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Autore: Glenda    20/06/2012    2 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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II

 

 

Ora passa e declina

in quest'autunno che incede con lentezza indicibile

il miglior tempo

della nostra vita

e lungamente ci dice addio.

 

(V. Cardarelli)

 

 

 

Cominciai a partecipare alle riunioni del "Cambio Rotta" in principio come spettatore passivo. Spesso doveva essere Filippo a sollecitare il mio intervento, con una domanda ormai diventata canonica: "Loira: pareri in proposito?". Quanto era formale! Tutto era così meccanico che ogni sera avrei potuto prevedere come sarebbero andate le cose fin nei minimi particolari, eppure, tutte le volte, quelle sedute erano una provocazione e una sfida, e bisognava stare tesi, preparati.

Camilla si aspettava che, da un momento all'altro, saltasse fuori la questione dell'affitto, e mi incoraggiava vivacemente a sollevare il discorso, ma io speravo che l'iniziativa venisse da lui, e non osavo rischiare di distruggere per mia colpa la silenziosa intesa che si era creata tra noi. Così feci scadere le fatidiche due settimane senza aver fatto niente per sistemare la situazione, e quando, la sera stessa, Filippo non vi fece accenno, rimasi, a dire il vero, molto turbato.

Il coraggio uno "non se lo può dare", ma a volte le circostanze ci costringono a farcelo venire, ed io andai in redazione il mattino dopo, con tutto il mio discorso pronto nella testa, preparato in partenza ad una discussione niente affatto più piacevole della prima. Invece - Che ci fai quassù a quest'ora? - mi accolse, piazzandomi in mano una copia della rivista tirata di fresco - Non vai all'università? -

Solo allora ricordai che era il giorno dell'uscita del nuovo numero

- Veramente - dissi - Venivo per altro... -

Mi imbarazzava un po' il dover parlare davanti agli altri membri dello staff, e c'era, purtroppo, molta confusione, gente che andava e veniva, nel corridoio largo...

- Dimmi, dimmi pure - fece lui, ma non mi lasciò il tempo neppure di cominciare, attaccando invece a dissertare a ritmo serrato, ora con me, ora con chi gli passasse accanto, dei pregi e difetti del fascicoletto che mi aveva appena elargito, e che in quel momento non era proprio - ohimè! - al centro dei miei interessi.

Gli ci volle qualche minuto perché la correttezza prendesse il posto dell'eccitazione, e finalmente mi permise di esordire con la mia frasina formale, condita dai soliti preliminari di cortesia

- Scusami - dissi - lo so che non è il momento, ma volevo parlarti di quella questione dell'affitto... -

Filippo fu un attimo smarrito, come se non ricordasse

- L'affitto... - mormorò, tra sé, stropicciandosi, pensoso, la fronte con due dita - Già, l'affitto. Ci sono problemi? -

Io rimasi, come al solito, esterrefatto

- No - presi coraggio - Cioè, SI! Insomma: io, da ieri, non avrei più dovuto neanche esserci, nel tuo appartamento! -

Lui si fece improvvisamente serio: mi fissò con due occhi inquisitori, e dopo, - credo - essersi divertito un po' col mio imbarazzo, scoppiò in una risata colossale:

- Stai scherzando! - esclamò - Ora, secondo te, potrei cacciare di casa il mio solo recensore? Perdonami, sai...ma l'auto danneggiamento non rientra nelle mie strategie! -

Anche se ero ancora sbigottito dall'inaspettato "miracolo di gentilezza", e stordito a causa dell'improvviso scarico di tensione, quel saggio di buonismo mi suscitò un inevitabile sorriso

- Ma come - dissi - E tutti i discorsi di appena due settimane fa? La burocrazia, l'abuso di domicilio, il "Dura lex, sed lex"...dove sono andati a finire? -

Filippo scosse il capo, benevolo

- Andiamo, Loira!...Vuoi far funzionare questa robaccia anche con gli amici? -

E la faccenda fu chiusa per sempre, all'insegna di questa sorta di "investitura" prestigiosa.

Per tutto il resto del giorno fui molto contento: trovavo gratificante esser considerato "amico" da un personaggio illustre. Benché, da parte mia, non mi sentissi tale.

Già...perché in fondo stare vicino a lui mi metteva sempre in una condizione di disagio, diminuiva la mia autostima, e mi faceva venire voglia di diventare una persona diversa, il che non era proprio - almeno credevo - ciò che l'amicizia avrebbe dovuto essere.

Ma faceva lo stesso: a suo fianco c'era la tensione, c'erano la fatica, l'energia. Ed era questo che mi serviva: coraggio, entusiasmo...

 

Camilla fu felicissima. Ci inoltravamo in dicembre e le cose cominciavano davvero a filare liscio. Lei aveva trovato il nuovo lavoro al dancing, io davo ripetizioni di latino, e Filippo aveva a tutti i costi voluto pagarmi l'articolo che aveva pubblicato sul "Cambio Rotta" (a mia insaputa!). Avevo finalmente capito come funzionava il complicato meccanismo della facoltà di lettere, e studiavo per il primo esame. C'era molto tempo prima della sessione estiva, tuttavia, per difetto di serenità, non riuscivo a prendermela comoda, così rimanevo spesso alla scrivania fino a tardi, magari a controllare se qualche volta la luce del nostro vicino si fosse spenta prima della mia, anche perché, tanto, Camilla voleva che andassi a prenderla all'uscita del lavoro in bicicletta tutte le sere. Non si fidava - diceva - a tornare da sola, la notte, ma era tacitamente inteso che si trattava di un pretesto per avere per qualche minuto a disposizione un confidente fidato e dotato di tacita pazienza, a cui fare a caldo il resoconto di quelle serate, sua "croce e delizia", quasi fin dal principio.

Si era innamorata, innamorata alla follia. Diceva: "Non m'è mai presa, così!", eppure ero sicurissimo che non fosse vero. Lei, la pronunciava facilmente questa grossa parola, "Amore", perché amava tutte le volte, ed amore voleva dire anche gelosia, passione, sofferenza: erano i suoi corollari fondamentali.

Aveva una relazione col proprietario del locale, un uomo adulto, che poteva avere il doppio dei suoi anni, per quanto Camilla lo accusasse di infantilismo, lo definisse "un bambino" e aggiungesse, quando era arrabbiata "e per di più deficiente".

- E allora - facevo io, provocatorio - Perché ci stai insieme? - e lei, che non capiva l'intento malevolo della domanda, e prendeva ogni mia parola con una serietà spiazzante, restava zitta e pensosa a cercare una risposta esaustiva, finché tirava un lungo sospiro e cantilenava:

- Mah...boh...non lo so: perché lo amo. -

Ed ecco di nuovo questa parola pesante di cui si faceva gran dispendio, anche solo nel vano tentativo di dir qualcosa che non sembrasse stupido.

E che vuol dire?“ avrei voluto insistere; ma stavo zitto, non tanto per il desiderio di non infierire, quanto perché, troppo spesso, arrivato a quel punto, inspiegabilmente mi accorgevo di essere io a trovarmi banale, e una volta di più mi capitava di sentirmi inferiore a chi, un attimo prima, stavo tacciando, tra me, di scontatezza.

Lei, comunque, non si avvedeva di tutto questo, e apprezzava in ugual modo le mie parole e il mio silenzio: rimasi sempre il suo confidente privilegiato, l'appoggio sicuro, forse perché ero tanto cerebrale da sembrarle obiettivo, forse solo perché il distacco che mi dava l'inesperienza veniva confuso con la saggezza....o magari perché nessun altro si sarebbe prestato a girare fino a tarda notte in bicicletta per le strade deserte aspettando che il freddo e la stanchezza le avessero fatto passare la voglia di piangere, e a me quella di pedalare.

Una volta la portai fin su a Fiesole, per quelle viuzze strette e ripide che affaticano il respiro, ma riscaldano il corpo, alla faccia del gelo che diviene sempre più intenso quanto più si sale. Era un tragitto che mi aveva insegnato Rino: lo avevamo fatto una volta che ero passato dalle sue parti uscito dall'università. Lui aveva molto più fiato di me, era molto più agile e resistente di quanto la sua corporatura robusta e un po' impacciata non promettessero (ma questo fu molto dopo che l'avevo conosciuto, già tardo febbraio, e, alle porte, profumo di primavera...)

Camilla amava molto quelle nostre passeggiate notturne, non aveva mai freddo, e, a meno che non fosse proprio a terra, chiacchierava senza posa, e ad ogni frase di senso compiuto inseriva almeno una domandina rivolta a me, senza curarsi troppo se ciò che gli arrivava in risposta era solo un respiro affannoso.

Aveva preso a chiamarmi con uno strano soprannome: Dido. L'aveva disgraziatamente letto su non so più che mio quaderno di appunti, e me lo aveva affibbiato senza colpo ferire. Diceva che mi stava bene, perché evocava qualcosa di piccolo e tenero, con quella grafia tonda tutta "D".

- Dido - diceva - Secondo te che devo fare? - - Accidenti Dido! Chissà come ci prova, con tutte quelle là! - - Dido... secondo te dovrei lasciarlo? - e ancora: "Dido, la porta!", "Dido al telefono" e via dicendo; la solita quotidianità...

Se avessi dovuto scegliere, certo mi sarei trovato un nome diverso, ma purtroppo non potevo negare di somigliare all'immagine che quel nomignolo suscitava alla fantasia di Camilla, e ne detestavo soprattutto un aspetto, mai menzionato, ma tuttavia evidente: la fragilità. Soprannome friabile, immateriale, fatto quasi di carta dipinta da bambini, Dido: biglietto da visita che presentavo di me, e di cui la mia ambizione sperava un giorno di liberarsi. Ma che farci? Non tutti hanno la capacità di ritagliarsi un nome a misura dell'immagine che si vuol dare alla gente, tanto meno la faccia tosta di farne mostra, e io non ero né un Gabriele L'Annunzio nato Rapagnetta, né un Samuel Rosenstock meglio noto come Tristan Tzara, e i nomi altisonanti non potevo permettermeli.

A ognuno lo pseudonimo che si merita, o la dignità nell'accontentarsi, come Filippo, che firmava orgogliosamente col suo stridente cognome, e come Camilla che con invidiabile leggerezza si portava dietro quel terribile "De Gaddi-Ciuffino" che sarebbe bastato, con la sua imponenza, a schiacciare una persona tanto meno esile di lei.

 

C'erano anche le volte, per fortuna, che Milly usciva dal locale entusiasta. Lo capivo subito quando la vedevo comparire sulla soglia: se si era struccata e cambiata l'abito, voleva dire che non era scappata via in fretta e furia, e che era, perciò, di ottimo umore....Perché anche questo c'era da dire di Camilla: che, come Filippo, pur se in maniera diversa, non conosceva le mezze misure. Il suo stato d'animo aveva escursioni improvvise dal cielo a sottoterra, e questo era un tratto del suo carattere che mi era difficile assecondare quanto mi era facile invidiare: a volte avrei pagato per soffocare la mia stanca apatia con uno dei suoi schizzi di felicità gridata o di cupa disperazione.

Quando era allegra la passeggiata in bicicletta si limitava al tratto di strada che separava l'appartamento dal dancing. Durante il breve tragitto si sgolava a cantare le canzoncine del momento, nonostante non avesse fatto altro per l'intera serata, e, spesso e volentieri, prendeva delle tonsilliti fenomenali. Aveva una voce profonda, accorata, quando cantava; a volte "non sembrava la sua". Questo, in verità, fu un giudizio di Filippo, che, ovviamente, volle fare la parte anche del critico musicale. Lui e Camilla ancora non si frequentavano, ma si conoscevano già da tempo.

In principio Filippo non la stimava molto. Me lo confidò una sera che la riunione finì presto e volle fare la strada con me, nonostante gli avessi spiegato che mi fermavo al locale per recuperare la mia coinquilina. Bicicletta a mano, camminammo vicini, per quella strada che passava davanti a casa nostra, e poi, alla prima traversa, portava al dancing.

Avevamo già camminato insieme una volta, su quel marciapiede, una mattina di luce in cui mi ero sentito chiamare "uno di scarsa personalità" e ricordo di aver sperato che a quel punto avesse cambiato idea.

Lui aveva lo stesso passo di allora, sicuro, spedito, un passo che, non so come mai, mi pareva stonasse con la notte, strideva, non vi si adattava.

- Non passa una macchina! - esclamò, saltando in mezzo alla strada - Che pace! - e poi, ispirato e farsesco - “Che fai tu luna in ciel?” - citava - “dimmi, che fai, silenziosa luna?” - lanciandomi uno sguardo d'intesa. Ed io - “Sorgi la sera e vai, contemplando i deserti; indi ti posi“ - serio, quasi tra me - “Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli?” -.

C'era una splendida luna davvero, quella sera. Citazione più appropriata non si sarebbe potuta trovare.

Subito dopo Filippo tornò vicino a me, e mi chiese, a bruciapelo, se andavo d'accordo con Camilla. - Perché? - sbottai, sorpreso. Beh...Perché era una "ragazza bizzarra", un pò squallida, e frequentava dei pessimi ambienti...gli sembrava troppo diversa (voleva essere un complimento?) dal sottoscritto. Disse che la vedeva spesso rientrare la notte, quando restava in piedi a correggere bozze fino a tardi: la accompagnava una sua amica, “tutta rifatta dalla testa ai piedi“. E poi non gli piaceva come si truccava: troppo volgare.

Non l'avrei mai sospettato: Filippo era un moralista!

Sulla cosa principale, però, come al solito aveva visto giusto: eravamo molto diversi, e neanche io amavo le discoteche di Camilla...non sapevo nemmeno ballare. Ma amavo avere vicino quella luminosità di lei, o anche solo l'immagine che ne avevo io. Vagli ora a spiegare che la trovavo invece molto simile a lui!... La solarità e lo scatto, l'equilibrio di camminare veloci per strada senza inciampare in un sasso, la destrezza di non dover afferrare i bicchieri con due mani per paura di farli cadere... Naturale che preferii eludere l'argomento! - E' brava - risposi - ci si sta bene insieme. E se si trucca così, è solo per lavoro -

Per quella sera il discorso finì lì, e Filippo si limitò ad apprezzare molto le doti canore della sua affittuaria: amicizia nacque molto dopo, quando quelle due persone erano ormai diventate parte integrante della mia vita.

Intanto correvano veloci le fredde giornate di dicembre, ed io mi trovavo spesso ad interrogarmi sul senso di tutto questo, del mio arrabattarmi tra autobus e libri, del mio essere lì, a Firenze, e anche del mio essere lì nel mondo senza saper a chi servivo...tutte domande che riempiono le pagine della letteratura e della filosofia da tempo immemorabile, e che non avrebbero certo avuto la grande soluzione da parte di un cretino qualsiasi.

All the lonely people, where do they all come from?

 

L'amore, questa cosa strana...

Mi trovai a pensarci in quel periodo, perché Milly ci pensava.

- Sei mai stato innamorato? -

- No, non credo. A volte...Beh, a dir il vero, una volta credo di aver preso la mia piccola cotta. Era una mia compagna di liceo, una moretta che piaceva a tutti ed era tanto se mi salutava. Del resto non potrei biasimarla: io a volte non facevo neanche quello! Il mio più gran successo con lei fu ottenere una foto in cui mi teneva sottobraccio, e, pensa un po', non vado a perdere i negativi? -

- Che disastro! -

- Eh, puoi dirlo!...E tu? Quante volte...? -

- Mica poi tantissime: due o tre. L'amore, quello SERIO... -

Facevamo simili discorsi in bici, o il lunedì sera, accoccolati sul divano sotto una coperta a guardare la T.V. perché era il suo giorno libero. In quei momenti parlavo più volentieri anch' io: mi ispirava il calore, l'intimità domestica.

L'amore, "quello serio", intensità e passione, sesso e sofferenza: spesso, a sentir lei, provavo un gran desiderio di sperimentare di che si trattasse. Non mi sarebbe dispiaciuto che uno scombussolamento catastrofico scombinasse tutte le coordinate della mia vita, e potessi finalmente prendermi il lusso di star male e lamentarmi per qualcosa di reale, e magari scoprirci gioia, insieme. In vero c'era una buona dose di presunzione nel pensare di scovare una gioia segreta in Camilla, anche quando mi ripeteva in cantilena "Sono uno straccio, sono a pezzi", ma non potevo non sospettare che il gioco dovesse valere la candela. Non si leggeva persino nei testi sacri che siamo nati per amare, e c'era gente che realizzava la propria vita nell'amore? Poteva darsi. Ma forse non era il mio caso, e il mattino dopo, finiti quel tepore di coperta e l'odore di camomilla, il mattino, con la luce, erano pensieri lontani, e c'erano, vicini, soltanto il 17 ed i libri dei miei poeti.

- E te, quindi, non hai mai avuto una ragazza? -

- No -

- Ma come? Bellino come sei...Io dico che non l'hai mai voluta, oppure hai un po' paura -

Mi piaceva quando Camilla cercava di farmi dei complimenti, la sua voce aveva un tono incoraggiante, ma non riuscivo a non essere infastidito da quelle frasi fatte che è così semplice sfornare in materia di sentimenti. La paura, ad esempio: parola facile, per rinunciare a darsi delle spiegazioni o per togliersi d'impiccio se non si è all'altezza di darle. Io sapevo invece benissimo quanto poco essa avesse a che fare con la mia sfera affettiva. E non per questo mi vantavo di coraggio: avevo paura quasi sempre, paura delle malattie, paura degli esami e delle brutte figure, ma di tante altre cose che non si fanno, che non si capiscono o che ci sfuggono mi piaceva già allora pensare esistessero motivi più insondabili, tali da rivestirli di quella sacralità che si concede al mistero...Ci rientravano la sospensione, gli schizzi della follia, le occasioni mancate e quelle che non ci sono, e anche gli istinti irrazionali della nostra corporeità e gli slabbrati margini della fantasia.

E siccome ce ne erano fin troppi e non mi piaceva parlare in generale, era sempre più salutare andare a dormire e rimandare a domani.

Però era vero che ero incompleto, o almeno avevo questa sensazione. Poi, siamo tutti incompleti, ma buona parte della gente non se ne accorge - il che è un po' lo stesso che non esserlo - ed è anche molto felice. Io, purtroppo - che farci? - rientravo in pieno nella parte restante.

 

Camilla fu triste di avere un Natale senza neve. Lei era nata in montagna, era abituata al "Natale in bianco", e diceva di non riuscire a sentire l'atmosfera. Neppure io la sentivo, e da molti anni, ormai, ma non certo a causa della neve. Forse era solo segno che ero cresciuto, e non mi accontentavo più di eccitarmi per tante lucine accese per le strade, o per quell'alone di festa che la notte di vigilia, quando ero piccolo, aveva quasi un profumo, odore di nebbia e brina. Eppure, ogni tanto, mi stupivo a cercarlo per i viali di Firenze, quell'odore: a volte mi sembrava di trovarlo voltato l'angolo di una strada silenziosa, tornando dalla riunione, il giovedì, a sera tarda, ma non c'erano più le sensazioni corrispondenti, e quel profumo, un istante percepito, spariva in una folata di vento, mentre cercavo frettolosamente le chiavi, sotto il portone di casa

- Che freddo maledetto, stanotte! -

Io e Milly, però, festeggiammo lo stesso quelle giornate di vacanza, e anche l'inverno passò rapidissimo, il più rapido e il più strano che ricordi, frugando indietro, nella mia vita...

  
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