si
vedeva lì, accanto a lei, a
chiacchierare e riuscirle simpatica, incamminarsi insieme sotto gli
ombrosi
platani della villa, al fresco, per poi sedersi su una panchina e
lasciare
liberi i due botoli.
Cristiana aveva
ideato una specie di rituale, una sequenza di preparazione al momento
del
passaggio: si alzava ogni mattina alle sei e mezza – le sette
meno un quarto
quando proprio non ce la faceva – e si sistemava in cucina,
spalancando le ante
delle finestre sulla piazza ancora deserta, incamerando ondate di aria
fresca e
inspirando profondamente, fiduciosa e allegra; si riempiva un bicchiere
di
latte e si sedeva sulla poltrona accanto al davanzale, intervallando
brevi
sorsate a morsi ai biscotti di pastafrolla; per le sette meno dieci
aveva già
finito tutto e poteva alzarsi in piedi, ben nascosta dalla tenda, i
movimenti
del cuore più rapidi del normale. C’era un minuto
in particolare, quello fra le
sette e cinquantotto e le sette e cinquantanove, in cui le si abbatteva
sul
capo come un’ascia l’idea che quel giorno non
sarebbe venuta; era un’ipotesi
plausibile: poteva avere da fare, poteva essersi svegliata
più tardi del
solito, il suo cane poteva essere rimasto ferito ad una zampa. Ma lei
veniva
sempre, non mancava mai l’appuntamento e ogni volta che
Cristiana la vedeva
svoltare l’angolo sinistro della piazza, salire le scale con
una certa fatica e
tirare un po’ il guinzaglio per non dare troppa
libertà al cane, sentiva
prepotente la consapevolezza che non sarebbe potuta mancare, mai. Si
era
convinta che, in virtù della sua presenza nascosta, la
ragazza col cane non
sarebbe mancata mai.
Certe volte si
diceva che sì, era una cosa un po’ sciocca, che la
ragazza non aveva la più
pallida idea dei suoi appostamenti – e meno male, pensava, o
sarebbe fuggita
all’idea di una cicciona che la spiava con maniacale
precisione tutte le
mattine della settimana – ma ogni giorno, dopo che questa
aveva oltrepassato il
bar, l’edicola, lo studio dentistico e la porta del suo
palazzo Cristiana era
felice pensando che doveva essere venuta per lei e che sarebbe venuta
anche
l’indomani. Non c’era davvero cosa più
bella che potesse pensare, sapere che il
giorno seguente l’avrebbe trovata lì e anche
quello successivo e quello dopo
ancora. Solo il sabato il suo svoltare l’angolo le dava un
po’ di tristezza,
perché la domenica la ragazza restava chiusa in casa a
dormire.
Anche quel
sabato, dunque, tirò un profondo sospiro quando vide la
sagoma della sua
personale ossessione sparire alla vista e restò per due
minuti alla finestra,
arrischiandosi ad abbandonare la protezione della tenda ed esporsi
tutta alla
piazza; era ancora troppo presto perché
l’edicolante tirasse su la saracinesca
e non era ancora il momento della messa delle otto nella chiesa che le
stava di
fronte. Sussultò quando sentì una vibrazione
proveniente dal tavolo; esaminò il
cellulare che si era acceso di colpo e, rassicurata dal riconoscimento
di un
numero amico, premette il tasto per rispondere.
«Pronto?»
«Com’è,
già
sveglia a quest’ora?»
«Sì,
perché?»
«Non ci posso
credere. Non ci posso credere. Ti sei alzata presto per poterla
guardare.»
«E quindi? Lo
faccio tutte le mattine» borbottò Cristiana,
risentita.
«Tutte le
mattine?»
«Sì, tutte le
mattine, dal lunedì al sabato. La domenica no,
perché non esce.»
«Ma dev’essere
proprio bella, questa qui.»
«Oh sì, lo
è.»
«Ma non ne sai
nulla. Non sai come si chiama, non sai dove abita…»
«Che importa
saperlo? Non voglio sapere come si chiama. Io voglio solo un
cane.»
«Forse io ho
capito chi è, lo sai?»
«No, non dirmi
nulla, non fiatare!» esclamò improvvisamente.
«Non devi dirmi nulla. Qualsiasi
cosa la rovinerebbe… »
Udì un sospiro
all’altro capo del telefono.
«L’unica cosa
che voglio è un cane» proseguì,
ostinata.
«Tu non vuoi
un cane.»
«Oh sì,
invece.»
«Invece no. Tu
vuoi soltanto una possibilità. Ti serve una scusa per
poterle parlare. Che
t’importa del cane? Scendi e parlale.»
«No, non
posso.»
«Perché
no?»
«Sono grassa,
brutta. Non le piacerei. Rovinerei tutto.»
«E avere un
cane cambierebbe le cose?»
«No» rispose,
con meno sicurezza, «ma se avessi un cane lei si
concentrerebbe su quello e
forse si dimenticherebbe di guardarmi in faccia… se avessi
un cane scenderei a
parlarle e lei si ricorderebbe di me come della “ragazza col
cane”, non della
“ragazza invadente e noiosa”.»
«Non sei
noiosa, non più di tanto.»
«Non capisci…
non basta non essere noiosi.»
«Ci credi che
continuo a non capire il ruolo del cane?»
«Dovrei essere
più disinvolta e sicura di me, ma non è tanto
facile quando non ti piaci
abbastanza per guardarti allo specchio…»
continuò fra sé. «Per questo voglio un
cane! Con un cane sarei più forte, con un cane avremmo
qualcosa in comune!»
«Va bene, va bene,
d’accordo, vuoi un cane. Benissimo, vallo a
prendere.»
«E dove?»
«Oh, ce ne
sono così tanti in giro. Prendine uno, mettici un
guinzaglio, fatti trovare
alle sette sotto casa e il gioco è fatto.»
«No, non… non
è possibile.»
«Perché no,
sentiamo.»
«Perché
comincerebbe a farmi domande a cui non saprei dare risposta, tipo che
razza è,
come si chiama, se ha fatto i vaccini, tutte ‘ste
cose.»
«Benissimo,
allora perché non cerchi qualcuno che venda qualche
cucciolo, così te lo pigli,
non hai tutti ‘sti problemi e fai anche una figura
migliore!»
«D’accordo, ma
chi? Non conosco nessuno.»
«Lo dici da
secoli, che vuoi un cane. Avrai dei risparmi, vanne a comprare
uno.»
«I soldi mi
servono per altre cose…»
«Tu lo sai
qual è il problema, vero?»
«Forse.»
«Non hai il coraggio
di andare a parlarle. Dico io, cosa c’è di male?
Cosa c’è di trascendentale nel
fatto che tu scambi due chiacchiere con la ragazza che ogni santa
mattina porta
il suo cane a fare i bisogni sotto casa tua?»
«Non è vero,
non ci fa i bisogni, è una padrona molto educata in tal
senso.»
«Capisci,
vero, che non c’è nulla di strano? Che non
c’è una legge che lo vieta?»
Cristiana
emise uno sbuffo e quando tornò a parlare la sua voce
rassomigliava molto ad un
piagnucolio.
«Ma come
faccio, come faccio?»
«Inventa una
scusa, una qualsiasi. Che ne so, lancia due calzini dalla finestra e
chiedile
se per favore può riprenderli…»
«E che cosa le
dico? Che stavo stendendo i panni in casa e mi sono scivolati di mano,
sono
corsi fino al davanzale e sono volati giù? Non ho bisogno di
scuse per far
brutta figura!»
«Allora fa’
finta di star dando acqua alle piante e mettiti a gridare
“attenzione!”. O
magari bagnala sul serio, è un classico, così
scendi sotto tutta premurosa e le
dai pure il cambio che sarà costretta a restituirti e da
lì è fatta, saranno
rose e fiori!»
«Un piano
perfetto. Hai solo dimenticato un particolare: non ho fiori sul
davanzale.»
«Ma che dici,
sì che li hai! Fiori, piante, quel che
è!»
«Sono cactus.
Che cavolo li annaffio a fare?»
Approfittando
del silenzio all’altro capo del telefono Cristiana
sbottò.
«Lo vedi, lo
vedi che non c’è un modo? Piantala di parlarmi
così e lasciamo le cose come
stanno. Quando avrò un cane ci penserò, al da
farsi.»
«Adesso devo
andare, però promettimi che ci pensi. Non mi va di pensarti
ogni mattina
davanti a quella finestra.»
Chiusa la
conversazione, Cristiana tornò a sedersi sulla poltrona e a
sospirare, quella
volta con taglio decisamente poco entusiasta; diede uno sguardo al
davanzale
dal quale ogni giorno osservava con avidità quella ragazza,
le sue scarpe da
ginnastica bianche, le gambe lunghe, toniche, le magliette colorate che
alternava in base al berretto o all’elastico per capelli. Non
era troppo
difficile da capire: perché volersi ostinare ad andare
contro il naturale corso
delle cose? Non avrebbe concluso nulla andandole a parlare, anzi,
avrebbe peggiorato
le cose.
Con grande
malinconia osservò i due cactus che aveva posto ai lati del
davanzale: di media
statura, rotondi e panciuti, affondati nella terra e ricoperti di
spine. Pensò
che lei era proprio così: grassa, gonfia e perennemente
immobile, ancorata con
forza al suo vasetto di terra.
La domenica
non era giorno di appostamenti e Cristiana poteva dormire quanto le
pareva. Non
si svegliò troppo tardi, ma gustò fino in fondo
il piacere di potersi rigirare
nel letto in tranquillità; afferrò il cellulare
che aveva posato sul comodino e
lo accese per controllare l’orario. La prima sorpresa di
quella giornata fu
scoprire che la sua compagnia telefonica le aveva scalato ben tre euro
dal
credito per il rinnovo dell’offerta che le permetteva di
inviare messaggi
gratis. Con un certo fastidio al pensiero di doversi alzare, mise in
conto una
capata all’edicolante sotto casa per procurarsi una ricarica.
Passato un
altro po’ di tempo a dormicchiare decise di scendere
giù dal letto e recarsi in
bagno per la toeletta mattutina. Poiché aveva in programma
di uscire prestò
particolare attenzione allo stato dei suoi capelli, concludendo infine
che, se
proprio non volevano saperne di restare in ordine senza elettrizzarsi,
li
avrebbe legati in una coda – proprio come faceva la ragazza
col cane, pensò con
un piccolo sussulto. Sistemò le coppe del reggiseno in modo
che non dovesse
vergognarsi troppo di eventuali sobbalzi e, indossata una maglietta
nera a
maniche corte insieme ad un paio di bermuda, fu pronta per scendere in
strada.
Contava i
soldi necessari sul palmo della mano mentre, uscita dal portone,
svoltava a
sinistra, sentendosi a disagio per via del colorito a dir poco pallido
della
sua pelle; di andare al mare a prendere un po’ di sole
neanche se ne parlava,
ovviamente, inoltre aveva fatto l’abitudine a sentirsi sempre
gli sguardi di
tutti addosso. Comprò il biglietto da grattare per ottenere
il codice e compì
un’unica deviazione nel suo percorso, quella verso il cestino
della spazzatura
del bar, per gettarvi la plastica entro cui era racchiusa la sua
ricarica. Fu
così che andò incontro alla seconda e ben
più interessante sorpresa della
giornata.
La piazza cominciava
a popolarsi, per lo più di anziani che stavano seduti alle
panchine
approfittando dell’ora non troppo calda e vecchie che
accorrevano alla messa,
ma Cristiana non vi prestava alcuna attenzione, la testa bassa a
pigiare i
tasti del cellulare. Le sembrò di sentire un abbaiare in
lontananza, confuso
fra il rumore delle macchine che passavano, i ragazzi che si muovevano
a
gruppetti e il vociare all’interno del bar, ma solo quando
avvertì qualcosa di
caldo contro le sue gambe si decise ad alzare lo sguardo. Un cane dal
pelo
bianco, alto e grosso, le stava vicino e sembrava attirato dalle sue
scarpe,
che aveva preso ad annusare.
«Scusa,
scusami, l’ho lasciato troppo libero… non
è pericoloso.»
«Madonnacristo!»
esclamò lei, ritraendosi come fosse stata scottata.
La ragazza che
le era venuta incontro si fermò a pochi passi, perplessa per
via
dell’espressione stralunata sul volto dell’altra;
si avvolse il guinzaglio
attorno alla mano e tirò via il cane.
«Tutto bene?
Non ti ha mica morso?» domandò.
Cristiana ebbe
a malapena il tempo di rendersi conto
dell’identità della sua interlocutrice,
della scena che stava vivendo, che quando provò a parlare si
confuse, quasi
dimenticandosi come si faceva.
«No, no! È
che… veramente, veramente…»
Scoppiò di
colpo in una risatina nervosa che contagiò anche
l’altra ragazza, inducendola a
sorridere; era il suo modo per scaricare la tensione, ma non le
riuscì
piuttosto bene: era troppo impegnata a divorarla con gli occhi,
assorbire ogni
particolare, per poter pensare anche a come risponderle.
Pensò comunque di non
darle l’impressione di essere una povera balbuziente e
regolarizzò il respiro.
«Non mi
aspettavo di vederti qui.»
«Ci
conosciamo?»
La testa le
girava così velocemente che temeva di svenire, se solo si
fosse fermata a pensare
a quel che stava facendo e soprattutto al colore che doveva aver
assunto.
Deglutì e provò a riprendersi dalla sorpresa.
«No, ho
riconosciuto il cane. Sai, abito là sopra, ho visto che lo
porti a passeggio
qui» sorrise ancora, soddisfatta per aver messo in piedi una
frase di senso
compiuto. «Qualche volta.»
«Sì,
sì, è
vero, lo porto a spasso la mattina presto, quando ancora non
c’è nessuno. Se no
non ho mai tempo» la ragazza ricambiava il suo sorriso con
aria indulgente.
«Come ti chiami?»
«Cristina»
rispose immediatamente lei.
L’accorgersi
di aver dato, nella foga del momento, il nome sbagliato, la rese per
qualche
secondo inattiva, impegnata a prendersi mentalmente a schiaffi e a
pugni
dappertutto e dirsi che sì, era proprio un’idiota;
fu assente quel tanto che
bastava per non ascoltare il nome che la ragazza col cane aveva
pronunciato, ma
non abbastanza da non poterla guardare finalmente in faccia.
«Ti piacciono
i cani, Cristina?» domandò.
«Io, io no,
veramente non ne ho…» rispose, poco concentrata.
Si era appena
accorta di un neo piuttosto vistoso che la ragazza aveva proprio al
centro
della fronte, accanto all’attaccatura dei capelli; non
mancò di notare nemmeno
il sopracciglio asimmetrico, i capelli tinti che ad
un’osservazione aerea aveva
creduto biondi, ma tutto sommato non furono dettagli tanto rilevanti
quanto
quello che la distrusse definitivamente ai suoi occhi. Aveva un sorriso
davvero
orrendo, a cominciare dai denti storti – fra cui uno che, in
un eccesso di
entusiasmo, stava provando a scavalcare il suo vicino – per
terminare con la
selva di brufoli che si annidavano sul mento, passando per i baffetti
appena
visibili e lo smalto ormai giallo. Cristiana fece ancora un passo
indietro.
«Ne vorrei
uno, di cane…» rispose.
«Sul serio? E
perché non lo compri?»
«Non ho dove
tenerlo.»
«Ah, giusto,
non ci avevo pensato.»
«Adesso devo
andare. Ci vediamo ancora, se passi di qui.»
«Sicuro.
Ciao!»
Una volta al
sicuro, Cristiana ebbe bisogno di cinque buoni minuti di assoluto
silenzio per
riprendersi da quanto le era appena accaduto. Quando fu abbastanza
lucida da
collegare i pensieri e mettere in fila le parole, compì
rapidamente la ricarica
del telefonino e subito compose il solito numero.
«Abbiamo un
problema. Un problema grosso» esordì.
«Spero che sia
una cosa importante, perché stavo dormendo.»
«D’accordo,
non sai che è successo. L’ho vista.»
«Be’, sai che
novità.»
«No, non
capisci. L’ho vista da vicino.»
«L’hai vista
da vicino? Che significa?» dopo un momento di pausa
dall’altro capo del
telefono esplose un urletto. «Vuol dire che l’hai
vista? Ci hai parlato?»
«Sì.»
«Santa
Brigida, e com’è andata?»
«Male.»
«Che significa
male?»
«Be’,
innanzitutto le sarò sembrata una menomata, non riuscivo
nemmeno a spiccicare
due parole. Ma non per questo è andata male.»
«E allora
perché?»
«È
brutta.»
«Brutta? Ma
come?»
«Non è bionda
naturale. Ha un sacco di brufoli, gli occhi castani. Per non parlare
della
voce.»
«E questo che
cosa c’entra? Per un momento non sai che ho
pensato… e allora? Una ragazza
normale, che significa? Non è mica brutta.»
«Me la
immaginavo diversa.»
«Diversa
come?»
«Non so. Più
bella.»
«Ma va là,
scommetto che è bella così
com’è. Giuro che a volte proprio non ti capisco.
Ieri eri afflitta perché non potevi parlarle. Oggi le hai
parlato e ti lamenti
che era brutta. Datti una regolata, eh?»
«Ah, per la
cronaca, da oggi mi chiamo Cristina.»
«Cristina?»
«Sì,
perché
nella paura di pisciarmi addosso mentre mi chiedeva come mi chiamavo ho
risposto veloce. Così ora crede che mi chiami
Cristina.»
«Be’, non
è
male. Poteva andare peggio. E poi, cos’è successo?
Se n’è andata?»
«No, me ne
sono andata io. Non reggevo più la vergogna.»
«Quante
storie, è andata alla grande! Non fare così,
dovresti essere entusiasta! Pensa
a ieri mattina, quando mi assicuravi che non saresti mai riuscita a
scambiare
qualche parola con lei. Ah, a proposito, hai scoperto come si
chiama?»
«No. Ero
troppo occupata a tirarmi calci nelle ovaie per quel
“Cristina”.»
«Assurdo
comunque, davvero assurdo. Ora che farai?»
«Niente, che
dovrei fare?»
«Come niente?
E tutta questa fatica?»
«Con che
faccia mi ripresenterei davanti a lei? Figurati se si ricorda di me,
poi…»
«Sempre molto
positiva, vero?»
«Anche se,
devo dire la verità, non mi dispiace troppo non averla
trovata poi così bella.
Voglio dire, a me piace lo stesso. Anzi, mi piace di più per
questo! Avanti,
dimmi, quante persone conosci disposte ad amare anche i nei sulla tua
fronte?»
«Effettivamente
nessuna.»
«Così
è
perfetto, così lei ora sa che sono un’orrenda
ragazza sovrappeso ed io so che
ha i capelli tinti e i brufoli! Per non parlare dei baffetti!»
«Certo che sei
proprio cattiva però, magari stamattina si è
alzata di fretta e non ha avuto il
tempo di sistemarsi.»
«Ma è proprio
questo, capisci? Quante persone la conosceranno così come
l’ho vista io
stamattina?»
«Ora non ti
esaltare troppo, però…»
Cristiana non
ci vedeva più dalla gioia, quasi non voleva credere di
essere riuscita a
portare a compimento una conversazione con la ragazza col cane
– una vera
conversazione, forse un po’ troppo rigida, ma sempre meglio
di fantasie covate
per giorni e giorni – ed aver scoperto che non era poi
così perfetta, una
ragazza normale, con dei comunissimi difetti. Quando la mattina dopo le
toccò
alzarsi stette per un po’ a pensare se fosse il caso o meno
di appostarsi alla
finestra e se fosse meglio farsi riconoscere o no;
l’entusiasmo del giorno
prima le suggeriva di affacciarsi e salutarla, per bearsi della sua
voce e di
un sorriso rivolto proprio a lei, a lei soltanto, ma la cautela le
suggerì di non
esporsi troppo, non ancora. Dopotutto la ragazza poteva decidere,
proprio a
causa del loro incontro, di non passeggiare più per la
piazza; c’erano tante
altre strade, pensava Cristiana sapendo che quel giorno sarebbe
risultato
decisivo: vederla ripassare davanti casa sua le avrebbe conferito una
dose di
gioia sufficiente a farla campare di rendita per il resto della
settimana, ma
scoprire per la prima volta dopo settimane e settimane che aveva
mancato
l’appuntamento l’avrebbe uccisa. Ecco,
pensò che era proprio come andare ad un
appuntamento e fu con un timore nuovo ed un batticuore che non
l’abbandonò per
un minuto, nemmeno durante quello di scoramento, che si
accostò al davanzale.
Erano le sei e cinquantotto, si trovava in anticipo.
Come sempre
non c’era anima viva a quell’ora di
lunedì e l’aria era fresca, piacevole.
Cristiana si sporse dalla finestra, il capo rivolto
all’angolo della strada con
improvvisa trepidazione, prevedendo una catastrofe imminente; alle
sette
spaccate non c’era ancora nessuno e la ragazza pensava
disperatamente che
doveva venire, doveva per forza, se l’erano date regolarmente
quell’appuntamento e se per caso fosse mancata proprio quel
giorno allora
sarebbe tutto finito. Niente più rituali, niente
più attese trepidanti, niente
più cinque minuti speciali del mattino. Se non fosse venuta,
la ragazza col
cane avrebbe spezzato per sempre il loro legame.
Ad un tratto,
però, udì l’abbaiare festoso di due
cani e in un attimo riacquistò tutta la
speranza perduta; si ritirò dietro la tenda senza
nascondersi troppo,
attendendo che la sagoma della padrona fosse visibile, sentendo le
proprie
viscere attorcigliarsi. Il nervosismo non si placò quando la
ragazza oltrepassò
il bar, guinzaglio alla mano, ma si mutò in terrore quando
Cristiana si accorse
che un altro cane, più o meno della stessa grandezza del
primo, correva per la
piazza e si trascinava dietro un ragazzo con un paio di occhiali da
sole.
I due cani
passarono velocemente e altrettanto rapidi furono i padroni, che
Cristiana vide
chiacchierare con complicità e procedere affiancati. Curioso
il modo in cui,
nel percepire una disgrazia, i sensi siano capaci di cogliere in
pochissimi
istanti tutta una serie di particolari, specialmente quelli
più dolorosi, i più
irritanti, come l’aria allegra della ragazza o la mano
sinistra di lui che si
aggirava pericolosa nei pressi della sua vita. Quando superarono
l’angolo
destro del suo palazzo, Cristiana restò ancora un
po’ a fissare la piazza
deserta, aggrappata alla stoffa della tenda, impiegando più
che qualche secondo
per elaborare ciò che aveva appena visto; nel momento in cui
il suo cervello le
donò la consapevolezza ebbe l’impressione di
essere stata pugnalata alle spalle
e, come un automa, si lasciò andare sulla poltrona.
Le lacrime
comparvero prepotenti senza che se ne fosse resa conto, costringendola
a porsi
una mano sulla bocca per coprire il singhiozzo che le veniva su.
Scuoteva rapida
la testa in segno di dissenso, le palpebre strette in
un’espressione a metà fra
la rabbia e il dolore. Una volta riacquistato il controllo di
sé afferrò il
cellulare.
«Pronto?»
«Problema
grosso, grossissimo.»
«La ragazza
non è venuta?»
«Peggio» le
sfuggì un guaito che non lasciava dubbi sul suo attuale
stato.
«Cristiana?...»
A quel punto
scoppiò di nuovo in lacrime e singhiozzi e ne ebbe per un
bel po’,
intervallandoli ad imprecazioni colorite.
«Sembra quasi
fatto apposta» riuscì a dire. «Sembra
che abbia aspettato che le parlassi per
poi darmi la batosta tutto ad un tratto, sembra fatto apposta! Ma che
razza di
ironia è questa?»
«Senti,
secondo me ti stai facendo prendere troppo dal momento. Rifletti un
attimo, non
l’hai mai visto in vita tua, non s’è mai
fatto vedere assieme a lei, che ne sai
che sono fidanzati?»
Cristiana
strinse le labbra, provando a riprendere il dominio sulle lacrime.
«Sarà
semplicemente un ragazzo che ha incontrato per strada, tutto
qui…»
«E tu che ne
sai?» sbottò improvvisamente. «Vorrei
tanto sapere che ne sai, di quello che è
e di quello che non è! Parli tanto bene, sempre ottimista e
tutto, mi dici di
andare a parlarle, mi dici che non ho motivo di temere… che
cosa ne sai? Non ci
sei tu, qua, ogni giorno davanti alla finestra a sperare che accada
qualche
cazzo di miracolo, che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che la faccia
accorgere
di me, non lo sai, non c’eri quando l’ho vista per
la prima volta e ho pensato
che fosse la cosa più bella del mondo, non c’eri
ieri, quando l’ho vista e mi
sono accorta che non era nemmeno così perfetta, anzi! E non
sai che cosa mi
viene al pensiero di aver aspettato così tanto, di essere
stata paziente, di
aver aspettato ogni singolo giorno… e proprio adesso,
sentirsi tradita a questo
modo!»
«Ma calmati,
non gridare così, ti ripeto che stai saltando a conclusioni
affrettate!»
«Non sai
niente, tu, niente!»
Impiegò gran
parte della giornata a calmarsi: il colpo era stato troppo forte ed era
arrivato proprio nel momento in cui le cose sembravano andare per il
verso
giusto. All’iniziale momento di sconforto subentrò
presto una rabbia orgogliosa
che la indusse a rifiutare con decisione ogni nuovo contatto con la
ragazza;
niente più levatacce, niente più minuti di
trepidante attesa, niente più prese
in giro. Cristiana sembrava davvero decisa; ma che cosa aveva creduto,
si
diceva, ma che cosa pensava di fare? Ma sul serio le era passato per la
testa
di poter riuscire simpatica ad una tipa del genere? E poi, la
ragazza… nemmeno
troppo bella, pensava Cristiana, niente di speciale, una cosina da
nulla,
uguale a tante e tante altre e nonostante ciò si permetteva
di trattarla in
quel modo?
La
degenerazione del suo stato ingigantiva le capacità
immaginose della sua mente,
proiettandole scenari di vendetta e trionfo che, ad un esame
più lucido,
l’avrebbero fatta solo vergognare; forse in cuor suo aveva
già accolto
l’imbarazzo della sconfitta, ma ammetterlo a se stessa
avrebbe significato
perdere anche quell’ultima briciola di orgoglio rimastole.
Durante il giorno le
era più facile convincersi che non avrebbe più
avuto nulla a che fare con la
ragazza e che quella decisione le conferiva un’aria
vittoriosa, decretava la
sua superiorità, ma quando si trovava al buio, fra le
coperte del suo letto, i
crampi allo stomaco per la delusione si intensificavano e quella voce
prepotente che la incalzava nelle sue immaginarie arringhe si faceva
piccola
piccola, ridotta quasi a un sussurro.
La mattina seguente
fu combattuta fra il rimanere a dormire e l’alzarsi per
avvicinarsi alla
finestra. La sua testa le suggeriva di non logorare ulteriormente i
suoi nervi
già provati, ma una sorta di istinto masochista, una
curiosità consapevolmente
nociva la spingeva ad affacciarsi al davanzale, per controllare se la
ragazza
perdurasse nelle sue passeggiate fin troppo amichevoli con
quell’ignoto ragazzo.
Il primo
giorno scelse di rimanere in cucina, seduta al tavolo, col bicchiere di
latte
davanti a sé e lo sguardo perennemente volto in direzione
della finestra. Da
quella posizione non riusciva a vedere quel che accadeva nella piazza e
al
contempo aveva la sensazione di partecipare ancora a quel rituale, di
non
averlo sconfessato del tutto. Scoprì a sue spese quanto le
fosse difficile
abbandonare l’idea che la ragazza non sarebbe più
passata sotto casa sua per
lei, quanto le costasse rinunciare ai loro cinque minuti di comunione.
Dal
terzo giorno in poi si convinse che non serviva proprio a nulla star
lì e
rimase nel letto a soffrire con lo stomaco contratto e le viscere
annodate,
immaginando ripetersi la scena del lunedì. Il quarto giorno
si svegliò
bruscamente a causa di un brutto sogno, così
impiegò qualche secondo in più a
ricordarsi dove si trovava e che cosa era accaduto; commise
l’errore di
sbirciare l’orologio e, notando un sette seguito da due zeri
sul display della
sveglia digitale, subito fu presa dal panico e si rimproverò
per il ritardo.
Fortunatamente, quando già aveva posato il primo piede fuori
dal letto, le tornò
in mente la promessa fatta a se stessa e
l’inutilità dell’affacciarsi alla
finestra, perché la ragazza non sarebbe venuta.
A partire dal
sesto giorno in poi, onde evitare di commettere di nuovo quel genere di
errori,
decise di impegnarsi ad andare a letto più tardi, la sera
prima, in modo da
svegliarsi quando ormai l’orario prescelto per
l’appuntamento quotidiano era passato
da un pezzo; ma nemmeno questa nuova strategia le impedì di
provare un’enorme
malinconia.
Con il
sopraggiungere dell’ottavo giorno le cose andarono un
po’ meglio: il pensiero malinconico
della ragazza col cane rimaneva costantemente presente, ora
più intenso ora
sbiadito, ma Cristiana si sentiva pronta ad archiviare tutta quella
faccenda e
considerarla passata. Prese il cellulare, premette qualche tasto e se
lo portò
all’orecchio.
«Non dovrei
nemmeno risponderti» fu la prima cosa che udì dopo
il suono di accettazione
della chiamata.
«Lo so. Mi
dispiace.»
«Un po’ tardi
per le scuse. È passata una settimana e tu non ti sei fatta
sentire.»
«Lo so, lo so.
Avevo bisogno di un po’ di calma.»
Non udendo
alcuna risposta, domandò:
«Mi odi?»
«No. Non lo
so, veramente. Non sei stata molto gentile con me.»
«Lo so
benissimo, sono stata un’idiota.»
«Oh, questo
sicuro. Darmi addosso così, senza motivo, come se dicessi
quelle cose per
cattiveria.»
«Non mi fai
sentire meglio così, sai?»
«Concedimi
almeno di rimproverarti, no? Me lo devi.»
Cristiana sospirò.
«Immagino di
sì.»
«Non mi sono
piaciute per niente le cose che hai detto. Te la sei presa con me
quando ce
l’avevi solo con te stessa.»
«Sì,
è vero.»
«Spero tu
abbia capito che cosa si prova a vivere di sogni. La ragazza passava
sotto casa
tua perché semplicemente, diretta verso la villetta,
tagliava per la piazza.
Tutto qui. Non credo si sia mai accorta di te se non quel
giorno.»
«Avresti
potuto dirmele prima, queste cose, se le pensavi.»
«Mi avresti
dato ascolto?»
«Forse no»
ammise Cristiana.
«Ora devi solo
lasciar perdere tutta questa storia, d’accordo? Meglio
così, dopotutto. Non
posso pensare che ti alzavi ogni mattina per quei trenta secondi alla
finestra.»
«Che cosa
patetica, vero?»
«Diciamo
accettabile finché non è diventata
un’ossessione, finché non è diventata
indispensabile. Ora ascoltami: lo so che le mie parole ti fanno star
male. È
normale, ci passano tutti. È tremendo veder disattese le
speranze. Però pensa
se non fosse accaduto nulla: tu saresti ancora lì a
trepidare d’amore e d’ansia
per tutte le mattine di questo mondo.»
Cristiana non
rispose nulla, nonostante a quelle parole avesse avvertito una punta
fortissima
di nostalgia emergere prepotente dal dimenticatoio in cui cercava di
sigillare
la ragazza, il suo cane e il loro appuntamento. Si
disinteressò per un po’ del
discorso, catturata da quel “se non fosse accaduto
nulla”.
«Mi ascolti?
Mi hai chiamata, quantomeno mostra interesse!»
«Sì, certo,
scusa.»
«Che cosa
farai ora?»
«Niente.
Niente di niente. Le stesse cose che facevo prima.»
«E?»
«E mai più
alla finestra alle sette di mattina.»
«Oh, esatto!
Ce l’abbiamo fatta, vedi?»
La ragazza
mugugnò un verso affermativo, ma non riuscì a
replicare con convinzione.
«So che è
difficile, ma fatti forza. La vita va avanti.»
Questo
Cristiana lo sapeva bene: a chi importava che lei non potesse
più ammirare la
ragazza col cane ogni mattina dal lunedì al sabato? A chi
recava danno questo
mutamento? Alla ragazza? Al cane? Non sapeva nemmeno come si chiamasse!
Il
giorno dopo sarebbe stato mercoledì e il sole sarebbe sorto,
per poi tramontare
verso le otto e mezza e far posto al giovedì con la luna e
le stelle e tutto
quanto il resto dell’universo avrebbe continuato a muoversi,
così come le auto
a mettersi in moto e i bambini a nascere, le persone sarebbero morte e
da
qualche parte sarebbe scoppiato un incendio, le sue piante avrebbero
continuato
ad assorbire ossigeno e succhiare tutta l’acqua possibile da
quel poco di terra
che aveva messo loro nel vaso, per non parlare di quelle dannate
lancette dell’orologio
impegnate in un moto perpetuo, perciò a chi diamine
importava del suo rituale
spezzato?
Per quanto
massiccia, Cristiana non era sufficientemente forte da andare contro
quell’incessante rotazione; pensò che, in mancanza
di energie per reagire e
rimettersi in gioco, si sarebbe accodata alla giostra rotolando assieme
a lei.
Il palazzo in
cui abitava era piccolo: composto da un solo piano con due
appartamenti, il suo
e quello di una coppia di anziani che metteva il naso fuori di casa
solo per
fare due passi in piazza – lei diretta in chiesa e lui a
giocare a tressette ai
tavoli del bar –, nessuno suonava mai il citofono ed era
molto probabile che
l’impianto avesse subito dei guasti; né Cristiana
né la coppia di anziani se ne
preoccupava granché.
Per questo
motivo, quando il giovedì pomeriggio – primo
giorno nella novena di San Pietro
e San Paolo, come ricordava il campanaro della parrocchia –
un trillo metallico
rimbombò nell’appartamento, Cristiana quasi si
spaventò.
«Chi
è?»
«Sono Laura.
Cristina?»
Lo smarrimento
dettato da quel nome proprio, a cui non riusciva ad associare alcun
volto di
sua conoscenza, svanì e divenne puro terrore nel comprendere
chi doveva
trovarsi là sotto. Evitando di rabbrividire per
quell’orrendo “Cristina”,
cancellando d’un colpo tutto quel che aveva maturato in quei
giorni, si decise
a parlare.
«Eh…
sì. Cosa
c’è?»
«Puoi
scendere, per favore?»
«Sì, certo.
Arrivo.»
Una volta
chiuso l’interfono ebbe bisogno di un modo per scaricare
tutta l’adrenalina
improvvisamente accumulata e dunque cacciò un piccolo
urletto, si portò le mani
alla bocca e si concesse dieci secondi di andirivieni per il corridoio,
in modo
da calmarsi o quantomeno sfogarsi un po’.
L’assurdità della situazione non le
permise di ricordare che aveva indosso abiti sformati, né
preoccuparsi dei
capelli in uno stato non ottimale, ma il terrore misto a incoscienza
che
l’animava le impose di precipitarsi immediatamente
giù per le scale. Quasi
temesse uno scherzo, si avvicinò alla soglia del portone con
circospezione; una
volta riconosciuta la sagoma della ragazza che ben conosceva
– aveva sciolto i
capelli quel giorno, era la prima volta che Cristiana la vedeva
acconciata così
e forse per questo le parve più bella di quanto ricordasse
– si fece coraggio e
mise il naso fuori.
«Ciao»
salutò,
stupendosi di riuscire a guardarla negli occhi e parlare nello stesso
momento.
«Ciao! Ti ho
portato una cosa. In verità non sapevo bene se dovevo o
meno, scusami se ti
sembro invadente a suonare così… Ad ogni modo, ti
ho portato una cosa.»
«Una cosa? Per
me?»
«Sì. Appena
Mario me l’ha fatto vedere ho subito pensato a te.»
La ragazza
aveva tenuto fino a quel momento entrambe le mani dietro la schiena;
era
evidente, dal gran sorriso che teneva – un sorriso che faceva
passare in
secondo piano anche la brutta dentatura, tanta era l’allegria
che comunicava –
che non vedeva l’ora di mostrarle che cosa nascondesse dietro.
«Ecco, ti
piace?»
«Che
cos’è?»
«Un cucciolo! Sai,
la sua cagna ha partorito da poco e non sapeva a chi
darli…»
Cristiana
allungò le mani verso l’altra, ricevendo un
corpicino dalla pancia rosa e il
pelo a metà fra il bianco e il marrone, tanto piccolo da
poter essere retto con
una sola mano. Aprì e richiuse la bocca più
volte, quasi boccheggiando, non
rendendosi perfettamente conto di quel che le stava accadendo. Quando
spostò
gli occhi dal cucciolo alla ragazza, però, non
riuscì a trattenere la gioia.
«Ti piace?»
domandò Laura, ridendo nel notare la difficoltà
dell’altra nell’articolare
parole, oltre che la sua spudorata felicità.
«Come, come…
Come ti è venuto in mente? A me? Proprio a me?»
balbettò.
«Ma sì! Io
adoro i cani e quando Mario, un mio amico, mi ha detto che aveva dei
cuccioli
me ne sono subito presa uno. Gli altri però non sapeva a chi
darli, ma quando
sono passata sotto casa tua ed ero insieme a lui mi sei venuta in
mente, mi
sono ricordata che avevi detto di volere un cane, ma che non avevi
spazio… così
ho pensato che, visto che è ancora un cucciolo, in casa lo
si può tenere.
Magari quando cresce lo porti in campagna, non so. Anche da mio zio, se
ti va.»
Cristiana non
recepì tutto il suo discorso, limitandosi a carpire parole
qua e là, ma il
senso le fu chiaro. L’emozione provata fu talmente forte da
annichilirla.
«Dai,
addirittura le lacrime? Non c’è
bisogno!» si schermì la ragazza, arrossendo un
poco.
«Grazie,
grazie! Grazie!»
Le posò un
bacio sulla guancia senza nemmeno rendersene conto, incurante del fatto
che
fosse più bassa di lei, più pesante e imbrigliata
in abiti enormi, con le
guance paffute che, nel momento del sorriso, quasi soffocavano le sue
piccole
palpebre; continuava a ringraziare e farfugliare riguardo
l’impossibilità che
stesse capitando proprio a lei, pretendeva che le venisse svelato il
trucco.
«Ma proprio a
me, proprio a me? Tu?» diceva.
«Ma sì,
caspita! Perché non dovrebbe, scusa? Che
c’è di male?»
Cristiana
avrebbe avuto parecchio da aggiungere riguardo
l’assurdità del fatto che una
ragazza come Laura si preoccupasse di far felice una come lei, ma
preferì
tacere e credere sinceramente, per quel momento, che fosse proprio
così.
Avrebbe creduto a qualsiasi cosa avessero mai pronunciato quelle labbra
screpolate poste a difesa di un sorriso sgraziato. Che importava, si
diceva, esisteva
un mondo in cui a nessuno importava della sua taglia abbondante o del
neo scuro
sulla fronte di Laura, un mondo popolato da loro due, un cane dal pelo
bianco
ed un cucciolo talmente piccolo e indifeso da essere disposto ad
accettare come
rifugio anche le mani grassocce di Cristiana.
Non
abbandonò
il piccolo cane nemmeno quando sentì vibrare il cellulare.
Una rapida occhiata
al display le permise di riconoscere il solito numero, ma non
pensò nemmeno per
un attimo di rispondere; lei non avrebbe mai capito e Cristiana aveva
intenzione di godersi quello stato d’incoscienza il
più a lungo possibile.