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Autore: Pichichi    19/06/2012    3 recensioni
La protagonista è innamorata della ragazza che porta a spasso il suo cane per tutta la settimana, alle sette in punto, lungo la piazza sotto casa sua. Un giorno, non aspettandosi di vederla passare di lì, l'incontra di fronte all'edicola.
«Tu lo sai qual è il problema, vero?»
«Forse.»
«Non hai il coraggio di andare a parlarle. Dico io, cosa c’è di male? Cosa c’è di trascendentale nel fatto che tu scambi due chiacchiere con la ragazza che ogni santa mattina porta il suo cane a fare i bisogni sotto casa tua?»
«Non è vero, non ci fa i bisogni, è una padrona molto educata in tal senso.»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Annotazioni: per la serie “tutto meno che studiare per la maturità”, una storia dai toni lievemente surreali.

 

VOLEVO UN CANE

 

 

Erano davvero in pochi a portare a spasso il proprio cane in paese, li si contava sulle dita di una mano: la zitella del quartiere lungo la via del camposanto e la ragazzina col naso storto che trascinava un bestione più grosso di lei, senza dimenticare lo strano personaggio che riusciva a tenerne ben tre al guinzaglio e con un solo strattone li indirizzava a suo piacimento. Il resto della gente si limitava a scegliere fra due possibilità: lasciarlo libero per strada o smistarlo da qualche parente nelle masserie in campagna, giustificandosi dicendo «povero cristiano, che ha da fare qua in città, troppe macchine!». Pochi si prendevano la briga di portarlo a passeggio. L'idea di dover uscire di casa per portare il cane a sgranchirsi le zampe era una cosa da americani, che raccontavano gli emigrati degli anni '50 quando, ritornati, non ricordavano altro che taxi, strade enormi come arterie e palazzi con ascensori, alti quanto il campanile della chiesa. Lei ogni mattina attraversava la piazza in pantaloncini morbidi e canottiere colorate, tenendo al guinzaglio un cagnolone dalla lingua penzolante. Lei era una pioniera, portava a spasso il suo cane e, secondo Cristiana, lo faceva divinamente.

C’erano due cose che avrebbe voluto domandare ad un ipotetico genio della lampada: la prima, un corpo più bello. Cristiana era convinta che ci fossero persone destinate ad essere magre ed aitanti, altre cui toccava nascondere i rotoli di ciccia in eccesso sotto maglie troppo larghe e sperare che nelle fotografie non fossero evidenti altri rigonfiamenti. L’obiezione proposta dalla sua coscienza era che poteva sempre mettersi d’impegno e dimagrire; no, non era vero niente, anche se avesse perso la metà dei chili che segnava la sua bilancia non sarebbe mai stata slanciata e tonica, le sarebbero sempre rimaste le spalle grosse, il bacino largo e un seno con troppe smagliature. La seconda cosa intensamente desiderata era un cane. Le due richieste si escludevano a vicenda: se avesse potuto rendere il suo corpo improvvisamente agile e attraente non avrebbe avuto bisogno di un cane, ma siccome la prima ipotesi era di difficile realizzazione si era riservata una seconda opzione, quella di comprarsi un cane, perché se avesse avuto un cane – uno qualsiasi, che fosse brutto, piccolo, grande o bastardo non importava – sarebbe potuta scendere giù in piazza ogni giorno della settimana, dal lunedì al sabato, e portarlo al guinzaglio e mandarlo addosso proprio a quel bestione che trainava la ragazza; era il suo piano perfetto e ogni giorno, nei cinque minuti che questa impiegava per trascinare l’animale da un capo all’altro della piazza, si vedeva lì, accanto a lei, a chiacchierare e riuscirle simpatica, incamminarsi insieme sotto gli ombrosi platani della villa, al fresco, per poi sedersi su una panchina e lasciare liberi i due botoli.

Cristiana aveva ideato una specie di rituale, una sequenza di preparazione al momento del passaggio: si alzava ogni mattina alle sei e mezza – le sette meno un quarto quando proprio non ce la faceva – e si sistemava in cucina, spalancando le ante delle finestre sulla piazza ancora deserta, incamerando ondate di aria fresca e inspirando profondamente, fiduciosa e allegra; si riempiva un bicchiere di latte e si sedeva sulla poltrona accanto al davanzale, intervallando brevi sorsate a morsi ai biscotti di pastafrolla; per le sette meno dieci aveva già finito tutto e poteva alzarsi in piedi, ben nascosta dalla tenda, i movimenti del cuore più rapidi del normale. C’era un minuto in particolare, quello fra le sette e cinquantotto e le sette e cinquantanove, in cui le si abbatteva sul capo come un’ascia l’idea che quel giorno non sarebbe venuta; era un’ipotesi plausibile: poteva avere da fare, poteva essersi svegliata più tardi del solito, il suo cane poteva essere rimasto ferito ad una zampa. Ma lei veniva sempre, non mancava mai l’appuntamento e ogni volta che Cristiana la vedeva svoltare l’angolo sinistro della piazza, salire le scale con una certa fatica e tirare un po’ il guinzaglio per non dare troppa libertà al cane, sentiva prepotente la consapevolezza che non sarebbe potuta mancare, mai. Si era convinta che, in virtù della sua presenza nascosta, la ragazza col cane non sarebbe mancata mai.

Certe volte si diceva che sì, era una cosa un po’ sciocca, che la ragazza non aveva la più pallida idea dei suoi appostamenti – e meno male, pensava, o sarebbe fuggita all’idea di una cicciona che la spiava con maniacale precisione tutte le mattine della settimana – ma ogni giorno, dopo che questa aveva oltrepassato il bar, l’edicola, lo studio dentistico e la porta del suo palazzo Cristiana era felice pensando che doveva essere venuta per lei e che sarebbe venuta anche l’indomani. Non c’era davvero cosa più bella che potesse pensare, sapere che il giorno seguente l’avrebbe trovata lì e anche quello successivo e quello dopo ancora. Solo il sabato il suo svoltare l’angolo le dava un po’ di tristezza, perché la domenica la ragazza restava chiusa in casa a dormire.

Anche quel sabato, dunque, tirò un profondo sospiro quando vide la sagoma della sua personale ossessione sparire alla vista e restò per due minuti alla finestra, arrischiandosi ad abbandonare la protezione della tenda ed esporsi tutta alla piazza; era ancora troppo presto perché l’edicolante tirasse su la saracinesca e non era ancora il momento della messa delle otto nella chiesa che le stava di fronte. Sussultò quando sentì una vibrazione proveniente dal tavolo; esaminò il cellulare che si era acceso di colpo e, rassicurata dal riconoscimento di un numero amico, premette il tasto per rispondere.

«Pronto?»

«Com’è, già sveglia a quest’ora?»

«Sì, perché?»

«Non ci posso credere. Non ci posso credere. Ti sei alzata presto per poterla guardare.»

«E quindi? Lo faccio tutte le mattine» borbottò Cristiana, risentita.

«Tutte le mattine?»

«Sì, tutte le mattine, dal lunedì al sabato. La domenica no, perché non esce.»

«Ma dev’essere proprio bella, questa qui.»

«Oh sì, lo è.»

«Ma non ne sai nulla. Non sai come si chiama, non sai dove abita…»

«Che importa saperlo? Non voglio sapere come si chiama. Io voglio solo un cane.»

«Forse io ho capito chi è, lo sai?»

«No, non dirmi nulla, non fiatare!» esclamò improvvisamente. «Non devi dirmi nulla. Qualsiasi cosa la rovinerebbe… »

Udì un sospiro all’altro capo del telefono.

«L’unica cosa che voglio è un cane» proseguì, ostinata.

«Tu non vuoi un cane.»

«Oh sì, invece.»

«Invece no. Tu vuoi soltanto una possibilità. Ti serve una scusa per poterle parlare. Che t’importa del cane? Scendi e parlale.»

«No, non posso.»

«Perché no?»

«Sono grassa, brutta. Non le piacerei. Rovinerei tutto.»

«E avere un cane cambierebbe le cose?»

«No» rispose, con meno sicurezza, «ma se avessi un cane lei si concentrerebbe su quello e forse si dimenticherebbe di guardarmi in faccia… se avessi un cane scenderei a parlarle e lei si ricorderebbe di me come della “ragazza col cane”, non della “ragazza invadente e noiosa”.»

«Non sei noiosa, non più di tanto.»

«Non capisci… non basta non essere noiosi.»

«Ci credi che continuo a non capire il ruolo del cane?»

«Dovrei essere più disinvolta e sicura di me, ma non è tanto facile quando non ti piaci abbastanza per guardarti allo specchio…» continuò fra sé. «Per questo voglio un cane! Con un cane sarei più forte, con un cane avremmo qualcosa in comune!»

«Va bene, va bene, d’accordo, vuoi un cane. Benissimo, vallo a prendere.»

«E dove?»

«Oh, ce ne sono così tanti in giro. Prendine uno, mettici un guinzaglio, fatti trovare alle sette sotto casa e il gioco è fatto.»

«No, non… non è possibile.»

«Perché no, sentiamo.»

«Perché comincerebbe a farmi domande a cui non saprei dare risposta, tipo che razza è, come si chiama, se ha fatto i vaccini, tutte ‘ste cose.»

«Benissimo, allora perché non cerchi qualcuno che venda qualche cucciolo, così te lo pigli, non hai tutti ‘sti problemi e fai anche una figura migliore!»

«D’accordo, ma chi? Non conosco nessuno.»

«Lo dici da secoli, che vuoi un cane. Avrai dei risparmi, vanne a comprare uno.»

«I soldi mi servono per altre cose…»

«Tu lo sai qual è il problema, vero?»

«Forse.»

«Non hai il coraggio di andare a parlarle. Dico io, cosa c’è di male? Cosa c’è di trascendentale nel fatto che tu scambi due chiacchiere con la ragazza che ogni santa mattina porta il suo cane a fare i bisogni sotto casa tua?»

«Non è vero, non ci fa i bisogni, è una padrona molto educata in tal senso.»

«Capisci, vero, che non c’è nulla di strano? Che non c’è una legge che lo vieta?»

Cristiana emise uno sbuffo e quando tornò a parlare la sua voce rassomigliava molto ad un piagnucolio.

«Ma come faccio, come faccio?»

«Inventa una scusa, una qualsiasi. Che ne so, lancia due calzini dalla finestra e chiedile se per favore può riprenderli…»

«E che cosa le dico? Che stavo stendendo i panni in casa e mi sono scivolati di mano, sono corsi fino al davanzale e sono volati giù? Non ho bisogno di scuse per far brutta figura!»

«Allora fa’ finta di star dando acqua alle piante e mettiti a gridare “attenzione!”. O magari bagnala sul serio, è un classico, così scendi sotto tutta premurosa e le dai pure il cambio che sarà costretta a restituirti e da lì è fatta, saranno rose e fiori!»

«Un piano perfetto. Hai solo dimenticato un particolare: non ho fiori sul davanzale.»

«Ma che dici, sì che li hai! Fiori, piante, quel che è!»

«Sono cactus. Che cavolo li annaffio a fare?»

Approfittando del silenzio all’altro capo del telefono Cristiana sbottò.

«Lo vedi, lo vedi che non c’è un modo? Piantala di parlarmi così e lasciamo le cose come stanno. Quando avrò un cane ci penserò, al da farsi.»

«Adesso devo andare, però promettimi che ci pensi. Non mi va di pensarti ogni mattina davanti a quella finestra.»

Chiusa la conversazione, Cristiana tornò a sedersi sulla poltrona e a sospirare, quella volta con taglio decisamente poco entusiasta; diede uno sguardo al davanzale dal quale ogni giorno osservava con avidità quella ragazza, le sue scarpe da ginnastica bianche, le gambe lunghe, toniche, le magliette colorate che alternava in base al berretto o all’elastico per capelli. Non era troppo difficile da capire: perché volersi ostinare ad andare contro il naturale corso delle cose? Non avrebbe concluso nulla andandole a parlare, anzi, avrebbe peggiorato le cose.

Con grande malinconia osservò i due cactus che aveva posto ai lati del davanzale: di media statura, rotondi e panciuti, affondati nella terra e ricoperti di spine. Pensò che lei era proprio così: grassa, gonfia e perennemente immobile, ancorata con forza al suo vasetto di terra.

La domenica non era giorno di appostamenti e Cristiana poteva dormire quanto le pareva. Non si svegliò troppo tardi, ma gustò fino in fondo il piacere di potersi rigirare nel letto in tranquillità; afferrò il cellulare che aveva posato sul comodino e lo accese per controllare l’orario. La prima sorpresa di quella giornata fu scoprire che la sua compagnia telefonica le aveva scalato ben tre euro dal credito per il rinnovo dell’offerta che le permetteva di inviare messaggi gratis. Con un certo fastidio al pensiero di doversi alzare, mise in conto una capata all’edicolante sotto casa per procurarsi una ricarica.

Passato un altro po’ di tempo a dormicchiare decise di scendere giù dal letto e recarsi in bagno per la toeletta mattutina. Poiché aveva in programma di uscire prestò particolare attenzione allo stato dei suoi capelli, concludendo infine che, se proprio non volevano saperne di restare in ordine senza elettrizzarsi, li avrebbe legati in una coda – proprio come faceva la ragazza col cane, pensò con un piccolo sussulto. Sistemò le coppe del reggiseno in modo che non dovesse vergognarsi troppo di eventuali sobbalzi e, indossata una maglietta nera a maniche corte insieme ad un paio di bermuda, fu pronta per scendere in strada.

Contava i soldi necessari sul palmo della mano mentre, uscita dal portone, svoltava a sinistra, sentendosi a disagio per via del colorito a dir poco pallido della sua pelle; di andare al mare a prendere un po’ di sole neanche se ne parlava, ovviamente, inoltre aveva fatto l’abitudine a sentirsi sempre gli sguardi di tutti addosso. Comprò il biglietto da grattare per ottenere il codice e compì un’unica deviazione nel suo percorso, quella verso il cestino della spazzatura del bar, per gettarvi la plastica entro cui era racchiusa la sua ricarica. Fu così che andò incontro alla seconda e ben più interessante sorpresa della giornata.

La piazza cominciava a popolarsi, per lo più di anziani che stavano seduti alle panchine approfittando dell’ora non troppo calda e vecchie che accorrevano alla messa, ma Cristiana non vi prestava alcuna attenzione, la testa bassa a pigiare i tasti del cellulare. Le sembrò di sentire un abbaiare in lontananza, confuso fra il rumore delle macchine che passavano, i ragazzi che si muovevano a gruppetti e il vociare all’interno del bar, ma solo quando avvertì qualcosa di caldo contro le sue gambe si decise ad alzare lo sguardo. Un cane dal pelo bianco, alto e grosso, le stava vicino e sembrava attirato dalle sue scarpe, che aveva preso ad annusare.

«Scusa, scusami, l’ho lasciato troppo libero… non è pericoloso.»

«Madonnacristo!» esclamò lei, ritraendosi come fosse stata scottata.

La ragazza che le era venuta incontro si fermò a pochi passi, perplessa per via dell’espressione stralunata sul volto dell’altra; si avvolse il guinzaglio attorno alla mano e tirò via il cane.

«Tutto bene? Non ti ha mica morso?» domandò.

Cristiana ebbe a malapena il tempo di rendersi conto dell’identità della sua interlocutrice, della scena che stava vivendo, che quando provò a parlare si confuse, quasi dimenticandosi come si faceva.

«No, no! È che… veramente, veramente…»

Scoppiò di colpo in una risatina nervosa che contagiò anche l’altra ragazza, inducendola a sorridere; era il suo modo per scaricare la tensione, ma non le riuscì piuttosto bene: era troppo impegnata a divorarla con gli occhi, assorbire ogni particolare, per poter pensare anche a come risponderle. Pensò comunque di non darle l’impressione di essere una povera balbuziente e regolarizzò il respiro.

«Non mi aspettavo di vederti qui.»

«Ci conosciamo?»

La testa le girava così velocemente che temeva di svenire, se solo si fosse fermata a pensare a quel che stava facendo e soprattutto al colore che doveva aver assunto. Deglutì e provò a riprendersi dalla sorpresa.

«No, ho riconosciuto il cane. Sai, abito là sopra, ho visto che lo porti a passeggio qui» sorrise ancora, soddisfatta per aver messo in piedi una frase di senso compiuto. «Qualche volta.»

«Sì, sì, è vero, lo porto a spasso la mattina presto, quando ancora non c’è nessuno. Se no non ho mai tempo» la ragazza ricambiava il suo sorriso con aria indulgente. «Come ti chiami?»

«Cristina» rispose immediatamente lei.

L’accorgersi di aver dato, nella foga del momento, il nome sbagliato, la rese per qualche secondo inattiva, impegnata a prendersi mentalmente a schiaffi e a pugni dappertutto e dirsi che sì, era proprio un’idiota; fu assente quel tanto che bastava per non ascoltare il nome che la ragazza col cane aveva pronunciato, ma non abbastanza da non poterla guardare finalmente in faccia.

«Ti piacciono i cani, Cristina?» domandò.

«Io, io no, veramente non ne ho…» rispose, poco concentrata.

Si era appena accorta di un neo piuttosto vistoso che la ragazza aveva proprio al centro della fronte, accanto all’attaccatura dei capelli; non mancò di notare nemmeno il sopracciglio asimmetrico, i capelli tinti che ad un’osservazione aerea aveva creduto biondi, ma tutto sommato non furono dettagli tanto rilevanti quanto quello che la distrusse definitivamente ai suoi occhi. Aveva un sorriso davvero orrendo, a cominciare dai denti storti – fra cui uno che, in un eccesso di entusiasmo, stava provando a scavalcare il suo vicino – per terminare con la selva di brufoli che si annidavano sul mento, passando per i baffetti appena visibili e lo smalto ormai giallo. Cristiana fece ancora un passo indietro.

«Ne vorrei uno, di cane…» rispose.

«Sul serio? E perché non lo compri?»

«Non ho dove tenerlo.»

«Ah, giusto, non ci avevo pensato.»

«Adesso devo andare. Ci vediamo ancora, se passi di qui.»

«Sicuro. Ciao!»

Una volta al sicuro, Cristiana ebbe bisogno di cinque buoni minuti di assoluto silenzio per riprendersi da quanto le era appena accaduto. Quando fu abbastanza lucida da collegare i pensieri e mettere in fila le parole, compì rapidamente la ricarica del telefonino e subito compose il solito numero.

«Abbiamo un problema. Un problema grosso» esordì.

«Spero che sia una cosa importante, perché stavo dormendo.»

«D’accordo, non sai che è successo. L’ho vista.»

«Be’, sai che novità.»

«No, non capisci. L’ho vista da vicino.»

«L’hai vista da vicino? Che significa?» dopo un momento di pausa dall’altro capo del telefono esplose un urletto. «Vuol dire che l’hai vista? Ci hai parlato?»

«Sì.»

«Santa Brigida, e com’è andata?»

«Male.»

«Che significa male?»

«Be’, innanzitutto le sarò sembrata una menomata, non riuscivo nemmeno a spiccicare due parole. Ma non per questo è andata male.»

«E allora perché?»

«È brutta.»

«Brutta? Ma come?»

«Non è bionda naturale. Ha un sacco di brufoli, gli occhi castani. Per non parlare della voce.»

«E questo che cosa c’entra? Per un momento non sai che ho pensato… e allora? Una ragazza normale, che significa? Non è mica brutta.»

«Me la immaginavo diversa.»

«Diversa come?»

«Non so. Più bella.»

«Ma va là, scommetto che è bella così com’è. Giuro che a volte proprio non ti capisco. Ieri eri afflitta perché non potevi parlarle. Oggi le hai parlato e ti lamenti che era brutta. Datti una regolata, eh?»

«Ah, per la cronaca, da oggi mi chiamo Cristina.»

«Cristina?»

«Sì, perché nella paura di pisciarmi addosso mentre mi chiedeva come mi chiamavo ho risposto veloce. Così ora crede che mi chiami Cristina.»

«Be’, non è male. Poteva andare peggio. E poi, cos’è successo? Se n’è andata?»

«No, me ne sono andata io. Non reggevo più la vergogna.»

«Quante storie, è andata alla grande! Non fare così, dovresti essere entusiasta! Pensa a ieri mattina, quando mi assicuravi che non saresti mai riuscita a scambiare qualche parola con lei. Ah, a proposito, hai scoperto come si chiama?»

«No. Ero troppo occupata a tirarmi calci nelle ovaie per quel “Cristina”.»

«Assurdo comunque, davvero assurdo. Ora che farai?»

«Niente, che dovrei fare?»

«Come niente? E tutta questa fatica?»

«Con che faccia mi ripresenterei davanti a lei? Figurati se si ricorda di me, poi…»

«Sempre molto positiva, vero?»

«Anche se, devo dire la verità, non mi dispiace troppo non averla trovata poi così bella. Voglio dire, a me piace lo stesso. Anzi, mi piace di più per questo! Avanti, dimmi, quante persone conosci disposte ad amare anche i nei sulla tua fronte?»

«Effettivamente nessuna.»

«Così è perfetto, così lei ora sa che sono un’orrenda ragazza sovrappeso ed io so che ha i capelli tinti e i brufoli! Per non parlare dei baffetti!»

«Certo che sei proprio cattiva però, magari stamattina si è alzata di fretta e non ha avuto il tempo di sistemarsi.»

«Ma è proprio questo, capisci? Quante persone la conosceranno così come l’ho vista io stamattina?»

«Ora non ti esaltare troppo, però…»

Cristiana non ci vedeva più dalla gioia, quasi non voleva credere di essere riuscita a portare a compimento una conversazione con la ragazza col cane – una vera conversazione, forse un po’ troppo rigida, ma sempre meglio di fantasie covate per giorni e giorni – ed aver scoperto che non era poi così perfetta, una ragazza normale, con dei comunissimi difetti. Quando la mattina dopo le toccò alzarsi stette per un po’ a pensare se fosse il caso o meno di appostarsi alla finestra e se fosse meglio farsi riconoscere o no; l’entusiasmo del giorno prima le suggeriva di affacciarsi e salutarla, per bearsi della sua voce e di un sorriso rivolto proprio a lei, a lei soltanto, ma la cautela le suggerì di non esporsi troppo, non ancora. Dopotutto la ragazza poteva decidere, proprio a causa del loro incontro, di non passeggiare più per la piazza; c’erano tante altre strade, pensava Cristiana sapendo che quel giorno sarebbe risultato decisivo: vederla ripassare davanti casa sua le avrebbe conferito una dose di gioia sufficiente a farla campare di rendita per il resto della settimana, ma scoprire per la prima volta dopo settimane e settimane che aveva mancato l’appuntamento l’avrebbe uccisa. Ecco, pensò che era proprio come andare ad un appuntamento e fu con un timore nuovo ed un batticuore che non l’abbandonò per un minuto, nemmeno durante quello di scoramento, che si accostò al davanzale. Erano le sei e cinquantotto, si trovava in anticipo.

Come sempre non c’era anima viva a quell’ora di lunedì e l’aria era fresca, piacevole. Cristiana si sporse dalla finestra, il capo rivolto all’angolo della strada con improvvisa trepidazione, prevedendo una catastrofe imminente; alle sette spaccate non c’era ancora nessuno e la ragazza pensava disperatamente che doveva venire, doveva per forza, se l’erano date regolarmente quell’appuntamento e se per caso fosse mancata proprio quel giorno allora sarebbe tutto finito. Niente più rituali, niente più attese trepidanti, niente più cinque minuti speciali del mattino. Se non fosse venuta, la ragazza col cane avrebbe spezzato per sempre il loro legame.

Ad un tratto, però, udì l’abbaiare festoso di due cani e in un attimo riacquistò tutta la speranza perduta; si ritirò dietro la tenda senza nascondersi troppo, attendendo che la sagoma della padrona fosse visibile, sentendo le proprie viscere attorcigliarsi. Il nervosismo non si placò quando la ragazza oltrepassò il bar, guinzaglio alla mano, ma si mutò in terrore quando Cristiana si accorse che un altro cane, più o meno della stessa grandezza del primo, correva per la piazza e si trascinava dietro un ragazzo con un paio di occhiali da sole.

I due cani passarono velocemente e altrettanto rapidi furono i padroni, che Cristiana vide chiacchierare con complicità e procedere affiancati. Curioso il modo in cui, nel percepire una disgrazia, i sensi siano capaci di cogliere in pochissimi istanti tutta una serie di particolari, specialmente quelli più dolorosi, i più irritanti, come l’aria allegra della ragazza o la mano sinistra di lui che si aggirava pericolosa nei pressi della sua vita. Quando superarono l’angolo destro del suo palazzo, Cristiana restò ancora un po’ a fissare la piazza deserta, aggrappata alla stoffa della tenda, impiegando più che qualche secondo per elaborare ciò che aveva appena visto; nel momento in cui il suo cervello le donò la consapevolezza ebbe l’impressione di essere stata pugnalata alle spalle e, come un automa, si lasciò andare sulla poltrona.

Le lacrime comparvero prepotenti senza che se ne fosse resa conto, costringendola a porsi una mano sulla bocca per coprire il singhiozzo che le veniva su. Scuoteva rapida la testa in segno di dissenso, le palpebre strette in un’espressione a metà fra la rabbia e il dolore. Una volta riacquistato il controllo di sé afferrò il cellulare.

«Pronto?»

«Problema grosso, grossissimo.»

«La ragazza non è venuta?»

«Peggio» le sfuggì un guaito che non lasciava dubbi sul suo attuale stato.

«Cristiana?...»

A quel punto scoppiò di nuovo in lacrime e singhiozzi e ne ebbe per un bel po’, intervallandoli ad imprecazioni colorite.

«Sembra quasi fatto apposta» riuscì a dire. «Sembra che abbia aspettato che le parlassi per poi darmi la batosta tutto ad un tratto, sembra fatto apposta! Ma che razza di ironia è questa?»

«Senti, secondo me ti stai facendo prendere troppo dal momento. Rifletti un attimo, non l’hai mai visto in vita tua, non s’è mai fatto vedere assieme a lei, che ne sai che sono fidanzati?»

Cristiana strinse le labbra, provando a riprendere il dominio sulle lacrime.

«Sarà semplicemente un ragazzo che ha incontrato per strada, tutto qui…»

«E tu che ne sai?» sbottò improvvisamente. «Vorrei tanto sapere che ne sai, di quello che è e di quello che non è! Parli tanto bene, sempre ottimista e tutto, mi dici di andare a parlarle, mi dici che non ho motivo di temere… che cosa ne sai? Non ci sei tu, qua, ogni giorno davanti alla finestra a sperare che accada qualche cazzo di miracolo, che succeda qualcosa, qualsiasi cosa che la faccia accorgere di me, non lo sai, non c’eri quando l’ho vista per la prima volta e ho pensato che fosse la cosa più bella del mondo, non c’eri ieri, quando l’ho vista e mi sono accorta che non era nemmeno così perfetta, anzi! E non sai che cosa mi viene al pensiero di aver aspettato così tanto, di essere stata paziente, di aver aspettato ogni singolo giorno… e proprio adesso, sentirsi tradita a questo modo!»

«Ma calmati, non gridare così, ti ripeto che stai saltando a conclusioni affrettate!»

«Non sai niente, tu, niente!»

Impiegò gran parte della giornata a calmarsi: il colpo era stato troppo forte ed era arrivato proprio nel momento in cui le cose sembravano andare per il verso giusto. All’iniziale momento di sconforto subentrò presto una rabbia orgogliosa che la indusse a rifiutare con decisione ogni nuovo contatto con la ragazza; niente più levatacce, niente più minuti di trepidante attesa, niente più prese in giro. Cristiana sembrava davvero decisa; ma che cosa aveva creduto, si diceva, ma che cosa pensava di fare? Ma sul serio le era passato per la testa di poter riuscire simpatica ad una tipa del genere? E poi, la ragazza… nemmeno troppo bella, pensava Cristiana, niente di speciale, una cosina da nulla, uguale a tante e tante altre e nonostante ciò si permetteva di trattarla in quel modo?

La degenerazione del suo stato ingigantiva le capacità immaginose della sua mente, proiettandole scenari di vendetta e trionfo che, ad un esame più lucido, l’avrebbero fatta solo vergognare; forse in cuor suo aveva già accolto l’imbarazzo della sconfitta, ma ammetterlo a se stessa avrebbe significato perdere anche quell’ultima briciola di orgoglio rimastole. Durante il giorno le era più facile convincersi che non avrebbe più avuto nulla a che fare con la ragazza e che quella decisione le conferiva un’aria vittoriosa, decretava la sua superiorità, ma quando si trovava al buio, fra le coperte del suo letto, i crampi allo stomaco per la delusione si intensificavano e quella voce prepotente che la incalzava nelle sue immaginarie arringhe si faceva piccola piccola, ridotta quasi a un sussurro.

La mattina seguente fu combattuta fra il rimanere a dormire e l’alzarsi per avvicinarsi alla finestra. La sua testa le suggeriva di non logorare ulteriormente i suoi nervi già provati, ma una sorta di istinto masochista, una curiosità consapevolmente nociva la spingeva ad affacciarsi al davanzale, per controllare se la ragazza perdurasse nelle sue passeggiate fin troppo amichevoli con quell’ignoto ragazzo.

Il primo giorno scelse di rimanere in cucina, seduta al tavolo, col bicchiere di latte davanti a sé e lo sguardo perennemente volto in direzione della finestra. Da quella posizione non riusciva a vedere quel che accadeva nella piazza e al contempo aveva la sensazione di partecipare ancora a quel rituale, di non averlo sconfessato del tutto. Scoprì a sue spese quanto le fosse difficile abbandonare l’idea che la ragazza non sarebbe più passata sotto casa sua per lei, quanto le costasse rinunciare ai loro cinque minuti di comunione. Dal terzo giorno in poi si convinse che non serviva proprio a nulla star lì e rimase nel letto a soffrire con lo stomaco contratto e le viscere annodate, immaginando ripetersi la scena del lunedì. Il quarto giorno si svegliò bruscamente a causa di un brutto sogno, così impiegò qualche secondo in più a ricordarsi dove si trovava e che cosa era accaduto; commise l’errore di sbirciare l’orologio e, notando un sette seguito da due zeri sul display della sveglia digitale, subito fu presa dal panico e si rimproverò per il ritardo. Fortunatamente, quando già aveva posato il primo piede fuori dal letto, le tornò in mente la promessa fatta a se stessa e l’inutilità dell’affacciarsi alla finestra, perché la ragazza non sarebbe venuta.

A partire dal sesto giorno in poi, onde evitare di commettere di nuovo quel genere di errori, decise di impegnarsi ad andare a letto più tardi, la sera prima, in modo da svegliarsi quando ormai l’orario prescelto per l’appuntamento quotidiano era passato da un pezzo; ma nemmeno questa nuova strategia le impedì di provare un’enorme malinconia.

Con il sopraggiungere dell’ottavo giorno le cose andarono un po’ meglio: il pensiero malinconico della ragazza col cane rimaneva costantemente presente, ora più intenso ora sbiadito, ma Cristiana si sentiva pronta ad archiviare tutta quella faccenda e considerarla passata. Prese il cellulare, premette qualche tasto e se lo portò all’orecchio.

«Non dovrei nemmeno risponderti» fu la prima cosa che udì dopo il suono di accettazione della chiamata.

«Lo so. Mi dispiace.»

«Un po’ tardi per le scuse. È passata una settimana e tu non ti sei fatta sentire.»

«Lo so, lo so. Avevo bisogno di un po’ di calma.»

Non udendo alcuna risposta, domandò:

«Mi odi?»

«No. Non lo so, veramente. Non sei stata molto gentile con me.»

«Lo so benissimo, sono stata un’idiota.»

«Oh, questo sicuro. Darmi addosso così, senza motivo, come se dicessi quelle cose per cattiveria.»

«Non mi fai sentire meglio così, sai?»

«Concedimi almeno di rimproverarti, no? Me lo devi.»

Cristiana sospirò.

«Immagino di sì.»

«Non mi sono piaciute per niente le cose che hai detto. Te la sei presa con me quando ce l’avevi solo con te stessa.»

«Sì, è vero.»

«Spero tu abbia capito che cosa si prova a vivere di sogni. La ragazza passava sotto casa tua perché semplicemente, diretta verso la villetta, tagliava per la piazza. Tutto qui. Non credo si sia mai accorta di te se non quel giorno.»

«Avresti potuto dirmele prima, queste cose, se le pensavi.»

«Mi avresti dato ascolto?»

«Forse no» ammise Cristiana.

«Ora devi solo lasciar perdere tutta questa storia, d’accordo? Meglio così, dopotutto. Non posso pensare che ti alzavi ogni mattina per quei trenta secondi alla finestra.»

«Che cosa patetica, vero?»

«Diciamo accettabile finché non è diventata un’ossessione, finché non è diventata indispensabile. Ora ascoltami: lo so che le mie parole ti fanno star male. È normale, ci passano tutti. È tremendo veder disattese le speranze. Però pensa se non fosse accaduto nulla: tu saresti ancora lì a trepidare d’amore e d’ansia per tutte le mattine di questo mondo.»

Cristiana non rispose nulla, nonostante a quelle parole avesse avvertito una punta fortissima di nostalgia emergere prepotente dal dimenticatoio in cui cercava di sigillare la ragazza, il suo cane e il loro appuntamento. Si disinteressò per un po’ del discorso, catturata da quel “se non fosse accaduto nulla”.

«Mi ascolti? Mi hai chiamata, quantomeno mostra interesse!»

«Sì, certo, scusa.»

«Che cosa farai ora?»

«Niente. Niente di niente. Le stesse cose che facevo prima.»

«E?»

«E mai più alla finestra alle sette di mattina.»

«Oh, esatto! Ce l’abbiamo fatta, vedi?»

La ragazza mugugnò un verso affermativo, ma non riuscì a replicare con convinzione.

«So che è difficile, ma fatti forza. La vita va avanti.»

Questo Cristiana lo sapeva bene: a chi importava che lei non potesse più ammirare la ragazza col cane ogni mattina dal lunedì al sabato? A chi recava danno questo mutamento? Alla ragazza? Al cane? Non sapeva nemmeno come si chiamasse! Il giorno dopo sarebbe stato mercoledì e il sole sarebbe sorto, per poi tramontare verso le otto e mezza e far posto al giovedì con la luna e le stelle e tutto quanto il resto dell’universo avrebbe continuato a muoversi, così come le auto a mettersi in moto e i bambini a nascere, le persone sarebbero morte e da qualche parte sarebbe scoppiato un incendio, le sue piante avrebbero continuato ad assorbire ossigeno e succhiare tutta l’acqua possibile da quel poco di terra che aveva messo loro nel vaso, per non parlare di quelle dannate lancette dell’orologio impegnate in un moto perpetuo, perciò a chi diamine importava del suo rituale spezzato?

Per quanto massiccia, Cristiana non era sufficientemente forte da andare contro quell’incessante rotazione; pensò che, in mancanza di energie per reagire e rimettersi in gioco, si sarebbe accodata alla giostra rotolando assieme a lei.

Il palazzo in cui abitava era piccolo: composto da un solo piano con due appartamenti, il suo e quello di una coppia di anziani che metteva il naso fuori di casa solo per fare due passi in piazza – lei diretta in chiesa e lui a giocare a tressette ai tavoli del bar –, nessuno suonava mai il citofono ed era molto probabile che l’impianto avesse subito dei guasti; né Cristiana né la coppia di anziani se ne preoccupava granché.

Per questo motivo, quando il giovedì pomeriggio – primo giorno nella novena di San Pietro e San Paolo, come ricordava il campanaro della parrocchia – un trillo metallico rimbombò nell’appartamento, Cristiana quasi si spaventò.

«Chi è?»

«Sono Laura. Cristina?»

Lo smarrimento dettato da quel nome proprio, a cui non riusciva ad associare alcun volto di sua conoscenza, svanì e divenne puro terrore nel comprendere chi doveva trovarsi là sotto. Evitando di rabbrividire per quell’orrendo “Cristina”, cancellando d’un colpo tutto quel che aveva maturato in quei giorni, si decise a parlare.

«Eh… sì. Cosa c’è?»

«Puoi scendere, per favore?»

«Sì, certo. Arrivo.»

Una volta chiuso l’interfono ebbe bisogno di un modo per scaricare tutta l’adrenalina improvvisamente accumulata e dunque cacciò un piccolo urletto, si portò le mani alla bocca e si concesse dieci secondi di andirivieni per il corridoio, in modo da calmarsi o quantomeno sfogarsi un po’. L’assurdità della situazione non le permise di ricordare che aveva indosso abiti sformati, né preoccuparsi dei capelli in uno stato non ottimale, ma il terrore misto a incoscienza che l’animava le impose di precipitarsi immediatamente giù per le scale. Quasi temesse uno scherzo, si avvicinò alla soglia del portone con circospezione; una volta riconosciuta la sagoma della ragazza che ben conosceva – aveva sciolto i capelli quel giorno, era la prima volta che Cristiana la vedeva acconciata così e forse per questo le parve più bella di quanto ricordasse – si fece coraggio e mise il naso fuori.

«Ciao» salutò, stupendosi di riuscire a guardarla negli occhi e parlare nello stesso momento.

«Ciao! Ti ho portato una cosa. In verità non sapevo bene se dovevo o meno, scusami se ti sembro invadente a suonare così… Ad ogni modo, ti ho portato una cosa.»

«Una cosa? Per me?»

«Sì. Appena Mario me l’ha fatto vedere ho subito pensato a te.»

La ragazza aveva tenuto fino a quel momento entrambe le mani dietro la schiena; era evidente, dal gran sorriso che teneva – un sorriso che faceva passare in secondo piano anche la brutta dentatura, tanta era l’allegria che comunicava – che non vedeva l’ora di mostrarle che cosa nascondesse dietro.

«Ecco, ti piace?»

«Che cos’è?»

«Un cucciolo! Sai, la sua cagna ha partorito da poco e non sapeva a chi darli…»

Cristiana allungò le mani verso l’altra, ricevendo un corpicino dalla pancia rosa e il pelo a metà fra il bianco e il marrone, tanto piccolo da poter essere retto con una sola mano. Aprì e richiuse la bocca più volte, quasi boccheggiando, non rendendosi perfettamente conto di quel che le stava accadendo. Quando spostò gli occhi dal cucciolo alla ragazza, però, non riuscì a trattenere la gioia.

«Ti piace?» domandò Laura, ridendo nel notare la difficoltà dell’altra nell’articolare parole, oltre che la sua spudorata felicità.

«Come, come… Come ti è venuto in mente? A me? Proprio a me?» balbettò.

«Ma sì! Io adoro i cani e quando Mario, un mio amico, mi ha detto che aveva dei cuccioli me ne sono subito presa uno. Gli altri però non sapeva a chi darli, ma quando sono passata sotto casa tua ed ero insieme a lui mi sei venuta in mente, mi sono ricordata che avevi detto di volere un cane, ma che non avevi spazio… così ho pensato che, visto che è ancora un cucciolo, in casa lo si può tenere. Magari quando cresce lo porti in campagna, non so. Anche da mio zio, se ti va.»

Cristiana non recepì tutto il suo discorso, limitandosi a carpire parole qua e là, ma il senso le fu chiaro. L’emozione provata fu talmente forte da annichilirla.

«Dai, addirittura le lacrime? Non c’è bisogno!» si schermì la ragazza, arrossendo un poco.

«Grazie, grazie! Grazie!»

Le posò un bacio sulla guancia senza nemmeno rendersene conto, incurante del fatto che fosse più bassa di lei, più pesante e imbrigliata in abiti enormi, con le guance paffute che, nel momento del sorriso, quasi soffocavano le sue piccole palpebre; continuava a ringraziare e farfugliare riguardo l’impossibilità che stesse capitando proprio a lei, pretendeva che le venisse svelato il trucco.

«Ma proprio a me, proprio a me? Tu?» diceva.

«Ma sì, caspita! Perché non dovrebbe, scusa? Che c’è di male?»

Cristiana avrebbe avuto parecchio da aggiungere riguardo l’assurdità del fatto che una ragazza come Laura si preoccupasse di far felice una come lei, ma preferì tacere e credere sinceramente, per quel momento, che fosse proprio così. Avrebbe creduto a qualsiasi cosa avessero mai pronunciato quelle labbra screpolate poste a difesa di un sorriso sgraziato. Che importava, si diceva, esisteva un mondo in cui a nessuno importava della sua taglia abbondante o del neo scuro sulla fronte di Laura, un mondo popolato da loro due, un cane dal pelo bianco ed un cucciolo talmente piccolo e indifeso da essere disposto ad accettare come rifugio anche le mani grassocce di Cristiana.

Non abbandonò il piccolo cane nemmeno quando sentì vibrare il cellulare. Una rapida occhiata al display le permise di riconoscere il solito numero, ma non pensò nemmeno per un attimo di rispondere; lei non avrebbe mai capito e Cristiana aveva intenzione di godersi quello stato d’incoscienza il più a lungo possibile.

   
 
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