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Autore: Milla Chan    19/06/2012    4 recensioni
[ Terzo episodio della serie di Buret ]
Allora gli venivano in mente tutte le crepe che aveva provocato a ciò che i loro animi condividevano, diventate poi squarci, fino a che tutto si era diviso con violenza. Per colpa sua, ma faceva ancora fatica ad accettarlo.
Rivedeva come una pena infernale tutte le volte che Norvegia gli gridava di smetterla e lui non lo sentiva.
Nei momenti di lucidità si chiedeva perché non l'avesse mai ascoltato.
Il loro amore era nato mano nella mano e morto in un letto. Era impazzito ed era collassato su se stesso, distruggendosi.
Sterminato come uno dei nemici delle guerre. Lacerato, un pezzo di stoffa cencioso, fatto marcire per troppo tempo dalla follia di chi ora alterna la depressione a delle folli risate, insane, momenti in cui bisogna tenersi alla larga da lui, in ogni caso.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Danimarca, Islanda, Nordici, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
- Questa storia fa parte della serie 'Vores historie.'
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Nota:
Questo è il terzo episodio della serie Vores Historie ed è legata in qualche modo a Redd.
Se non avete letto le altre storie, difficilmente capirete il senso di questa.
Buona lettura!

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I singhiozzi si sentivano in tutta la casa, tanto silenziosa da sembrare disabitata.

Il bambino veniva stretto forte al petto di Danimarca, inginocchiato sul pavimento della camera.

Chi stava piangendo non era Islanda.


Si sentiva morire, Dan, aggrappato al bambino e sentendolo come l’ultima cosa rimastagli.
La sua mente era costantemente piena di Norvegia, alternando odio nei confronti di Svezia, per qualche meccanismo complicato imposto dai suoi pensieri distorti, a odio per se stesso, quando gli passavano davanti agli occhi le immagini di tutto ciò che aveva fatto a Nor.
Le loro due anime non erano mai state così distanti, se n’era reso conto all’improvviso quando aveva incrociato il suo sguardo gelido e astioso per il corridoio.
Quegli occhi gli avevano trapassato il petto come una lama e la sofferenza aveva iniziato a divorarlo prepotentemente dall’interno.

Entrava in casa e lo cercava.
Girava per gli androni e lo cercava.
Ma lui rimaneva chiuso nella sua camera, da solo, bussava, non gli apriva.
Se per miracolo lo trovava, la sua mano si bloccava a mezz’aria, fermata dalla quell’espressione che gli urlava di andarsene e di non provare a sfiorarlo, neanche con la punta delle dita.
Allora gli venivano in mente tutte le crepe che aveva provocato a ciò che i loro animi condividevano, diventate poi squarci, fino a che tutto si era diviso con violenza. Per colpa sua, ma faceva ancora fatica ad accettarlo.
Rivedeva come una pena infernale tutte le volte che Norvegia gli gridava di smetterla e lui non lo sentiva.
Nei momenti di lucidità si chiedeva perché non lo avesse mai ascoltato.
Il loro amore era nato mano nella mano e morto in un letto. Era impazzito ed era collassato su se stesso, distruggendosi.
Sterminato come uno dei nemici delle guerre. Lacerato, un pezzo di stoffa cencioso, fatto marcire per troppo tempo dalla follia di chi ora alterna la depressione a delle folli risate, insane, momenti in cui bisogna tenersi alla larga da lui, in ogni caso.
Era un’ossessione, Norvegia. Il suo Norvegia. Non avrebbe mai accettato di sentirlo tanto lontano, non ce l’avrebbe fatta, non poteva.
Soffocò un altro singhiozzo contro la spalla del bambino, trattenendosi dall’urlare per la rabbia e la disperazione.
Quello era il suo dolore, peggiore di quello di una qualsiasi ferita. Provando, patetico, a cercare la sua consolazione in un bambino che non sapeva, non capiva, non poteva scappare.
Un bambino che, forse, alla mente paranoica di Danimarca, appariva come Nor?




-Pabbi.- lo chiamò piano Islanda per l’ennesima volta, sentendo però la propria voce debole soccombere sotto i lamenti dolorosi dell’uomo che lo abbracciava da un tempo infinito, sicuro di non essere stato udito.
Lo vide nascondere il viso e trattenere il respiro, sentendosi stringere più forte la veste tra le sue dita grandi.
Aveva paura, perché stava crollando tutto prima che lui avesse potuto fare qualsiasi altra cosa, come per esempio chiedere cosa stesse succedendo o perché ora Berwlad e pabbi si guardavano con tanta rabbia, o ancora perché non si trovavano più tutti insieme per la cena e perché il fratellone non si faceva più vedere.


Vederlo ridotto così, il suo amato pabbi, e non capendo assolutamente niente di ciò che gli stava accadendo attorno gli lasciava un profondo senso di angoscia e smarrimento.


-Pabbi.- ripeté come una cantilena triste, immobile, in piedi, fissando malinconico il pavimento da sopra la spalla di Danimarca e non alzando neanche le braccia per avvolgerlo a sua volta.
Il suo punto di riferimento era lì a bagnarlo di lacrime, quando lui era convinto che i papà non piangessero, convinto che non potesse crollare in ginocchio così, convinto che sarebbe stato forte per sempre, che avrebbe continuato a farlo sentire protetto e a tenerlo al sicuro. Nemmeno le sue risate erano più le stesse.
Le sue sicurezze si erano sgretolate da cima a fondo, non ne era rimasta in piedi neanche una, neanche la più piccola certezza, il fato aveva calpestato anche le briciole fino all’ultimo granello, facendo diventare tutto polvere inutile che Islanda provava disperatamente a rimettere assieme, assordato dai gemiti di dolore di Danimarca alternati ai suoi sorrisi che ora lo spaventavano, dai suoi tremori e dalla sua tristezza che gli si stava insinuando sotto la pelle, presto sostituita da un’allegria innaturale, per poi ricomparire in crisi in cui, a volte, finiva anche col rompere qualcosa.


Non voleva crederci. Gli sembrava fosse tutto un incubo.
Sì, quando si sarebbe svegliato sarebbe corso da Dan e gli avrebbe raccontato tutto. Lui si sarebbe messo a ridere felicemente, dicendogli che era del tutto impossibile che accadesse qualcosa del genere.
Un brutto sogno. Solo un brutto sogno come altri.
Non poteva essere altrimenti, non poteva esistere veramente una tale sensazione di tormento costante tra di loro.
Erano una famiglia. Una famiglia non fa così.
Islanda se lo ripeteva costantemente, torturato da insolite fitte al petto.



Norvegia si premeva il cuscino contro le orecchie pur di soffocare quei rumori che lo facevano morire e al contempo lo irritavano come non mai.
I lamenti di Danimarca gli rosicchiavano la mente come un tarlo insistente, fastidiose lacrime di coccodrillo che non lo avrebbero lasciato dormire nemmeno quella notte.
Digrignò i denti, rigirandosi sul letto. Sul proprio letto. Cielo, neanche si ricordava di avere una camera tutta sua, in quella casa.
Strinse il cuscino tra le mani, serrando gli occhi.
Ripensò a tutte le volte che aveva provato a fargli capire i suoi sbagli e lui, cieco e pazzo, non gli aveva mai dato ragione. Non lo aveva mai ascoltato, non ne era stato in grado, mai si era fermato a guardare lo stato in cui aveva ridotto ogni cosa, che fosse materiale o meno.
Non era lui, quello che avrebbe dovuto piangere. Gli faceva una gran pena, immaginare le lacrime di Danimarca. Una scena quasi comica e incredibilmente patetica che galleggiava insistentemente tra i suoi pensieri.
Non era lui, quello che doveva star male in quel modo, anche se era solo una percezione eccessivamente distorta della realtà. Aveva ottenuto tutto ciò che voleva. Aveva ottenuto i suoi domini, le sue vittorie, le sue ricchezze. Aveva preso lui, la sua anima e il suo corpo per fin troppo tempo. Ora non aveva il diritto di stare male, non quanto è stato male lui.
Lui, che ha visto la persona che amava sbriciolarsi gradualmente a causa di uno squilibrio che giorno dopo giorno lo aveva divorato e l’aveva portato sempre più lontano da se stesso e da tutti gli altri.
Norvegia sapeva di aver pensato con fin troppa insistenza che tutto sarebbe andato naturalmente a posto.
Ma aveva rimuginato inutilmente ed aspettato invano. Era stato trattato come un cane e non poteva giustificarlo con una malattia.
Impossibile e terribilmente stupido, ragionare in quel modo.
Non l’avrebbe più fatto, mai più, non si sarebbe lasciato scivolare tra le speranze.


Qualcuno bussò alla sua porta, facendo rizzare a sedere Norvegia.
Rimase immobile per un tempo infinito, per poi scivolare giù dal letto, fermandosi davanti alla porta e appoggiando piano la mano sul legno.
Si accigliò un poco, incerto se aprire o no.
Gli sembrava quasi un lusso, poter prendere decisioni su cosa fare.
Girò lentamente la maniglia, osservando l’esterno da uno spiraglio.
-...Berwald?- sussurrò quasi sollevato prima di aprire completamente la porta.
Il sollievo svanì vedendo la sua espressione mentre entrava nella camera e iniziava a raccattare cose.
-Prendi quello che riesci, andiamo via.-
Rimase spiazzato, indietreggiando di qualche passo ed afferrando al volo la spada ben riposta dentro il fodero che gli lanciò l’uomo.
-Che cosa... Non è una decisione affrettata?- chiese spaesato, mentre Berwald lo avvolgeva in un mantello pesante.
-Lo programmavo già da tempo, forse avremmo dovuto muoverci prima. Tino ci sta aspettando giù. - rispose con tono calmo, prendendogli il polso nel modo più dolce che Norvegia avesse mai sentito mentre veniva portato fuori dalla stanza.
-Perché non me l’hai mai detto...?- domandò scettico mentre camminavano a passo veloce e leggero per i corridoi.
-Lo sai, pensi troppo alle cose. Alla fine non saresti venuto.-
Scesero le scale senza accorgersene, Norvegia non era ancora abituato ad affrettarsi tanto e aveva il fiatone, ritrovandosi infine costretto a correre quando l’ampia stanza dell’entrata apparve in lontananza ed oltrepassando portone di legno come se stessero varcando la soglia del paradiso. O dell’inferno.


-Berwald...!- ansimò improvvisamente bloccandosi e scuotendo la testa, facendo fermare Svezia e Finlandia quando già erano a metà della scalinata.
Lo svedese si girò verso di lui, fin troppo lentamente, fissandolo a lungo prima di allungare lentamente la mano.
-...Vieni.- sussurrò con filo di voce, facendogli un cenno con la testa e tendendo di più il braccio, provando a sorridergli rassicurante. – Staremo bene. È la cosa migliore da fare.-

“...Nor, non lasciare mai la mia mano.”

-Non possiamo.- Norvegia faceva fatica a prendere il respiro, spostando gli occhi dalla mano all’espressione determinata di Berwald. –Io non... Non posso.-
-Sì che puoi. Devi. Vieni, Norge.- ripetè, deciso ma dolce, prima di risalire i pochi gradini che li separavano e avvolgerlo tra le braccia.
-Andiamo via, Norge.- gli sussurrò all’orecchio, appoggiando il mento tra i suoi capelli.


Norvegia si sentì improvvisamente soffocare, e certamente non solo per il mantello pesante dell’uomo sul quale sfregava il suo viso.
Teneva gli occhi sgranati. Stava accadendo tutto troppo, troppo in fretta. La sua mente lavorava troppo velocemente, elaborava troppe possibilità contemporaneamente e questo gli stava causando non pochi problemi. Aveva ragione, Berwald, quando diceva che lui pensava decisamente troppo a fare le cose.
Effettivamente, se gliel’avesse detto mesi prima, avrebbe finito col farsi venire i bruciori di stomaco a furia di rimuginare e rimuginare sempre sulle stesse cose.

Sentì una vocina ridacchiargli malvagiamente in testa. Non ci sarebbe motivo di restare, diceva con insistenza.
Lui non voleva prendere decisioni affrettate, per nulla ponderate o in modo superficiale, non era da lui, ma d’altro canto non poteva certo dire che andare via sarebbe stata una cosa totalmente sbagliata.

Premette le mani sul petto di Svezia, allontanandolo un poco per guardarlo negli occhi.
-...Scappare non è la soluzione.- sibilò, fissandolo con insistenza.
-Norge, abbiamo tentato tutto. L’unica cosa che ci è rimasta da fare è andare via... Andare via non è scappare. Chi ha paura, scappa. Noi non abbiamo paura, lo sai anche tu, siamo soltanto stanchi. Anche tu lo sei, Norge. Andiamo solo a fare una vita migliore.-
-Cosa ti fa pensare che sarà migliore?- mugolò Norvegia malinconico, facendo scivolare lentamente le mani lontane dal suo petto.
Svezia sembrava addolorato, mentre provava a non far fuggire le sue dita, tenendole debolmente intrecciate con le proprie. -...Cosa ti fa pensare che qui starai di nuovo bene?-
Norvegia si stupiva del modo in cui l’uomo riusciva ogni volta a rigirare le domande e zittirlo, lasciandolo ad formulare risposte tra le più improbabili.
-...Il passato, Norge?- continuò Svezia con tono profondo e quasi graffiante –Pensi davvero che torneremo una famiglia come lo eravamo tempo fa? Hai visto cosa ci ha fatto.-
-Non puoi dare la colpa alla sua malattia.- lo interruppe Nor senza pensarci, ritrovandosi incredibilmente incoerente con i propri pensieri e rimanendo a bocca aperta, bloccato a fissare gli occhi chiari e fermi dell’uomo.
-Non è una malattia. È cambiato. Non puoi attendere una guarigione che, quasi sicuramente, non avverrà mai.- rispose fermamente, girandosi nuovamente e tornando a scendere le scale.
-Noi potremmo...- azzardò incerto, allungando le mani verso di lui e scendendo qualche gradino per stargli dietro.
-Ci abbiamo provato. Non è servito.- continuò, tranquillamente ma amareggiato, mentre passava sugli ultimi gradini e già fissava l’erba vicina e gli alberi fitti.
Norvegia si arrestò bruscamente sull’ultimo gradino e lo bloccò per una spalla, girandolo verso di sé.
- È nostro fratello!- gridò quasi, al limite dello sconvolto. –...Non puoi abbandonarlo.-
-Anche io gli voglio bene, Norge. E voglio bene anche a te. Per questo voglio che tu venga con noi, perché staremo bene assieme.-

“...Però potremmo vivere lì per sempre.”

-Io resto.-
Berwald sostenne il suo sguardo per un tempo interminabile, forse un ultimo disperato tentativo di convincerlo, prima di sospirare rassegnato –non avrebbe mai forzato nessuno- e fare due passi veloci verso di lui, incontrandosi in un abbraccio desiderato da entrambi.
Si strinsero forte, un saluto che non volevano fosse un addio, ma che inevitabilmente lo sembrava fin troppo.
Norvegia non avrebbe mai voluto staccarsi, mai avrebbe voluto salutare anche Tino in modo tanto malinconico, avrebbe desiderato risparmiarsi il vuoto che riempì malvagiamente il suo petto vedendoli sparire a mano a mano tra gli alberi.

Strinse i pugni quando si decise finalmente a muoversi, girando su se stesso e risalendo, scalino dopo scalino, ognuno come se fosse una pugnalata al petto, fino ad aprire faticosamente il pesante portone e richiuderlo con un forte frastuono che rimbombò in tutta la casa. Mostruosamente vuota ed enorme. Appoggiò la schiena al legno, rimanendo a fissare il vuoto ed ascoltando le voci che nella sua testa si moltiplicavano, si intrecciavano, piangevano per la tristezza, urlavano rabbiose, le più cattive gli ripetevano con insistenza che Svezia se n’era andato e l’aveva lasciato da solo, non ci sarebbe più stato. Rivide tutto come un sogno, come se fosse stato qualcosa di vissuto da un’altra persona e gli nacque in petto il forte impulso di tornare indietro e non lasciarlo andar via, di correre dietro a lui e trovare un metodo per convincerlo a restare. Magari dirgli che insieme, tutti insieme, avrebbero potuto andare avanti. O magari avrebbe dovuto salutarlo in un modo migliore. Un solo abbraccio gli sembrò davvero troppo poco per tutto quello che gli avrebbe dovuto dire. Centinaia di grazie di tutto, di non dimenticarci, non metterti nei guai, fratello, ti voglio bene.

-Norge.-

Alzò la testa, ritrovandosi con gli occhi lucidi a guardare Danimarca, apparso nel fondo del corridoio, che camminava preoccupato verso di lui.

-Norge. Il portone...?- balbettò quasi, rallentando il passo quando fu a pochi metri da lui e guardandolo con quei dannati occhi fin troppo blu, con l’espressione di un cane bastonato. Un cane che non ci sta con la testa.

-Sono andati.- tagliò corto, stupendosi che la voce gli tremasse tanto e evitando di fissare il suo viso.
-...Andati?- ripetè Dan, provando a cogliere il senso di quelle parole e, veramente, non capendolo. -...Dove?-
Parlava con tono quasi intimorito, sembrava docile, sembrava un bambino, con quel sorriso distratto stampato sul viso come se qualcuno si fosse messo lì con martello e scalpello ad inciderlo.
-Via.- sibilò acido, irritato e sentendosi cadere a pezzi.
-Via?- L’espressione del danese si sgretolò a poco a poco, sostituito dall’avanzare di una maschera ombrosa mentre azzerava i metri che li separavano.
–Sono... Scappati?-
Norvegia annuì lentamente, sentendo una spiacevole sensazione di dolore nell’affermarlo per l’ennesima volta.


-...Tu...- sussurrò pungente dopo poco, corrucciando la fronte per qualche attimo, per poi tornare a sorridere tirato, posandogli timoroso le mani sulle braccia. -...Tu sei rimasto con me...?-
Norvegia sostenne lo sguardo, imponendosi di non sbattere ciglio ma non risparmiandosi certo di guardarlo in tralice.
Sì, l’aveva fatto, e una fitta insopportabile gli stava stringendo il petto in una morsa.
-Non posso lasciare un pazzo in balìa di se stesso.-

-Norge...- Danimarca sorrise ancora e lo guardò, come per prendere il coraggio di compiere una qualche azione.
Scoppiò quasi a ridere quando lo abbracciò di slancio, stringendolo forte contro il suo petto.
-... Perdonami. Per tutto quello che ti...-

Non riuscì a finire la frase.
Norvegia si era allontanato all’istante e gli puntava la spada alla gola, guardandolo tanto serio da sembrare minaccioso.
-Come puoi...- sussurrò indignato, indagando sconvolto tra i suoi occhi sconcertati che lo scrutavano a sua volta. -...Chiedermi scusa?-
Non era riuscito a trattenersi, era semplicemente crollato quello stupido muro pericolante che divideva costantemente i pensieri dalle azioni. Forse anche lui stava impazzendo, pensò mentre riprendeva fiato e premeva la punta affilata sulla sua guancia. Aveva parlato con voce roca e sprezzante, un’ombra negli occhi che Danimarca non aveva mai visto e che lo lasciò con le labbra dischiuse dalla sorpresa.
-Mi mancava un po’, il rumore della spada sguainata.- ridacchiò dopo pochi secondi il danese, girando ed indietreggiando fino a sbattere le spalle contro il portone e scivolando giù, fino a sedersi per terra. -...Quanto era bello allenarsi assieme?-
Norvegia era rimasto congelato, mentre nella sua testa esplodevano i ricordi e le grida, imprecazioni, voci che supplicavano Dan di stare zitto e chiedevano ai polmoni di prendere aria.
Sgranò gli occhi quando vide l’uomo stringere la lama tra le mani, spostandola di lato ed ignorando il fatto di starsi tagliando.
Quasi gli era parso di sentire il rumore del ferro che affonda nella carne e Norvegia neanche si rese conto di essersi ritratto con un gesto istintivo, lasciando andare la spada e sentendola cadere per terra con un rumore freddo.
Come poteva, Danimarca, essere tanto sconsiderato da non rendersi conto del dolore?

-Con te non mi fa paura niente, Nor.- gli sussurrò flebile, strisciando verso di lui e cingendogli le ginocchia, strusciandovi il viso come un animale e lasciando che il sangue gocciolasse per terra.
Norvegia crollò letteralmente, cadendo miseramente in ginocchio e lasciandosi stringere dalle mani insanguinate di chi ora singhiozzava con la testa sulle sue gambe.
Scosse piano il capo, passandogli le dita tra i capelli disordinati e sulla schiena che sussultava irregolarmente.
Non avrebbe potuto abbandonarlo, si ritrovò ad ammettere a se stesso, nonostante fosse tanto doloroso, non dimenticandosi certo tutto ciò che era successo.

Distinse tra i lamenti dei passi leggeri e incerti avvicinarsi.
Alzò la testa e vide Islanda, in piedi a poca distanza da loro, con la testa bassa, probabilmente osservando sangue che a poco a poco sporcava ogni cosa.
Norvegia cercò qualcosa da dire, ma nulla gli venne in mente se non centinaia di scuse per ciò che lui, bambino senza colpe, stava passando.
Era ingiusto, lui era innocente, lui non si era macchiato di niente.
Non riuscì ad aprir bocca.


Islanda alzò la testa su di lui.

Vide nei suoi occhi opachi che l’ingenuità non c’era più.


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Angolo autrice.
Ed eccoci anche con la terza storia della saga! (saga!?)
Spero davvero che sia stata all’altezza delle vostre aspettative, io mi sono impegnata tanto e il mio cuoricino è tanto ammaccato. ç*ç <3
Mi sono trovata a fare qualche parallelismo heartbreaker con Redd, prendendone alcune frasi.
Insomma, se avete letto anche quella, in qualche modo il tutto fa più male di quanto già non faccia...
Un bacione a tutte voi, sia alle mie lettrici-stalker che all
e lettrici che sono capitate qui casualmente. :3



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