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Autore: Dark Magic    20/06/2012    2 recensioni
Edward ha lasciato Bella sull'isola per andare a caccia. Nella giungla riflessioni, incontri, urla...
Tratto dalla storia:
M’inginocchiai portando con me l’animale morto. Nella mia mente comparve un lampo indistinto. Frammenti di pensieri istintivi, la mia figura accovacciata di spalle.
Le memorie erano di una creatura soltanto, i battiti invece erano due.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Edward Cullen
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Breaking Dawn
- Questa storia fa parte della serie 'Frammenti'
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battito

battito

Battito nella giungla

Fiotti di sangue scesero lungo la mia gola, dissetandomi.
Spicchi di luce ondeggiarono come campane sul suolo ricoperto di terriccio e foglie secche.
Era ormai giorno da ore e il caldo afoso della foresta amazzonica si faceva sentire, persino per un vampiro come me.
Era un’iniezione di vita il suo calore, lo stesso che sprigionava la pelle rosea di Bella quando la sfioravo.
Ero andato via dall’isola quando ancora il sole non aveva fatto capolino dalla superficie dell’acqua, irradiandolo di sfumature verdi e giallognole.
Persino dal ventre della foresta riuscivo a sentire le onde del mare infrangersi sulla battigia.
Sorrisi ricordando come dormiva beata su quel grande letto bianco, la coperta attorcigliata tra le gambe snelle, i capelli sparsi a mo’ di ventaglio sulle lenzuola candide.
Uno degli ultimi raggi lunari accarezzò la sua pelle donandole un aspetto fatato.
Incantevole, continuava a ripetere la mia mente.
Non c’era altro modo per descrivere quella meravigliosa donna che riposava su quell’isola disabitata.
Donna, perché io l’avevo resa tale. E nonostante la fitta allo stomaco che provavo ogni volta che rammentavo i lividi lasciati sul suo corpo delicato, non riuscivo a non pensare alle emozioni che mi aveva suscitato quella prima volta.
E quelle dopo.
Ero sopravvissuto per più di cento anni, ora incominciavo a vivere davvero.
La pantera che tenevo stretta in una morsa d’acciaio esalò l’ultimo respiro ed io, soddisfatto, rinfoderai i canini.
Un brivido percorse la mia schiena, quando il mio sguardo si posò sul volto senza vita dell’animale. Un maschio.
La femmina era con lui quando l’ebbi agguantato, ma la risparmiai per via del piccolo cuore che avevo udito battere nel suo ventre.
Era incinta. Di un cucciolo.
Un cucciolo che non avrebbe mai conosciuto il padre.
Che ironia, beffeggiò la mia coscienza, se non vivi di animali, preferisci la dieta normale?
I lineamenti del felino mutarono a poco a poco, come un effetto speciale di un film, prendendo le sembianze di mia moglie, un corpo ormai freddo tra le mie braccia.
M’inginocchiai portando con me l’animale morto. Nella mia mente comparve un lampo indistinto. Frammenti di pensieri istintivi, la mia figura accovacciata di spalle.
Le memorie erano di una creatura soltanto, i battiti invece erano due.
Era lei, la femmina che avevo risparmiato.
Mi voltai nella sua direzione e la vidi scrutare il corpo nero del compagno.
«Mi dispiace» sussurrai.
Ma di cosa?, rise la mia coscienza. Lei non può capirti, né risponderti.
O forse solo capirti, chi lo sa.
D’altronde loro sono in alto nella catena alimentare, almeno finché tu non hai dimostrato di essere addirittura più forte dell’uomo che vive nei villaggi ai confini di questo grande giardino fitto di papaye, palme ed ebani.

Un sibilo acuto fu la sua risposta. Affondò gli artigli nel terreno, ringhiando sommessamente.
Sapeva già che contro di me non aveva speranze, ma la vendetta era ciò che la spingeva ad agire, a vendicare il compagno senza vita.
Appoggiai ai piedi di un grande ebano la pantera e mi allontanai silenziosamente, sotto lo sguardo attento della femmina.
Ora era tuo, o almeno ciò che ne rimaneva.
«Guarda, guarda, chi è venuto a farci visita» sogghignò una voce femminile armoniosa.
Una forma indistinta schizzò alla mia destra, andandosi ad appollaiare su un ramo alto di albero di cacao.
Non aveva intenzione di attaccarmi, dedussi dalla sua mente.
Sollevai lo sguardo per incrociare il suo. I suoi occhi color vinaccia mi fissarono divertiti. Mi concedetti una breve ispezione: capelli lunghi fino alla vita, lisci e neri, pelle ambrata come quella di Jacob, forse un tantino più scura.
Indossava abiti vecchi, probabilmente simili a quelli delle tribù del posto. Ai polsi portava dei braccialetti con disegni intricati, alcune parole vi erano stampate sopra, forse appartenenti ad alcuni rituali che usavano gli anziani di qui.
Un gomito era poggiato sulla corteccia, con la mano si reggeva la nuca.
Nonostante l’aspetto selvaggio, teneva un comportamento civile.
«Dovrei conoscerti?» le chiesi, ricordando la strana frase che aveva pensato un attimo prima.
«Tu no, ma posso ben immaginare a quale clan appartieni tu» cambiò posizione, sedendosi sul ramo e tenendosi in equilibrio con le mani «avverto vagamente l’odore di Carlisle su di te. E anche di Alice e Jasper.»
Aggrottai le sopracciglia, sinceramente sorpreso.
Poi ricordai che mi trovavo in Brasile e allora intuii di avere a che fare con una del clan delle amazzoni. Zafrina, Senna o Kachiri?
«Mi chiamo Edward, sono il figlio maggiore di Carlisle. Tu invece sei…?»
Rise, scostando una ciocca di capelli. «È maleducazione non presentarsi quando si viene a cacciare in territorio altrui…» s’interruppe, ma riprese poi nella mente, «specialmente quando siete venuti qua diversi anni fa e tu eri in giro per il continente sudamericano a occhieggiare qualche bella donna.»
Scossi il capo, sorridendo. «Dunque sai del mio potere…»
Annuì seria. «Sì, Carlisle me ne ha parlato quando ho notato che Alice anticipava le mie parole tempo fa. Ha detto che nella sua famiglia c’erano altri con doni extra.»
Annuì a mia volta, soddisfatto della sua spiegazione. «Quella volta ero alla ricerca di un posto isolato, dove poter stare finalmente in pace con la testa» picchiettai la tempia «a volte è una tortura non poter riflettere per conto proprio senza che qualcuno scivoli dentro la tua testa e si ferma per un bel po’.»
Saltò giù dall’albero e si sdraiò per terra, una mano sugli occhi, come a proteggersi dalla luce accecante del sole. Sorrisi per quel gesto così umano e innocuo.
Noi vampiri non avevamo bisogno di nascondere i nostri occhi. Mi sdraiai per terra accanto a lei. I nostri corpi brillavano a intermittenza, non appena le foglie lasciavano penetrare qualche fascio di luce.
«Non sei l’unico…»
Non capendo ciò che voleva dire con quella frase, aprii gli occhi, ma tutto ciò che vidi fu il buio più tetro.
Portai istintivamente le mani agli occhi, stropicciandoli, ma non accadde nulla.
Una frase di Carlisle di tempo fa riecheggiò nella mia testa:
«Una di loro, Zafrina, ha il potere di far vedere ciò che vuole al nemico. Che sia umano o vampiro non importa. Il suo è un dono infido e pericoloso. È cosa buona che sia dalla nostra parte.»
Avevo persino ripescato tra i suoi pensieri l’immagine della vampira, ma era stata ben diversa da quella con cui si era presentata ora.
E adesso capivo perché. Aveva alterato la sua immagine per diffidenza. Non si fidava di quel clan così grande all’inizio, con membri che possedevano doni a sua volta pericolosi anche per una come lei.
Come il mio, ad esempio.
«Tu sei Zafrina.»
«Già, in persona.»
Subito dopo la mia vista tornò alla normalità, ma essendo passato da uno stato di completa catatonia, i miei pensieri corsero tutti a Bella.
Era sola in quell’enorme casa ed io ero qui con una vampira dalle strane abitudini.
Come se mi avesse letto nella mente, mi rassicurò: «non temere per la tua umana. Sono sicura che starà ancora dormendo.»
M’irrigidii a quella frase, anche se lei sembrò del tutto indifferente.
Come faceva a sapere che ero qui con Bella?
Sapeva anche dove risiedevamo al momento?
«Non mi sembra di aver nominato mia moglie» proruppi glaciale.
Amica di Carlisle o no, non trovavo molto cortese il suo comportamento. Probabilmente anche le altre due vampire ci avevano tenuto d’occhio da quando avevamo messo piede in Brasile.
«Non era necessario che tu aprissi bocca» sollevò le palpebre fissandomi con determinazione «controlliamo sempre i nuovi arrivi.»
«Ma davvero?» sferzai caustico.
Scattò in piedi, fino a sfiorare il naso con il mio. Anche se non aveva intenzione di combattere, capivo dai suoi pensieri e dall’elettricità che si era sprigionata qui intorno che avrebbe potuto cambiare idea se avessi rappresentato una minaccia per lei e le sue sorelle.
«Vorrei ben vedere il vostro clan se si ritrovasse nel suo territorio qualcuno della propria specie che si comporta come se fosse a casa sua.»
Inclinai il capo, sorridendo sfacciato. «Lo è?»
Socchiuse gli occhi, irritata. «Cosa?»
«Casa tua» feci un gesto ampio della mano indicando un punto imprecisato della foresta «intendo questo posto.»
Si allontanò, cominciando a girare intorno, proprio come una pantera con la sua preda. Infine rispose con un: «certamente.»
Scrollai le spalle, disinvolto. «Allora non hai nulla da temere da me. Stavo semplicemente cacciando qualche animale della zona.»
Zafrina lanciò uno sguardo in direzione della carcassa dell’animale, torcendo un po’ il labbro superiore. Probabilmente l’equivalente di una smorfia umana. «Lo vedo.»
«Ma non penso di arrecare alcun disturbo» feci stavolta un cenno del capo verso di lei «i tuoi occhi parlano da soli su quale dieta tu segua.»
Qualunque vampiro si sarebbe reso conto che lei si nutriva di sangue umano. Gli occhi erano lo specchio dell’anima.
In questo momento, parole più azzeccate e vere non esistevano.
Per i vampiri era tutta una questione di colore.
Occhi gialli erano rari tra i vampiri e solo due clan seguivano la dieta a base di sangue animale.
Un rumore di rami spezzati si avvertì in lontananza. Era un umano ma Zafrina non poteva saperlo con certezza, finché non capì come me che c’era qualcun altro della nostra specie che stava inseguendo la sua preda.
«Aiuto!» gridò una voce maschile. Era americano, capivo dai suoi pensieri.
Un turista che era venuto a veder ancheggiare le ballerine brasiliane.
Negli angoli più remoti della sua mente si agitarono pensieri più impuri, però.
Stupri. Un paio, ma nessuno era mai riuscito a incastrarlo.
«Corri quanto ti pare, mostro!» rise la vampira che lo inseguiva.
Era chiaro nella sua mente la scena di una donna in un angolo buio di un vicolo deserto. Sola, impaurita e quasi vittima di quel maniaco.
Finché qualcosa di più oscuro non era piombato su di loro trascinando nella foresta l’essere vile.
Adesso stava facendo provare a quel mostro ciò che lui stesso aveva seminato: terrore.
«È…?» domandai a Zafrina.
Lei scosse la testa. «Non è una delle mie sorelle. È una che vive nel continente da un bel po’.»
Ah. Quindi non ero l’unico esterno al suo clan qui in Brasile.
«Anche a lei avete fatto il terzo grado?» chiesi ironico.
Rise del mio tono ma rispose con naturalezza. «Ovvio. Ma è una che non vuole unirsi a noi, nonostante faccia credere a tutti che stia da sola.»
Perché avrebbe dovuto fingere di vivere un’esistenza solitaria?
Sicuramente la perplessità si leggeva sul mio viso, perché si affrettò a spiegare: «Si chiama Huilen. E uccide un po’ troppi umani per essere sola.»
«Capisco» dissi soltanto.
Doveva essere molto bravo – o brava – questo vampiro che riusciva persino a sfuggire al controllo di tre vampire anziane come Zafrina e le sue due sorelle.
Chissà finora come ci era riuscito.
Un urlo in una lingua antica risuonò nella foresta. Gli animali, tra cui gli uccelli, interruppero qualsiasi attività. La giungla si fece d’un tratto silenziosa come una tomba.
«Devo andare adesso» pronunciò Zafrina «le mie sorelle mi stanno cercando.»
Annuii, pronto per tornare da Bella. Sicuramente aveva trovato il biglietto e riso del mio messaggio. In effetti, mi aspettavo di tornare prima, ma l’incontro con la vampira aveva cambiato tutto.
«Be’, anch’io devo andare. Mia moglie mi sta aspettando.»
Zafrina allungò la mano nella mia direzione. «È stato un piacere conoscerti, Edward Cullen. Credo che ci rivedremo quando la tua umana sarà una di noi. Mi piacerebbe conoscerla di persona.»
L’ultima frase sarebbe sembrata consona al momento e innocua, ma il suo tono pensieroso m’insospettì. Cercai tra i suoi pensieri ma riuscì a mascherarli bene.
Mi aveva incontrato una volta sola ed era già in grado di tenermi lontano.
Incredibile.
E mentre Zafrina svaniva dopo un altro urlo di richiamo, gettai un’ultima occhiata alla pantera morta. La femmina era ancora lì, con la coda che si agitava a destra e a manca.
Un raggio di luce filtrò dalle foglie e illuminò il suo muso nero. Una goccia di cristallo scese lungo gli zigomi.
Chiusi gli occhi e mi lanciai nella direzione opposta, con un piccolo battito cardiaco che rimbombava nelle mie orecchie, seguito da gemiti soffocati.

   
 
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