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Autore: braver than nana    21/06/2012    5 recensioni
{ Steve/Tony is my new love, i can't even handle it }
«Se avessi un desiderio, un unico desiderio che un dio può esadirti…» Thor ridacchiò ma poi tornò a russare con la testa totalmente abbandonata sulla spalla stanca di Bruce «cosa vorresti?»
«Tornare a settanta anni fa, e riuscire a far atterrare quel maledetto aereo.» rispose. Senza nessuna sfumatura nella voce, come se fosse una domanda che puntualmente qualcuno gli poneva e alla quale rispondeva sempre allo stesso modo.
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Agente Phil Coulson, Steve Rogers/Captain America, Tony Stark/Iron Man
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Wishes

And though you're dead and gone believe me your memory will carry on 
We'll carry on 

Essere uno dei più grandi ingegneri del suo secolo, per Tony Stark, era ormai una pura e semplice formalità. Pepper continuava a dirgli, con meno zelo rispetto a qualche anno prima, di apparire almeno un po’ più entusiasta. Poi lui le ricordava quanto si lamentava dei suoi piccoli spettacolini pirotecnici che amava realizzare a pochi anni dalla nascita di Iron Man, e allora lei, ogni singola volta, si zittiva mettendo sulla punta del mento un broncio che un tempo avrebbe trovato adorabile.
Si girò a guardarla, mentre con indosso solo una camicia da notte leggera passeggiava per la loro stanza da letto, gli occhiali sul naso, un fascicolo di chissà cosa tra le mani. Aveva iniziato a tagliare i capelli sempre più corti e ormai, nonostante non fossero particolarmente avanti negli anni, il suo aspetto diventava sempre più simile a quello di una donna fatta e finita, una di quelle signore di classe che ricordavano le foto di sua madre.
«A quanto pare vogliono che tu sia presente a quella serata di beneficienza di cui ti stavo parlando l’altro giorno,» diceva senza neanche guardarlo, prendendo la tazza di caffè lasciata a raffreddare sul mobile bianco laccato «vogliono darti un premio, per la tua più grande invenzione, dicono. Ma non ho ben capito a quale si riferiscono.»
La sua risata sottile riempì la stanza, raggiungendolo ancora steso tra le coperte. Se si concentrava, se la ascoltava veramente, se si sforzava di osservarla poteva ancora ricordarsi il motivo per cui si era innamorato di lei, tanti anni prima. Solo che quei momenti duravano sempre troppo poco e lei lo sapeva. Allora gli passava la mano tra i capelli spettinati su cui lasciva un bacio e poi lo lasciava solo con il suo lavoro. O la sua tristezza.
«La mia più grande invenzione?» sussurrò quando vide i capelli corti e sempre rossi di Pepper sparire dentro la cabina armadio. Si lasciò sprofondare ancora un po’ nei cuscini posando un braccio ancora forte sugli occhi, è solo una la mia invenzione più grande, la più riuscita e perfetta ma nessuno ne è a conoscenza si disse, ridendo amaramente, ricordandosi come ricordava ogni giorno quel piccolo particolare che gli aveva sconvolto la vita.

***

Nella base degli Avengers, non era possibile trovare un momento di silenzio in tempi come quelli. Natasha era appena tornata da quella missione in Turchia e, anche se non voleva darlo a vedere, Clint nel vederla entrare era quasi caduto dalla sedia sul quale era rimasto seduto per le ultime quarantotto ore, mentre lei era via. Bruce aveva riso sotto i baffi che stava inutilmente cercando di farsi crescere e, nonostante facesse avanti e dietro da Asgard, anche Thor si era ritrovato in quella strana riunione insolita per un essere un mercoledì pomeriggio, con le braccia incrociate e il sorriso buono mentre dava di gomito allo scienziato.
Nick entrò nella sala nel esatto momento in cui, sistemandosi meglio sulla sedia, Clint aveva preso il coraggio di alzarsi in piedi per andarle incontro, per chiedere alla rossa di seguirlo e fare rapporto. Andandosene, silenziosamente come era arrivato, aveva dato uno scappellotto tra i capelli scuri di Banner che ancora rideva, rischiando di soffocarsi mentre cercava di analizzare chissà quale sostanza nel microscopio.
Tony li stava osservando da lontano, seduto elegantemente con le gambe incrociate sul suo bancone di lavoro, sorridendo.
Non avrebbe mai pensato, la prima volta che Fury si era presentato con quella strampalata idea, di poter trovarsi un clima simile, come se fossero una famiglia. Lui, dalla sua postazione, si sentiva un po’ lo zio ricco che arriva a Natale portando regali costosi ai nipotini scalmanati. Gettò un’occhiata -non poi così rapida- rapida a Steve, dritto come uno stoccafisso -o come un soldato pensò-  appoggiato al muro bianco e gli venne da ridere perché, oggettivamente, se si analizzavano i loro comportamenti e dovendo trovare un ruolo per tutti in quella strana compagna lui sarebbe sicuramente stato la mamma chioccia, con il suo sguardo in cui si incrociavano palesemente l’orgoglio e la preoccupazione, esattamente come una madre preoccupata per i suoi bambini troppo rumorosi.
Gli occhi azzurri stavano scrutando la folla di supereroi raccolti nella sala, soffermandosi un po’ su ognuno, scuotendo la testa a una battuta smaliziata di Thor e soffocando la risata nell’osservare la reazione di Clint, stringendo le braccia sulla maglietta scura che gli evidenziava il fisico non poi così materno. Quando li sentì posarsi su di lui avrebbe voluto continuare ad analizzarli, cercare di capire quale sfumatura avrebbero assunto, come avrebbero sorriso, ma naturalmente l’altro distolse presto lo sguardo, imbarazzato.
Sbuffò alzandosi -e tutti lo guardarono per un attimo, zittendosi- e scese i pochi scalini che lo portarono di fianco a un Bruce ancora sogghignante, sedendosi sul suo piano di lavoro.
«Allora,» disse guardando quasi tutti dal basso -maledicendo le loro altezze e chiedendosi perché dovessero essere così imponenti i supereroi- «che si fa stasera?»
Che fosse perennemente annoiato, Tony Stark, lo sapevano tutti. Niente mai lo soddisfaceva in pieno, niente era realmente alla sua altezza e, nonostante da un paio d’anni a quella parte viveva spesso a stretto contatto con menti dal quoziente intellettivo quasi pari al suo e gente che stimolava la sua curiosità, niente riusciva mai a completarlo. Solitamente, se era mortalmente giù di tono per la consapevolezza della sua superiorità, si chiudeva in laboratorio e lavorava, quel giorno era rimasto alla base cercando il momento adatto per convincere gli altri a fare qualcosa.
Erano un gruppo abbastanza affiatato, avevano sconfitto Loki un paio di volte, avevano combattuto fianco a fianco per mesi, si consideravano una famiglia -anche se nessuno, ovviamente, l’aveva mai detto ad alta voce- ma non si conoscevano e proprio qualche giorno prima, mentre chiacchierava del più e del meno con Jarvis, questo gli aveva chiesto quanti anni avesse Natasha -sospettava avesse una cotta per lei- lui non aveva saputo rispondere. Aveva provato a indovinare, poi non aveva resistito ed era andato a cercarla su internet, come aveva fatto la prima volta che l’aveva vista in casa sua a New York ma con un altro nome, e l’aveva trovato incredibilmente squallido perché dai, l’aveva vista giusto qualche ora prima, una volta gli aveva tirato un cazzotto così forte da rompergli il naso e lui non sapeva neanche quanti anni avesse!
Dopo un paio di secondi in totale silenzio, in cui ognuno in quella stanza lo aveva guardato come se fosse pazzo -o almeno più del solito- tutti avevano poi iniziato a parlare contemporaneamente, proprio come una massa di bambini indisciplinati beh forse padre ha bisogno di me perché sai, credo di dover restare in laboratorio ma, e se Natasha per caso… poi Steve li aveva zittiti con solo un gesto della mano, gli aveva sorriso e «Cosa volevi proporre, Tony?»
E allora lo aveva guardato, e il modo in cui lo aveva fatto e quello in cui aveva pronunciato il suo nome, lo avevano fatto sentire meno annoiato del solito. Non arrossì neanche quando propose di passare la serata tra soli uomini, e neanche quando, muovendo le mani per richiamare uno degli schermi che aveva dalla sua postazione e controllando cosa stessero sorvolando si ricordò di quella volta in cui un magnate dell’industria di alcolici gli aveva consigliato un locale nel centro di Tokio dove si beveva la miglior tequila di tutto il Giappone. Poi Cap aveva annuito, scuotendo di poco la testa e aggiustandosi i capelli dal tagli superato, e allora naturalmente tutti avevano deciso di unirsi a loro. Anche Bruce che solitamente non voleva neanche sentir parlare di un sorso di birra.
«Direttor Fury» aveva gridato allora, ridendo «noi andiamo a farci un giro.»
E invece era apparsa Natasha, sinuosa nella tuta nera sporca, aveva guardato male il Falco e se ne era andata muovendo esageratamente i capelli di nuovo lunghi e sempre più scuri, come l’umore. Clint gli aveva tirato un pugno sul braccio e allora aveva riso tutti perché nessuno la sopportava più tutta quella tensione sessuale tra quei due.
Due ore e mezza dopo, stavano ancora ridendo tutti ma nessuno era realmente ubriaco. Steve era seduto composto su un divanetto di pelle verde, girandosi tra le dita il sesto bicchiere di tequila, bevendo come se gli stessero versando acqua fresca, Bruce continuava a chiedere una Coca-Cola ma nessuno in quel locale sembrasse sapere di cosa quell’ometto stesse parlando, Thor aveva fermato in tempo Clint che voleva sfidarlo con due pinte di birra tra le mani, rubandogli la prima da sotto il naso e poi anche la seconda, prendendolo in giro.
«Come è che non riesco a farti ubriacare, eh, nonnetto?» furono le prime parole che Tony riuscì a rivolgere a Steve, nonostante fossero stati nella stessa saletta calda e maleodorante per circa un’ora e mezza, mentre si sedeva sul bracciolo della poltrona verde. Non lo aveva propriamente evitato, aveva solo deciso di restare ad osservarlo ancora un po’, giusto quel tanto per capire bene, per studiarlo. Avrebbe voluto portarlo nel suo laboratorio e farlo scannerizzare da Jarvis, ispezionarlo per bene, in ogni singolo angolo del suo corpo muscoloso e del suo cervello semplice e organizzato. Poi all’ennesimo giro di tequila aveva deciso che ne aveva abbastanza, che aveva pensato fin troppo.
«Colpa del siero, metabolismo moltiplicato, roba così.» aveva risposto senza badare più ai lievi sfottò, portando ancora il bicchiere mezzo pieno di liquido giallognolo alle labbra.
«Peccato» gli aveva sussurrato, non sapendo bene se fosse riuscito a sentirlo, e si era alzato in piedi allargando le braccia così che tutti potessero vederlo, anche se annebbiati dai fumi dell’alcool «amici! Da adesso in poi abbiamo quattordici anni e siamo alla prima nottata passata a casa di un amico che ci mostra per la prima volta i giornaletti porno.»
Tutti avevano riso, anche dei signorotti con camicia e cravatta allentata che in altri tavoli parlavano giapponese fitto fitto e che fino a quel momento avevano cercato di ignorarli il più possibile.
«Cosa vuoi fare, Stark?» gli aveva chiesto Bruce, con in mano l’unica acqua minerale che era riuscito a recuperare.
«Giocare a obbligo o verità, ma se preferite il gioco della bottiglia ditelo subito che levo le tende.»
Poi qualcuno aveva iniziato a lamentarsi, Barton aveva allentato di poco il colletto della polo che aveva trovato in un cassetto spaventato di quello che avrebbero potuto fare e fargli fare, Bruce aveva riso ancora più forte ma aveva scosso violentemente la facciona paonazza dal caldo, mormorando vari non ci penso proprio che nessuno tenne in considerazione. Solo che quella volta non toccò a mamma chioccia far calmare gli animi, bastò il biondone che con la sua voce potente dichiarava di voler giocare, visto che dalle sua parti certi cose non esistevano. Le nottate le passavo con mio fratello, ad Asgard, non abbiamo mai fatto di questi giochi, aveva detto, guardandosi spaesato quando tutti iniziarono a prenderlo in giro.
I primi giri furono talmente imbarazzanti che Tony dovette ringraziare la sua memoria fotografica per certe chicche che non avrebbe scordato tanto facilmente, poi però la stanchezza iniziò a gravare sulle spalle di ognuno di loro, sprofondanti in quei divanetti comodi e colorati e quando toccò di nuovo al soldato Rogers fu proprio lui, vigile ma affaticato, a proporsi per trovare un’altra domanda, l’ultima domanda.
«Se avessi un desiderio, un unico desiderio che un dio può esadirti…» Thor ridacchiò ma poi tornò a russare con la testa totalmente abbandonata sulla spalla stanca di Bruce «cosa vorresti?»
«Tornare a settanta anni fa, e riuscire a far atterrare quel maledetto aereo.» rispose. Senza nessuna sfumatura nella voce, come se fosse una domanda che puntualmente qualcuno gli poneva e alla quale rispondeva sempre allo stesso modo.
«Pensi che esista qualcosa, adesso, tra vent’anni, che ti possa far cambiare idea?»
«Niente.» e sorrise amaramente, guardandolo dritto negli occhi. In quell’istante Tony si era reso conto di non essere più annoiato, di star provando, forse per la prima volta, qualcosa di simile al puro e disinteressato interesse per qualcuno. Forse per la sua storia che conosceva ma che nessuno mai gli aveva raccontato, forse per quello sguardo triste e fiero che nascondeva di sicuro qualcosa che non scrivevano nei fumetti che stampavano quando era bambino. Si rese conto di aver davanti Capitan America ma in realtà vedeva solo un ragazzo dagli occhi stanchi e le spalle larghe, e che se era interessato a lui non era perché era il supereroe che tutti conoscevano, ma perché voleva scoprire Steve Rogers, che nessuno si era preso la briga di spiegare sul retro di una figurina.
Nessuno parlò più quella sera, non ci furono altre domande imbarazzanti, ognuno pagò i propri drink e una volta fuori, sul terrazzo sul quale avevano parcheggiato l’elicottero Stark, respirarono l’aria fredda di Tokio e si sorrisero, mentre la vedevano diventare sempre più piccola. Tornati alla base ognuno prese la propria strada e Natasha si fece trovare sospettosa alle porte ma poi, vedendoli arrivare tranquilli e sobri prese Clint per un braccio e qualcuno fischiò, forse Bruce, ma lui ignorò del tutto la scena concentrandosi su Steve che aveva preso la sua strada senza neanche lasciare un saluto.
La sua domanda, ne era certo, lo aveva rattristato. Nei giorni successivi, per quanto provasse a non pensarci, si ritrovava sempre più spesso a domandarsi se avesse fatto male a proporre quel gioco idiota -nonostante tutti i probabili ricatti che sarebbero potuti scattare grazie ai vari obblighi e alle confessioni- e si chiuse nel suo laboratorio. Per un piccolo, piccolissimo istante aveva pensato di chiedere al suo computer di scoprire qualcosa di più su di lui, di scavare, di andare nei database del governo tornando indietro fino a quella famosa seconda guerra mondiale e a quella famosa notte. Doveva esserci pur qualcosa, ma preferì buttarsi nel lavoro entrando in contatto solo con i suoi freddi amici dalla voce metallica e con Pepper, che ogni tanto passava e salutava.
Solo una sera, qualche settimana dopo, riuscì di nuovo a sentirsi vivo. Aveva chiesto a Jarvis di non essere disturbato, aveva indossato i vecchi pantaloni da lavoro, piegandosi sulle ginocchia per lavorare con quella vecchia ferraglia che aveva recuperato per il suo nuovo profetto, così quando lo sentì parlare all’improvviso, quasi spaventandolo e facendo saltare una vite che lo stava facendo ammattire, avrebbe iniziato a minacciarlo ancora una volta di trasformarlo in un frullatore se le sue parole, il capitano Rogers è alla porta, non lo avessero azzittito immediatamente.
Prese uno straccio, pulendosi le mani giusto in tempo per godersi l’aria spaesata di Steve mentre camminava nel corridoio a vetri che portava al laboratorio. Soffiò una risata e aprigli disse proprio nel momento in cui i loro occhi si incontrarono.
«Cosa la porta qui, capitano?» riuscì a chiedergli, senza riuscire a fare un passo.
«Steve, puoi chiamarmi Steve. Comunque, ecco, sono qui perché visto che alla base non ti sei fatto vedere in questi giorni tutti erano un po’ preoccupati e mi hanno chiesto di fare un salto.»
Tony lo guardò attentamente, scorgendo ogni singola bugia che il suo corpo mostrava, negando le parole che gli erano uscite dalle labbra. Avrebbe voluto sorridere per la sua ingenuità ma non ne ebbe il coraggio, perché era indubbiamente scaltro ma non crudele quindi gli avrebbe lasciato tutto il tempo di cui aveva bisogno per capire.
«Ok, Steve, puoi dire ai vendicatori che sto bene, sono solo stato un po’ occupato e non mi sembra che ci siano grosse necessità di uomini di latta alla base, di questi giorni.»
Parlò con sicurezza, girandosi e gettando un telo sul lavoro che stava cercando di portare a termine, sorridendogli. Se era intelligente come le leggende narravano sarebbe stato in grado di capire anche lui dove e come stava mentendo ed effettivamente, quando le sue parole indicavano un sottile congedo, lui si sedette sul bancone trasparente e incrociò le braccia al petto guardandosi attorno come un bambino, segno che aveva capito, che forse era pronto. Era quasi sorprendente vederlo al di fuori della sua solita maschera materna e ancora una volta, osservando i lineamenti dolci dell’uomo seduto di fronte a lui, si sorprese nello scoprire quanto lo attraesse.
La mascella larga, il naso dritto, le labbra tirate in un sorriso infantile che si allungava fino agli occhi celesti, il ciuffo biondo e penzolante sulla fronte bianca. Aveva un aspetto così fiero anche mentre lasciava penzolare le gambe lunghe e massicce dal bancone, dondolandosi e spaventandosi quando il suo amico chiese se per caso, il Capitano, volesse qualcosa da bere.
«Portaci due tequila, Jarvis.» aveva risposto per entrambi e, quando l’altro lo guardò confuso, si sedette sulla sua sedia e iniziò a parlare.
Normalmente gli piaceva chiacchierare, dare fiato alla bocca, cianciare di qualsiasi cretinata gli venisse in mente con qualsiasi persona si trovasse davanti, tutto quello era di per certo uno dei suoi sport preferiti, però, mentre si sistemava comodo e versava il liquido più scuro di quello assaggiato in Giappone, si ritrovò a parlare. Era particolare e insolito perché l’altro ascoltava veramente, interveniva di rado e sorrideva di un sorriso grato che gli faceva venire voglia di allungare una mano toccarlo, per capire se esistesse realmente.
Parlò di suo padre, di come si era ritrovato quel pezzo di metallo nel corpo e di come Yin Sen lo avesse aiutato mentre era in Vietnam, parlò di Pepper e di come il loro rapporto fosse avanzato e regredito con la stessa velocità e collaborazione, del suo lavoro, ancora di suo padre, di Jarvis e di come vedeva lui e gli altri Vendicatori. Parlò così a lungo che Steve aveva finito la sua bottiglia migliore di tequila, lui aveva ancora il primo bicchiere tra le mani e la bocca secca ma tutto il resto era decisamente più leggero.
Quando Cap si alzò con uno scatto, facendo rumore con gli stivali da militare, non si sorprese più di tanto. Rimase sconvolto quando quello si avvicinò alla sua sedia, posando le mani grandi e abbronzate sui braccioli della sua sedia da lavoro e si abbassò sul suo viso, baciandolo.
«Certo che parli proprio tanto tu, eh?»
Era così vicino che poteva, per la prima volta capire di che colore fossero realmente i suoi occhi, notare la leggera barba bionda sulla mascella, scorgere qualche piccola cicatrice sul mento, quel neo sulla guancia sinistra. Si passò istintivamente la lingua sulle labbra e lo vide arrossire, mentre ancora assaporava con calma il sapore di miele che avevano le sue labbra.
«Ma dalle parti da cui vieni tu, chi faceva certe cose, non lo deportavano?» un sorriso beffardo, una mano a stringere la maglia verde scuro che gli donava particolarmente, l’altra indecisa se arrivare dietro il suo collo massiccio, da uomo.
«Io ero uno di quelli che lottava per farli smettere, se ricordi bene.»
Le mani presero coraggio e si incastrarono sul fianco e dietro la testa, quel tanto per spingerselo più vicino mentre si alzava e allungava il collo per baciarlo ancora una volta. Era alto, e gli veniva da ridere perché chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato il nonnetto a fare la prima mossa, perché non avrebbe mai pensato di poter essere tanto esaltato da un semplice bacio. Avrebbe volentieri riso se quel gesto non sarebbe stato fraintendibile, perché si preoccupava di non essere frainteso da qualcuno che stava baciando quando prima di allora poco si era curato di chi stringeva o scopava. E perché forse aveva sempre sbagliato tutto.
Era una bella sensazione, appoggiarsi a qualcuno di forte. Puntare le mani sulle spalle possenti e sapere che quelle avrebbero retto il peso di un corpo e delle sue sofferenze, che davanti si ha una persona con i gli stessi bisogni e le stesse aspettative. Era strano ma eccitante sentire braccia muscolose e addominali scolpiti contro cui spingersi.
Lo baciò con lentezza sapendo quello che stava facendo, assaporando e tastando, memorizzando.
Pensò, per un millesimo di secondo, che non sarebbe stato attento Tony Stark sarebbe anche stato capace di innamorarsi. Perché Steve lo interessava come mai nessuno era riuscito a rendersi interessante ai suoi occhi, perché lo baciava come nessuno mai lo aveva baciato, perché aveva il carattere giusto e gli occhi perfetti.
Avrebbe voluto renderlo felice, avrebbe lavorato per renderlo felice.

***

Con una decina di anni in più, Tony Stark ancora ricordava il sapore che le labbra di Steve avevano quel giorno e mai, si diceva, mai sarebbe riuscito a dimenticare il modo in cui lo aveva guardato negli occhi dopo che si erano allontanati quel poco, giusto per respirare, e lo aveva abbracciato. Sei tu, tu sei giusto gli aveva detto e all’inizio non aveva capito, aveva solo sorriso pensando che giusto fosse abbastanza.
Il tempo gli aveva fatto capire, una delle tante notti trascorse a casa Stark gli aveva dato la certezza che aspettava per terminare il suo progetto.
Era semplicemente una sera come tutte le altre, avevano ordinato una pizza e Steve era restato a guardarlo lavorare su quella ferraglia che, testuali parole sue, non aveva mai visto una simile diavoleria, senza sapere né aver voglia di chiedere di cosa si trattasse perché tanto sapeva che non avrebbe capito o che non gli avrebbe fatto capire. Poi avevano fatto l’amore e Tony si era ricordato almeno quella volta di cacciare Jarvis che sarebbe stato capace di registrare tutto come il loro primo bacio, o quella volta in cui non erano riusciti ad arrivare alla camera da letto con i mobili nuovi, quelli laccati di bianco, che avevano scelto insieme.
Si erano ritrovati, ancora una volta, a parlare del loro passato e Steve aveva finalmente confessato che il loro, era il suo vero primo bacio, che avesse un significato almeno. Lo aveva visto nascondersi sotto un cuscino, rosso in volto come un pomodoro, e uscire titubante ma consapevole che lo avrebbe preso in giro per poco. Si era anche lasciato sfuggire il nome di una certa Peggy per la quale aveva una cotta, prima di ibernarsi, e di una certa storia su di un ballo.
Ma ho fatto bene, si sentì diretu sei il compagno giusto ripeté e di nuovo la frase gli suonò sbagliata. Gli sussurrò il solito ti amo che ancora, dopo mesi che stavano praticamente insieme, gli svuotava lo stomaco, e allora capì quale era il fattore che scardinava quelle frasi. Mancava la luce, e anche se sapeva, era certo che Steve fosse sincero mentre gli diceva di amarlo mancava quel tocco di emozione che gli aveva illuminato il viso appena aveva solo accennato a questa Peggy, morta chissà quanti anni prima, ma della quale era infinitamente geloso.
Non gli bastava essere il compagno giusto. Da qualche altra parte, nella mente e nel cuore, esisteva il posto del compagno perfetto che qualcuno occupava già.
In quel momento, quella notte, decise che doveva terminare la macchina del tempo sul quale lavorava da mesi, quasi un anno ormai.
Tony si ricorda perfettamente il tono con cui gli sussurrò non avrei proprio dovuto innamorarmi di te un attimo prima di guardarlo addormentarsi con un sorriso triste, come erano sempre i suoi sorrisi. Lo baciò leggermente sulle labbra, sulla fronte, sulle spalle, sugli occhi e si alzò dal letto che condividevano quasi tutte le notti e scese nel laboratorio.
«Ha deciso, signor Stark?» la voce metallica sembrava lontana mentre si avvicinava alla sua armatura, per indossarla.
«Sì» rispose solamente, respirando pesantemente. Sapeva che quello poteva causare sbalzi temporali catastrofici, che forse senza Capitan America nel ventunesimo secolo tutto sarebbe stato più difficile, che i Vendicatori sarebbero stati più deboli ma aveva fiducia nei suoi amici, loro avrebbero capito.
«Ha solo tre minuti, se lo ricorda? Sarà teletrasportato nel punto esatto in cui era il capitano Rogers il 19 Luglio 1944, è pronto?»
Si immerse nella cabina che aveva finito di assemblare solo da qualche giorno e chiuse gli occhi per ritrovarsi nel freddo pungente del Polo Nord cercando di individuare il velivolo che di lì a poco si sarebbe schiantato tra i ghiacci. Alzò lo sguardo verso il rumore assordante di motori in avaria e si alzò in volo, stringendo i pugni.
Era tutto scritto in quei minuti, era tutto lì, nelle sue mani. E forse Capitan America avrebbe visto la seconda guerra finire, avrebbe potuto salvare più persone ed essere felice veramente. La voce di Steve, morbida e triste in quel momento si accavallava nella sua mente, Certo che parli veramente tanto tu e si alzò in volo, con il vento che chissà come riusciva a entargli nelle ossa Colpa del siero, metabolismo moltiplicato, roba così, riusciva a vedere bene adesso Ti amo, quell’aereo era grande e imponente come se lo era sempre immaginato Steve, puoi chiamarmi Steve, si mise sulla sua traiettoria e lo vide e riuscire a far atterrare quel maledetto aereo, esattamente come lo aveva visto la prima volta, sei tu, come lo aveva lasciato mentre dormiva nel suo letto dopo aver fatto l’amore. Niente.
Si scagliò contro l’aereo e ignorò i suoi sguardi spaventati, ormai ci era abituato, e lo prese di peso mentre l’aereo precipitava. Lo vide allungarsi per raggiungere la foto di una donna, appoggiata sul pannello di controllo e poi sfrecciò da dove era entrato, poggiandolo con cura sul terreno ghiacciato.
«Chi sei?» chiese allora, mentre tra la mani stringeva ancora l’amuleto con la compagna perfetta. Poi lo vide scomparire, bellissimo nell’uniforme da militare, e davanti ai suoi occhi appannati dalle lacrime il telaio di quella cabina che aveva restituito la felicità all’amore della sua vita.
Con passi lenti, calcolati, Tony lasciò la stanza nella quale Pepper stava parlando a telefono, la stessa camera che aveva rotto in mille pezzi quel giorno, che ancora gli ricordava come era stato capace di abbandonarlo su lenzuola che aveva strappato con tutta la forza che aveva corpo.
In un angolo, tra le mille creazioni firmate Stark, riconosceva ancora i pezzi che una volta formarono la sua più grande invenzione. Chiamò Jarvis con uno schiocco di dita e lui aprì i file che era riuscito a trovare sul capitano Steve Rogers, scavando nei database del governo. Il suo preferito era in una cartella trovata quasi per caso, un video in cui Steve, abbracciato alla donna della foto, ballava felice come non lo aveva mai visto.
 

Fine.

Noti a piè pagina perché mi stavo annoiando a fare lo schemino sopra, dico solo che questa foto è ufficialmente dedicata a mia moglie Beatrice (precipitiamo) che è tanto brava, che amo tanto e che ha sopportato tutti i miei scleri sul restare IC in questa cavolo di fic che mi ha fatto disperare, la canzone su è Welcome to the black parade dei MCR e che l’idea mi è venuta da un fan video del quale non trovo il link, bene. Non so che dire, adios, credo che scriverò ancora in questo fandom, sì.
Peace and superhusbands, Nana.

 

   
 
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