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Autore: margheritanikolaevna    19/06/2012    12 recensioni
"È già passato un po’ di tempo da allora e la mia vita non è cambiata poi molto; tuttavia, la speranza che nacque quel pomeriggio a Central Park ancora non mi abbandona. Se anche dovesse essere stato solo un sogno, non ho comunque dubbi: resterà nel profondo della mia memoria, sotto la marea dei sogni, come il più bello di essi".
Prima classificata al contest "La tua one-shot" indetto da Skyler@EFP ma giudicato da Luna Ginny Jackson
Il contest imponeva l'uso di un pacchetto contenente queste costrizioni: cono gelato, in un parco di pomeriggio, fluff.
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mac Taylor
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Questa fic si colloca nel corso dell’episodio, ancora inedito in Italia, dal titolo “Indelible” (8x1) e dedicato appunto al decimo anniversario dell’11 settembre; ho immaginato che quella giornata così triste per Mac Taylor, che nel terribile attentato perse l'amatissima moglie, abbia avuto una virata inattesa e che un evento forse inspiegabile (o forse spiegabilissimo) sia riuscito a infondergli nuova speranza nel futuro. Come sempre, grazie a chi avrà la gentilezza di leggere e lasciare un suo commento.
 
11 settembre 2011
 
Il fatto accadde un torrido pomeriggio di settembre di alcuni anni fa, dell’anno 2011 per la precisione. 11 settembre: è una data che non potrei dimenticare nemmeno se vivessi per sempre.
Quel pomeriggio erano passati esattamente dieci anni; dieci anni da quando il mio paese, la mia città e la mia vita furono spezzati. Dieci anni senza di te, Claire.
Non ne ho mai parlato con nessuno, perché sinceramente non so nemmeno se sia accaduto davvero o se sia stato solo il frutto della mia inquieta immaginazione; non dormii per giorni, dopo, e credo di avere anche cercato di dimenticarlo per non impazzire, ma la speranza e la curiosità hanno reso impossibile ogni tentativo del genere.
Avvenne dopo che si era conclusa la cerimonia di commemorazione innanzi al Brooklyn Wall of Remembrance (1): mi avevano chiesto di dire due parole e io, sebbene non amassi per niente questo genere di cose, non me l’ero sentita di tirarmi indietro. Forse era stato un bene farlo, alla fine, perché condividere il dolore con tanti che avevano sofferto come me mi aveva in qualche modo recato sollievo. Perché le lacrime avevano finalmente rotto gli argini e abbracciando chi piangeva la perdita di un figlio, di un amico o di una madre, mescolando i miei sospiri ai loro, era colata via da me, insieme al pianto, anche una parte dello strazio.
La vita è più forte di tutto: i morti che ci sono cari lasciano dietro di sé un’immagine gentile, ma è solo un’immagine lontana, che mentre la guardi impallidisce fin quasi a scomparire. Quasi perché io non ti dimenticherò mai, Claire, non ci riuscirei neppure se ci provassi con tutte le mie forze; non potrò scordare la nostra vita e la felicità che abbiamo avuto insieme  perché sono parte di me, come lo sei tu.
Eppure era giunto il momento di prendere congedo da te.
Il passo successivo era stato trovare il coraggio di andare sulla spiaggia, a Coney Island, e consegnare al mare una delle pochissime cose che ancora mi legavano a te: ricordi quei biglietti per l’opera che ti avevano resa tanto felice quando te li mostrai, proprio l’ultima mattina che il Signore mandò per te sulla Terra? Li avevo conservati per tutti questi anni come un tesoro, come una reliquia, convinto che se li avessi perduti avrei perduto davvero anche te, del tutto. Invece oggi, guardandoli scomparire tra le onde, una malinconica dolcezza mi ha riempito il cuore fino quasi a farlo traboccare: non ho resistito ad associare l’immagine dell’acqua che scorre, del suo movimento senza riposo, a quella del tempo che fluisce senza che nessuno di noi, per quanto possa sforzarsi, riesca a fermarlo. Anche tu l’avresti voluto, ne sono sicuro: per me era necessario voltare pagina, provare a ricominciare.
Il fatto avvenne, insomma, proprio mentre - una volta detto addio a mia moglie, all’amore della mia vita - mi sentivo completamente indifeso e solo, senza un passato al quale aggrapparmi e senza un futuro da dominare. Solo come può essere un uomo che, negli anni, non ha voluto (saputo?) cogliere le occasioni che gli si presentavano, non ha combattuto per riprendersi ciò che gli apparteneva e non è riuscito a far crescere un altro amore ugualmente grande nel proprio cuore.
Ciò che accadde fu strano anche per il luogo in cui successe: non amo particolarmente Central Park o almeno non mi piacciono i vialetti affollati di turisti in canottiera, podisti sudati sull’orlo dell’enfisema polmonare, bambini esagitati che corrono avanti e indietro in bicicletta e coppiette che si scambiano effusioni senza ritegno. Mi disturbano la folla, la confusione, il caldo e il disordine.
Eppure quell’afoso pomeriggio di settembre, diversamente dal solito, non feci ritorno in ufficio e i piedi chissà perché mi guidarono - quasi animati da una propria ineffabile vita - esattamente fino a lì; senza sapere bene come e per quale motivo, spinto da un impulso al quale non sarei riuscito a dare un nome, mi inoltrai nel parco raggiungendo una zona dove non ero mai stato.
Cosa mi condusse lì? Fu reale o fu solamente un sogno? E, in questo caso, chi sognò chi? 
Shakespeare Garden: un romantico e pittoresco angolo, coltivato con le piante e i fiori menzionati nei poemi, nei racconti e nelle commedie del Grande Bardo. Un posto tranquillo, quasi isolato, lontano dalle zone più frequentate tanto che io - pur abitando a New York da anni - non mi ci ero mai spinto prima di quel momento.
Percorrendo in silenzio i vialetti cosparsi di ghiaia chiara, pensavo che difficilmente avrei potuto immaginare un luogo più diverso da quelli dove si svolgeva di solito la mia vita. Fuori, a poche centinaia di metri in linea d’aria, la metropoli tentacolare, il traffico assordante, il vociare frettoloso e lo smog; qui invece tutto era calmo, assolato e silenzioso.
L’aria tiepida era satura di profumi: rosmarino, che Ofelia porge al fratello “per il ricordo”, lavanda e menta direttamente da “Racconto d’inverno”, tanto intensi che quasi i miei sensi ne rimanevano confusi. Il brusio sommesso delle mosche, il frinire delle cicale: l’indolente ronzio del meriggio.
Una macchia fiammeggiante di papaveri vellutati - che, insieme alla mandragora, non sarebbero riusciti a restituire il dolce balsamo del sonno al geloso Otello - occhieggiava tra le siepi; accanto, le viole screziate di giallo che nell’“Amleto” Ofelia offre al fratello “per i pensieri”.
Il posto era deserto; solo, all’ombra di una magnifica magnolia in fiore, sostava pigramente il carrettino di un venditore ambulante di gelati.
Il fatto fu strano in sé, per il luogo dove accadde e per le circostanze che lo accompagnarono: premetto che in generale non mi piacciono i dolci e che, in particolare, i gelati non suscitano in me alcun goloso desiderio. Sono un ricordo legato all’infanzia, li associo a un periodo della mia vita ormai passato per sempre.
Nonostante ciò e ancora una volta senza comprendere bene come e perché, mi avvicinai al carretto e udii la mia voce che, oltrepassando le solide barriere che rendevano di solito la mia anima una cittadella inespugnabile, chiedeva un gelato. Dio Santo, un cono gelato! E i gusti, poi… Se qualcuno della mia squadra lo avesse saputo avrei finito di stare tranquillo per un bel pezzo! Mi avrebbero preso in giro senza pietà…
Tra tutti i gusti dell’universo perché proprio cioccolato e limone? L’accostamento più folle e stravagante di tutti, quello che solo un bambino avrebbe il coraggio di scegliere! Infatti, l’ultima volta che avevo preso un cono gelato - avrò avuto una decina d’anni - era stato proprio ai gusti cioccolato e limone. Un abbinamento talmente singolare che il gelataio mi guardò come se fossi un alieno; poi, mentre mi serviva, sollevò di nuovo gli occhi su di me e mi fissò apertamente, in maniera quasi sfrontata. Atteggiai il viso a una smorfia di perplessità per quello strano comportamento.
L’uomo seguitò a guardarmi pensoso fino a quando non mi chiese, allungandomi il cono, se per caso non fossi già passato di lì poco prima per comprare un altro gelato, identico a quello che avevo ordinato in quel momento. Non mi sembrò necessario rispondergli tanto peregrina era stata la domanda; scossi la testa, pagai e mi allontanai senza voltarmi.
Assaporare il gusto acidulo del limone mischiato con il sapore dolce della cioccolata avrebbe potuto essere per me ciò che per Proust fu la celebre madeleine; quasi quasi avrei desiderato tornare per un momento con la memoria a un’epoca lieta della mia vita. Perché ero stato un bambino felice: non ricco, non particolarmente popolare, ma senza dubbio amato e felice. Invece, niente Proust e niente effetto madeleine: evidentemente ciò che basta per un grande scrittore non è affatto sufficiente per un uomo di scienza abituato a celare dietro una solida corazza i recessi più nascosti del proprio cuore, evitando così che l’orrore e le miserie con cui quotidianamente ha a che fare li contaminino.
Vagavo senza una meta precisa, come stordito oppure in cerca di qualcosa di cui non avevo un’idea chiara; i passi mi condussero fino a una panchina immersa nell’ombra quieta di uno splendido ciliegio, che offrì ai miei occhi incantati la bianca corteccia screziata e la folta chioma lucente di foglie di un verde intenso, carica di miriadi di vermigli piccoli frutti del desiderio. Mi sedetti e, chinatomi in avanti verso la scritta impressa sulla targa di bronzo accanto al tronco, vi lessi:
Siamo cresciuti, tu ed io simili a due ciliegie, nate in coppia, che sembrano divise, ma nella divisione sono unite”(2).
Non un suono, a parte il frinire delle cicale e lo spirare di una timidissima brezza tra le fronde; a un tratto mi accorsi che all’estremità opposta della panchina era già seduta un’altra persona. Non l’avevo notata subito, altrimenti forse non mi sarei fermato lì, dato che non mi trovavo nella disposizione d’animo migliore per conversare con un estraneo.
L’uomo, che studiai con la coda dell’occhio, diede l’ultimo morso al cono gelato che stava mangiando, si asciugò la bocca con un tovagliolino di carta e oziosamente cominciò a canticchiare a mezza voce:
“From the Halls of Montezuma,
To the shores of Tripoli;
We fight our country's battles
In the air, on land, and sea…” (3)
Quelle parole, quella melodia non avevano nulla a che fare col posto dove ci trovavamo, eppure per me erano familiari e care oltre ogni dire: in una frazione di secondo mi riportarono a uno spiazzo polveroso, inondato dal sole, alle risa dei compagni, agli ordini urlati, all’odore del sudore mescolato a quello acre della polvere da sparo, alla fatica ma anche alla frescura goduta nell’ombra profumata di un albero di cedro. Udirle e riconoscere la voce che cantava - meglio, che tentava di cantare, dato che non sono mai stato molto intonato - fu tutt’uno e subito mi alzai di scatto.  Gettai ciò che rimaneva del gelato nel cestino accanto alla panchina e mi avvicinai allo sconosciuto.
“Lei è stato un marine?” domandai, esitante.
“Maggiore dei marines in congedo Mckenna Llewellyn Taylor (4), al tuo servizio!” replicò quello con fare allegro, strizzandomi l’occhio.
“Se è uno scherzo, è veramente stupido…” tentai di ribattere, sempre più confuso. Però era vero: ci assomigliavamo in una maniera impressionante, sebbene lui fosse molto più vecchio e avesse i capelli tutti grigi. Ma come poteva essere? Era un sogno? Oppure un’allucinazione?
“Sono io” fece l’altro, bonario “Siamo noi e posso dimostrartelo. Ascolta: nostro padre ci portava in giro per tutto il quartiere, la mattina di Capodanno, per vedere se riuscivamo a trovare un albero di Natale più alto e bello del nostro (5)… la ragazza di cui ci siamo innamorati in Libano (6) si chiamava Noura; abbiamo capito che volevamo sposare Claire una sera che diluviava, mentre già fradici ci stringevamo sotto il suo ombrello troppo piccolo per riparare tutti e due … Hai bisogno che continui?”.
Feci segno di no: il fatto era evidente, impossibile eppure evidente.
“Ho compiuto settantacinque anni e adesso i ricordi sono il mio mondo” disse la mia stessa voce, solo un po’ arrochita dal tempo “Ma, in fin dei conti, non accade forse a ogni uomo di incontrare se stesso nella propria memoria? Sta succedendo anche qui, solo che siamo in due; non vuoi sapere qualcosa del mio passato, che è il futuro che ti attende?”.
Non risposi, ma quello continuò lo stesso; capii che non potevo discutere con lui, dato che ero destinato inevitabilmente a diventare lui.
“Te ne stai lì tutto solo, disertato dalla vita, come il primo uomo avanti che la Terra fosse popolata dai suoi simili… come l’ultimo uomo sulla Terra prima che essa sprofondi nell’abisso! In questo momento pensi che senza Claire non riuscirai mai più a essere felice, che hai perso tutte le occasioni che la vita ti ha messo davanti, che nel tuo cuore non c’è abbastanza spazio per poter ospitare un nuovo amore altrettanto grande, non è così?”. 
Annuii: nonostante lo stile enfatico che non mi apparteneva (evidentemente, trent’anni non passano invano!), lui mi conosceva dal profondo e, del resto, come avrebbe potuto essere altrimenti?
Un tenue sorriso illuminò il suo volto invecchiato; sentii che quel sorriso rifletteva in qualche modo il mio sorriso.
“Ti sbagli, invece” proseguì “conoscerai ancora una volta la gioia, la passione e la serenità. Anzi, avrai infinitamente più di quanto tu abbia mai  sognato: guarda davanti a te!”.
Fece un gesto con la mano destra, come chi rimuove una patina di polvere dalla superficie di uno specchio e sotto il suo tocco l’aria, il colore e la luce si distorsero, si piegarono contorcendosi, mentre davanti ai nostri occhi nella realtà - nel qui e nell’ora - si apriva un piccolo squarcio guizzante. Era come un dipinto antico: mentre i margini rimanevano sfocati e confusi, il centro si offriva perfettamente intellegibile. Scorsi una stanza che non riconobbi, un divano ricoperto di tessuto giallo e un tappeto colorato; udii d’improvviso risa argentine e un gridolino di entusiasmo mezzo soffocato. Vidi che avanzava a quattro zampe sul tappeto, con passo malfermo, una singolare cavalcatura montata da due scatenate amazzoni in calzoncini corti.
“Papà, non fermarti!” strillò una biondina dall’aria assai determinata, aggrappandosi forte mentre la sorellina - una bambola di circa tre anni, con una selva di ricci nerissimi e il musetto furbo - perse l’equilibrio e rotolò per terra, ridendo come una pazza. “Oh Claire … ” miagolò “non vale, mi hai fatto cadere!”.
“Bambine, basta!” disse un’allegra voce femminile che mi suonò familiare, ma che tuttavia non riuscii a riconoscere “Questa è una delle poche serate che vostro padre passa qui a casa e voi finirete col massacrarlo!”. Poi, senza che io riuscissi a vederla in viso, si chinò verso la cavalcatura leggermente affannata e le schioccò un sonoro bacio sulla guancia. “Mac, sono così contenta che tu stasera non sia dovuto tornare in ufficio come al solito!” esclamò dolcemente.
Ero troppo meravigliato per riuscire a parlare, a stento il fiato mi bastava per continuare a respirare; avrei voluto continuare a sbirciare il mio futuro, Dio quanto l’avrei desiderato!
E invece tutto scomparve in un solo istante: fu come quando si spegne d’improvviso la luce e tutte le cose che fino a un attimo prima apparivano solide davanti ai tuoi occhi è come se svanissero ingoiate dal buio, quasi non fossero mai esistite. Allo stesso modo lo squarcio si richiuse senza che io potessi fare nulla per impedirlo; la luce, il colore, il suono, tutto tornò al suo posto. Il tempo e lo spazio ripresero il loro corso ordinario. Mi volsi disperato verso l’uomo al mio fianco e mi accorsi di essere solo sulla panchina. Intorno non un’anima viva; nessuna presenza, nemmeno l’eco di una voce, soltanto luce abbacinante e il quieto frinire delle cicale.
Non riuscii a muovermi subito. Stordito e incerto, quasi paralizzato, non mi restava che interrogarmi su ciò che era appena accaduto: chi aveva sognato chi? Era stato un sogno a occhi aperti, un’allucinazione o qualcosa di più inspiegabile?
Abitualmente avrei attribuito questo strano episodio alla stanchezza, al caldo, al terremoto emotivo che aveva prodotto in me l’essere stato riportato con tanta forza alle sensazioni che avevo provato dieci anni prima; insomma, non vi avrei dato particolare peso e mi sarei affannato a trovare una spiegazione logica per l’accaduto. Ma in quel momento non ne fui capace: era stato tutto così vivido… breve, così breve da farmi dubitare che fosse davvero successo, eppure dannatamente reale. 
La mia sorte sarebbe veramente stata quella? Avevo gettato uno sguardo fugace sul mio futuro, oppure era stata solo una proiezione dei miei desideri? E lei, lei chi era?
Forse quando accadrà - se accadrà - avrò già dimenticato completamente questo curioso dialogo profetico, oppure magari lo sognerò ancora e allora, nel sogno, io sarò diventato lui.
Scossi la testa lentamente, mentre il dubbio si scioglieva nella dolcezza: sogno o desiderio o profezia, quell’immagine mi aveva allargato il cuore regalandomi una nuova, lucente promessa di felicità. Per la prima volta dopo tanti anni il cammino che avevo davanti non mi appariva un sentiero solitario perduto in mezzo a una valle desolata.
È già passato un po’ di tempo da allora e la mia vita non è cambiata poi molto; tuttavia, la speranza che nacque quel pomeriggio a Central Park ancora non mi abbandona. Se anche dovesse essere stato solo un sogno, non ho comunque dubbi: resterà nel profondo della mia memoria, sotto la marea dei sogni, come il più bello di essi.
FINE
 
 
Note:
Il Brooklyn Wall of  Remembrance è situato nel MCU (ex KeySpan) Park ed è stato eretto per rendere omaggio a coloro che hanno compiuto l'estremo sacrificio durante l’attentato dell'11 settembre 2001. Composto da tre pareti di granito di 30 x 12 piedi, il memoriale di Coney Island contiene le immagini, incise al laser, di 346 vigili del fuoco, 37 ufficiali della Capitaneria di Porto, 23 ufficiali della polizia di NYC, 3 ufficiali della Nys, dei primi soccorritori e di un cane poliziotto di nome Sirius. Sulla parete di pietra i loro ritratti formano un potente, indimenticabile testamento, eloquentemente parlato, che ci ricorda come ci siano state delle persone reali dietro i nomi e i numeri dell'11 settembre.
 
 
  1. Il verso è tratto da “Sogno di una notte di mezza estate”.
  2. Si tratta dell’inno del corpo dei marines degli Stati Uniti, il cui testo completo è questo:
From the Halls of Montezuma,
To the shores of Tripoli;
We fight our country's battles
In the air, on land, and sea;
First to fight for right and freedom
And to keep our honor clean;
We are proud to claim the title
Of United States Marine.
Our flag's unfurled to every breeze
From dawn to setting sun;
We have fought in every clime and place
Where we could take a gun;
In the snow of far-off Northern lands
And in sunny tropic scenes;
You will find us always on the job
The United States Marines.
Here's health to you and to our Corps
Which we are proud to serve;
In many a strife we've fought for life
And never lost our nerve;
If the Army and the Navy
Ever look on Heaven’s scenes;
They will find the streets are guarded
By United States Marines.”
Questa invece ne è la traduzione:
 
Dai saloni di Montezuma
Alle spiagge di Tripoli
Combattiam le patrie guerre
In terra, mare e ciel
All'agon del giusto e libero
Per tener netto l'onor
Fieri siam di vantar titolo
Di United States Marines
Ad ogni vento qual bandiera
Dall'alba a quando cala il sol
Combattemmo in ogni clima e suol
Dove armi potem tener
Nelle nivee terre al Polo Nord
Come al tropico avvampar
Sempre troverai al lor compito
Gli United States Marines
Salve a te ed al nostro Corpo
Che ci onoriam servir
Arrischiammo ognor la vita
E giammai il cor tremò
Se Esercito o Marina
Guardassero affreschi del paradiso
Troveranno le strade vigilate
Dagli United States Marines
 
 
  1. Si tratta del nome completo del personaggio che nella serie viene di norma chiamato soltanto “Mac”.
  2. Il riferimento è alla puntata “Due anni in più” della quinta stagione di CSI NY, in cui Mac racconta del padre che sfidava i vicini di casa a chi trovava l’albero di Natale più alto e imponente.
  3. Il riferimento, come quello precedente agli ordini, al sudore, etc… è all’esperienza del giovane marine Mac Taylor in Libano all’inizio degli anni ottanta, di cui ogni tanto ci viene raccontato qualcosa nelle puntate della serie. 
Liberamente ispirato al racconto "25 agosto 1983" di Jorge Luis Borges: o sommo, ovunque tu sia adesso, non odiarmi.
  
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