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Autore: Il Romanticismo Perduto    24/06/2012    5 recensioni
[Scultura]
Tratto dal capitolo:
Mani attente scolpiscono labbra, labbra da baciare, carne che promette di prendere vita.
Sfoglia dopo sfoglia l’opera si compie; polvere di marmo si attacca ai panni protettivi sparsi ovunque nella bolla di plastica eretta attorno al tavolo.
Polvere come lacrime, le stesse lacrime che l’artista piange in tributo alla sua Arte.
È un paio d’occhi chiusi il tripudio di bellezza, la linea morbida di un collo che se fosse vivo aspetterebbe solo un morso e un lungo bacio.
È pelle marmorea che si leviga attenta, morbida come se fosse vera ma permeata di fredda immutabilità.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Shoujo-ai, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Vie dell'Arte'
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Gli occhi del Marmo

Gli occhi del Marmo

 

 

Ogni giorno, da quando era il sole il padrone incontrastato del cielo, Artemiya prendeva il suo blocco degli schizzi e una matita e usciva di casa.

Bastavano pochi passi per arrivare a quegli scogli che, morsi dai raggi di luce in una danza sensuale fatta di dolore e bisogno, diventavano caldi macigni su cui sedere per osservare tutto, dalla lingua inafferrabile della spiaggia sino alla liscia cortina di nuvole turchesi che era l’orizzonte.

Era da lì che, dalle quattro di pomeriggio alle sei, ella, oltre la linea affilata dei fogli, studiava quella che presto sarebbe diventata la sua musa.

Sapeva il suo nome, e sapeva che viveva in una casa arroccata in maniera pittoresca sul muraglione di roccia che si gettava impetuoso verso il mare, salvo a fermarsi a qualche passo da esso, come una ragazzina che freni la propria discesa solo per preparare un tuffo degno di un delfino terrestre per tagliare di netto le acque salate.

Ma a parte ciò – a parte poche sciocchezze che in un paese vanno e andranno sempre per la maggiore – Artemiya nulla sapeva di lei. E, per ora, non le importava.

Bastava stare appollaiata su quella roccia ad osservarla, così come ogni giorno, mentre lei, nella sua metamorfosi giornaliera, prendeva il sole, o camminava, o s’immergeva nell’acqua per sparire solo qualche minuto alla vista, il tempo concesso all’artista di imprimere nella mente ciò che avrebbe dovuto correggere a casa, su quel ciocco di terra da trasformare in arte.

Ecco, come per volere di un caso birichino, che la schiena di lei si alzava.

Artemiya smise di colpo il lavorio sul suo foglio immacolato, in attesa. La pelle della donna era brunita dall’energia pulsante del sole, e sotto di essa si potevano notare – poiché l’artista era a pochi passi da lei, a muovere le gambe nel vuoto come una bambina – il guizzare dei muscoli allenati, che rendevano il suo fisico asciutto e scultoreo attorno al costume bianco che quel giorno indossava. Artemiya sorrise. Era proprio il giusto aggettivo da darle: scultorea. Solo che lei non lo sapeva. E mai avrebbe dovuto saperlo.

Sollevò non pochi spruzzi gettandosi in acqua, con una perfetta geometria che andò a colpire la polla tutt’intorno, come formando la conchiglia perfetta per la sua risalita. Artemiya sapeva cosa aspettarsi, e vide il cerchio perfetto venire eluso dalla nuotatrice, che con un paio di energiche bracciate si spinse lontana, riaffiorando alcuni metri più in là.

Aveva abbandonato sul telo da spiaggia i suoi occhiali scuri, accanto ad un groviglio di abiti che, a giudicare dall’aspetto, erano un paio di bermuda fini e una canottiera.

I suoi occhi erano ancora un’incognita per l’artista. Certo, li aveva incontrati spesso, anche in paese, le rare volte che quella donna vi si era trattenuta, ma sembravano troppo surreali per essere riprodotti. Troppo artistici. Troppo…belli.

Artemiya arrossì, e diede la colpa al gran caldo. Era in pantaloncini e fascia, giusto per non attirare su di sé troppa curiosità – la sua camicia da lavoro sarebbe stata su quella spiaggia come le scarpe da tennis ad un matrimonio. Eppure un’ondata di spezia sanguigna le aveva insaporito le gote, lasciandovi sbocciare un intero cespuglio di roselline selvatiche.

È normale, arrossire al pensiero dell’oggetto della propria arte. Nessuno mai vorrebbe rappresentare qualcosa di brutto per il suo occhio interiore; era l’ammirazione dell’artista.

Con passi leggeri nonostante la prestante forma fisica che pareva di poco inferiore a quella di una nuotatrice professionista, la donna era tornata. Lanciò un’occhiata alla ragazza appollaiata sul suo trespolo e si sedette sul telo.

Era sempre lì: arrivava alle 16.30 e rimaneva là ad osservare il mare quando lei tornava a casa. Chissà cosa se ne faceva, di tutti quei fogli intensamente scribacchiati. Forse era una poetessa che viveva solo dell’immagine del mare. Oppure una pittrice, che nella sua follia dipingeva solo onde.

Elisa sorrise. Con quei capelli d’oro, sempre legati mollemente, e le distese di pantaloncini a fiori e jeans bordato in pizzo, era l’emblema della giovane artista folle.

Con un fruscio, era ripreso il suo lavoro. Gettò la testa indietro, Elisa: cullata dai graffi della mina sul foglio, si lasciò afferrare dal calore solare.

 

La sera, lì davanti al mare, si manifestava come lo spettro di una signora in abito da sera che camminasse con grazia e sicurezza per le strade. alla luce della lampada, Artemiya lanciava occhiate sorridenti alle lingue d’acqua che, dalla vetrata del suo studio, poteva vedere: lunghe dita di spuma che stracciavano la notte intensamente blu per accarezzare la sabbia.

Sul tavolo, dinanzi a lei, stava un blocco di marmo. Non era grande, eppure su di esso si stendevano lunghe linee di grafite che, con continue onde e spaccature, formavano l’immagine che presto si sarebbe formata.

L’immagine di una donna.

Gli strumenti per incominciare la scultura erano lì sul tavolo, ma Artemiya era ancora titubante. Le morbide linee di quel volto si dispiegavano lì, davanti a lei, sciogliendosi e ritrovandosi sin dove la matita si era spinta, in un punto imprecisato del collo, dove segnature e numeri coprivano lievi la patina della roccia.

Non era perfetta la sua opera, anzi, presto sarebbe stata rovinata. Nulla avrebbe potuto realmente uguagliare la bellezza della sua musa, che era diventata puro spirito per lei, e a sua insaputa. Non era ancora stata iniziata la sua opera, che presto sarebbe morta. Sarebbe bastato un colpo affrettato di punta, e tutto si sarebbe sciupato.

Quante notti avrebbe gettato via prima di dover dire addio alla prima opera seria che si era prefissa di compiere…?

Artemiya si riscosse, allungando la mano. Si legò attorno al naso e alla bocca il suo foulard da cui, un tempo, occhieggiavano mazzolini di menta, la mascherina migliore che avesse mai scoperto di possedere. Si calò sugli occhi color smeraldo gli occhiali di protezione e corrugando la fronte, si fece coraggio.

La prima venatura nel marmo venne incisa, e fu capolavoro.

 

Ormai non c’era più bisogno di recarsi alla spiaggia ogni giorno, eppure il canto melodioso del mare era una forte tentazione. Dopo aver lavorato per tre giorni, la maschera di marmo aveva già preso consistenza, e sembrava essere permeata della regalità dei Prigioni non-finiti di Buonarroti, con le sue curve sinuose che sbucavano come un parto dalla ruvidezza della madre roccia.

Artemiya si diede a bassa voce della sciocca, coprendo la scultura con un panno morbido e profumato di marsiglia. Era sì appena più che un bozzetto, quell’opera, eppure non poteva certo essere comparata agli Schiavi di Michelangelo. Ancora molta strada prometteva di attenderla verso la perfezione della sua arte, e probabilmente non sarebbe stata capace di vivere abbastanza per arrivare alla meta.

Concedendosi un’ora di riposo, attraversò la strada che passava rapida tra il suo giardino e la spiaggia. Scese le scale sciogliendo il pareo che copriva il suo costume, e stese il telo poco lontano dal masso che tanto spesso l’aveva ospitata. La sua musa, stranamente, non c’era.

Turbata, Artemiya si portò le dita sulle labbra. Che fosse stata appena una visione? Lei era stata là ogni giorno, più di quanto avesse creduto possibile, solo per darle la possibilità di creare quel modesto, frivolo lavoro?

La bionda respirava l’aria pregna di salmastro e sole riflettendo sulla stranezza cui era spettatrice. Aveva seguito per molti anni la propria passione per l’arte, ma mai aveva creduto a quei discorsi sullo spirito sublime che verrebbe in soccorso ai suoi eletti nel loro più grande momento di stasi. Non era che una donna quella che aveva silenziosamente scelto come modella, non era altro che un essere di carne e sangue. E non era di certo rivissuta nel suo blocco di marmo per svanire da quella spiaggia.

«Sei scesa dal tuo trono per mescolarti con tutti questi mortali?»

Una voce sconosciuta la fece trasalire, e i suoi occhi scattarono verso la persona che – apparentemente – aveva parlato a lei.

Stagliata contro il sole c’era una figura alta, che però non era che una macchia di colore scuro per gli occhi della giovane.

«Scusi, dice a me?» chiese Artemiya, portandosi una mano a parare i raggi solari.

Non servì a nulla, perché subito la figura si mosse e si mise a pochi passi da lei. Uno sbuffo di capelli castani si avvicinò al terreno mentre spiegava uno scampolo di spugna, e Artemiya notò qualcosa di familiare in quelle ciocche disordinate ma all’apparenza morbide.

«Non sei tu la ragazza di fronte alla spiaggia, quella che stava sempre qui sopra a schizzare roba da artisti?» chiese la Musa, alzando il viso sorridente.

Artemiya si piegò in modo da allontanarsi lievemente da lei, colta di sorpresa. Ecco, si sentiva nuovamente cremisi. Rantolò in cerca d’aria, ma solo un sorso di ossigeno bollente le scivolò nei polmoni.

«Ah…ah già…» rispose, abbassando la testa. La treccia bionda le cadde sulla spalla.

«Beh, spero che non ti spiaccia che io mi metta qua. È diventato un po’ il mio angolo preferito questo…ma forse non ti sei accorta che qui sotto ci stavo sempre io»

La donna non smise mai di sorridere, come se in fondo non le importasse realmente di parlare con lei. La trattava come se fosse stata una ragazzina alla bottega, una di quelle creature che non si conosce ma che si sa sempre come chiamare. Artemiya lasciò cadere il discorso, e lei non se ne dispiacque. Iniziò a spogliarsi con tranquillità, senza accorgersi di come gli occhi della bionda andavano a cozzare contro la sua figura.

Non era mai stata tanto vicina prima d’ora alla pelle che aveva cercato di ricreare nel minerale. Ecco, un velo di seta dorata che si scansava dalla stoffa, tesa morbidamente sulla carne che aveva ricreato con tanto sforzo sulla pietra. Le gambe toniche, le braccia muscolose, i fianchi misurati. Tutto ciò poteva essere racchiuso in una scultura molto migliore di quella che riposava nello studiolo davanti al mare.

La donna si tolse gli occhiali, e il suo sguardo incrociò quello di Artemiya. Erano occhi scuri, ricchi d’espressione. Pagliuzze dorate li rifinivano, ma la giovane artista non era pronta a giurarci.

«Qualcosa non va?» chiese la donna.

«No…perdonami, solo…mi ero incantata» disse precipitosa la ragazza, fissando gli occhi sul mare. Senza essere vista, la donna sorrise. Si sedette sulla morbidezza del telo posato sulla sabbia, e sospirò.

Artemiya attese il trascorrere di alcuni minuti prima di arrischiarsi ancora a guardarla. Non le piaceva dimostrarsi così morbosa, eppure quella donna era una calamita per lei. Se si fosse lamentata, le sarebbe bastata la giustificazione più vera che poteva fornirle? “Non posso smettere di studiarti, sei la mia Musa!”

Una brezza tiepida le scompigliò i capelli, tagliati corti e rilucenti di lampi scuri sotto il sole. I suoi occhi erano chiusi, e le lunghe ciglia posate sulla sua pelle abbronzata come per riposare. Aveva le labbra carnose e rosse, un po’ trasfigurate dall’intensa doratura di tutto il suo corpo.

«Tu sei la ragazza della villa all’Acqua Fredda, vero?» chiese Artemiya, tornando ad osservare i suoi occhi. Le palpebre non s’alzarono.

«Esatto» rispose semplicemente lei.

La bionda annuì. In fondo lo sapeva già.

«Tu sei la ragazza della casa qua dietro» constatò l’altra.

«Già…» rispose Artemiya. «Come lo sai?»

«Una ragazzina che vive sola in una casa così grande e bella, immersa nel quadri e nelle sculture, in un paese come questo fa un po’ di storia, no?»

Artemiya non ci aveva mai pensato. Aveva sentito tante voci sul conto di quella donna, ma non aveva mai azzardato l’ipotesi che voci simili girassero anche riguardo a lei. In fondo, un’artista era eccentrico per natura e solingo per sentito dire, ma che poteva farci lei se nel suo caso le due argomentazioni si incontravano?

«Quella coi tredici gatti nel giardino e la mania per l’arte…» aggiunse la donna.

«Otto» mormorò sovrappensiero Artemiya.

L’altra la guardò in tralice, aprendo di poco un solo occhio.

«Eh?» chiese.

La bionda la guardò e sorrise, come accorgendosi solo ora di aver parlato. Il tipico rossore dei fiori di pirus sulle gote.

«Klaus, Wigelia, Babùt, Pochi-chan, Mirtilla, Torçonne, Santippe e Maurice» spiegò. «Sono otto, i gatti che vivono assieme a me»

La donna mora sgranò gli occhi e fischiò, in simbolo di apprezzamento.

«Ti daranno un gran daffare» disse, rimettendosi comoda.

«No, sono piuttosto autosufficienti. Beh…sono gatti. Almeno, danno un po’ di compagnia» sorrise Artemiya. «Babùt aspetta cuccioli, poi…»

«Una grande famiglia» concluse l’altra.

L’artista rimase ad osservare l’ombra della propria testa che si proiettava sulla sabbia.

«Mi chiamo Elisa» disse la mora all’improvviso. Era sempre sdraiata a pancia in su, un braccio elegantemente piegato sotto la testa. Artemiya lasciò correre lo sguardo sulla sua figura prestante prima di rispondere.

«E io Artemiya. Conoscevo già il tuo nome, comunque»

Elisa si mosse un po’ scocciata.

«Giusto: le voci sussurrano anche di me. In questo paese ci sono più fantasmi chiacchieroni che formiche»

«Se io sono l’artista folle con la fissa dei gatti, tu sei quella che si porta a casa le ragazze la notte e poi non le rivede più…» disse calma Artemiya.

Elisa tacque, ma la ragazza non volle riempire un silenzio non suo con altre parole. Quella donna bella e sensuale non si era accorta dell’amore artistico che ispirava, né che nelle sue parole non v’era nulla se non un dato di fatto.

«Non ho mai detto che sei folle, almeno» sussurrò infine, e Artemiya sorrise prendendo quelle parole come la zip che chiudeva silenziosamente quel discorso.

Elisa si alzò lentamente, facendo leva sulle proprie ginocchia. Quando fu in piedi mosse un paio di passi diretti verso il mare: Artemiya stava per assistere ad uno dei suoi tuffi così aggraziati che la portavano per un istante nel mondo delle naiadi.

Ma Elisa di colpo si fermò e barcollò sul posto.

La bionda la raggiunse in fretta, prendendole le mani.

«Che succede?» domandò, osservando il suo viso. Una piccola smorfia lo turbava, e i suoi occhi erano socchiusi alla ricerca della stabilità.

«Un piccolo mancamento…ma è già passato» rispose, osservandola oltre la schiera di ciglia nere e accennando un sorriso.

«Stare al sole non ti fa bene…vieni in casa da me, lì è fresco…» disse Artemiya, senza fidarsi a lasciarle le mani.

Elisa ridacchiò piano.

«Siamo già abbastanza cariche di dicerie, non trovi?» mormorò.

«Dicerie o verità?» chiese la ragazza. Gli occhi scuri della donna fiammeggiarono per un istante, colpiti, ma poi si abbassarono, ammettendo che, in fondo, quelle ragazze c’erano state, proprio come i gatti infestavano la grande casa davanti alla spiaggia.

«Quindi, per favore, seguimi. E no, non prendere nulla se non il mio braccio.»

Il tono autoritario di Artemiya ingiunse ad Elisa di aspettare una manciata di secondi appoggiata ad un punto in ombra dello scoglio, guardando divertita quella strana ragazza che si chinava a raccogliere in un fagotto tutto ciò che avevano portato in spiaggia.

Nonostante lo stordimento, Elisa poté constatare che era bella. Magari non la bellezza che ci si aspetta da una ragazza, ma una di quelle bellezze lievi e gentili, che correva lungo la sua linea mentre si caricava di indumenti non suoi e si avvicinava a lei, prendendola a braccetto forzatamente e facendole salire le scale.

Dopo aver attraversato la strada, all’ombra di un enorme cespuglio di bella-di-notte, Elisa sorrise.

«Di solito non sono io quella che si fa tenere a braccetto, sai?» disse, ghignando di ironia.

Artemiya la fulminò, sbattendosi alle spalle il cancelletto.

Un grande gatto fulvo sopraggiunse, lanciando un unico miagolio.

«Levati, Santippe…» mormorò la bionda, avanzando verso la prima entrata.

Trasse la chiave da quello che pareva tanto un luogo segreto, ed Elisa stava per lamentarsi della sua ingenuità quando si rese conto che il gesto di lei era stato così veloce da nona verle neppure dato il tempo di vedere da dove fosse sbucata la chiave.

All’interno della casa c’era un fresco rasserenante, e insieme entrarono in quel cerchio di ombra, seguite da Santippe, che si eclissò in un angolo remoto dell’abitazione.

«Ora facciamo le scale, ma almeno non sono quelle di fuori perché passano al sole, ok? Te la senti?» chiese Artemiya.

«Sì…in questo buio non mi va molto di rimanere» disse Elisa, sentendosi osservata.

«Non preoccuparti» la rassicurò la bionda, cogliendo i suoi pensieri. «Sono solo statue.»

Le sorrise, ed Elisa rispose, un po’ titubante, ma rasserenata.

Arrivarono ad un pianerottolo baciato da più luce, aperto in una grande vetrata che incorniciava la strada, le punte della vegetazione del giardino, e poi i massi, e la spiaggia dorata, fino ad immergersi in una distesa d’acqua di un azzurro infinito…il mare.

Elisa rimase impressionata.

«Da là sotto non è così bello, vero?»  chiese Artemiya, accompagnandola sino ad una sedia.

«Che bella vista…perché non dipingi qui i tuoi quadri?» chiese la donna, spostando la propria attenzione dal mare alla ragazza, che svanì per un momento nella stanza affianco, e poi tornò con un grande bicchiere d’acqua.

Glielo porse, e lei la ringraziò prima di berlo lentamente ma con voracità.

«Quadri? Ho smesso i quadri tanto tempo fa…» rispose senza pensare Artemiya, prima di tacere rendendosi conto di essersi tradita.

Elisa aggrottò un sopracciglio.

«E allora che ci fai su quel masso scomodo a disegnare ogni santo giorno?» chiese, sorridendo divertita.

Artemiya arrossì, e le prese di mano il bicchiere, andando a riempirlo di nuovo.

Elisa, mentre lei era lontana, scosse la testa, sorpresa da quanto strana fosse quella donnina: ancora più di quanto si era aspettata.

Il fresco della casa e l’acqua le aveva dato un po’ di forza in più, e così poté voltare la testa per osservare l’ambiente senza che il corpo la tradisse.

Era una stanza graziosa, in cui elementi moderni si mischiavano con ricordi di epoche passate riportati alla vita con olio di gomito. La grande vetrata, che sembrava proseguire sino alle altre stanze, che non erano chiuse da porte, assicurava una luce soffusa, come se una barriera cristallina permettesse di spezzare e scindere i raggi solari in modo da renderli solo un tenue bagliore luminescente.

Dietro di sé, Elisa scorse una grande libreria, accanto a cui vi era un caminetto elettrico dall’aria costosa, davanti al quale ora, nell’estate più calda, v’era un vaso pieno di fiori lussureggianti.

A pochi passi da lei, invece, c’era un lungo tavolo da lavoro. Era bianco, come un po’ tutto là dentro: su di esso non c’era altro se non una lampada, una grande lente d’ingrandimento incastrata in un cavalletto, una valigetta laccata d’argento e una massa informe che, al di sotto di un panno, pareva solida.

Spinta dalla curiosità, Elisa si alzò, volendo saggiare il proprio corpo. Stava molto meglio, ora. Allungò una mano sopra il panno, e stava per scostarlo quando Artemiya ritornò.

«No!» esclama lei, la voce argentina densa di preoccupazione. La donna la guardò interrogativa.

«Non guardare, per favore…» le chiese, posando rapidamente il bicchiere di nuovo pieno lì, sul tavolo. Aveva delle goccioline sul viso, notò Elisa. Si era sciacquata le gote.

«Questo è un tuo lavoro?» chiese.

Artemiya annuì.

«Va bene…ti ringrazio per l’acqua» disse Elisa, e prese il bicchiere per portarselo alle labbra.

«Figurati…» sussurrò Artemiya, prendendo tra le braccia il fagotto. La sua mente cadde in subbuglio cercando un luogo nascosto in cui mettere la scultura; poi le venne in mente la cassaforte in corridoio.

«Arrivo, ok? Sta qui…» disse, e si affrettò verso la seconda uscita dalla stanza.

Il masso pesava, e lei lo teneva su a forza, ma non volle chiedere aiuto alla ragazza. Era quasi arrivata al corridoio quando una palla di pelo le sfrecciò tra le gambe, facendola quasi cadere. Lanciò un’imprecazione, e Elisa scattò verso di lei, aspettandosi di vederla cadere, ma la bionda la tranquillizzò con un gesto. Era tutto a posto.

Ma non poteva prevedere che Pochi-chan stava fuggendo dalle ire di Mirtilla, e fu sul suo corpicino color nocciola che perse l’equilibrio.

Cadde pesantemente a terra, reggendo la scultura in una comica impresa di salvataggio. La gatta corse via ancor più rapida vedendo il disastro, quando Elisa attutì la caduta di Artemiya afferrandola.

La scultrice tirò un sospiro di sollievo. Poi vide con orrore il panno, che giaceva poco più in là.

Elisa era fissa a guardare il marmo che teneva tra le braccia e che, per un lato, l’aveva graffiata. Un lembo di pelle del braccio bruciava, ma Artemiya lasciò cadere una lacrima non per il dolore, ma per l’essersi mostrata così debole di fronte alla sua Musa.

Una Musa…non dovrebbe mai vedere un’opera da lei sortita.

Artemiya si rimise dritta, il viso abbassato e rosso. I singulti la scuotevano, ma Elisa vedeva solo il proprio viso. Era come essere davanti ad uno specchio…ma mai le era capitato di vedersi così.

 

Mani attente scolpiscono labbra, labbra da baciare, carne che promette di prendere vita.

Sfoglia dopo sfoglia l’opera si compie; polvere di marmo si attacca ai panni protettivi sparsi ovunque nella bolla di plastica eretta attorno al tavolo.

Polvere come lacrime, le stesse lacrime che l’artista piange in tributo alla sua Arte.

È un paio d’occhi chiusi il tripudio di bellezza, la linea morbida di un collo che se fosse vivo aspetterebbe solo un morso e un lungo bacio.

È pelle marmorea che si leviga attenta, morbida come se fosse vera ma permeata di fredda immutabilità.

 

Artemiya si allontanò da Elisa e posò di nuovo il bozzetto sul tavolo, correndo poi via, gridando il nome della gatta che l’aveva spinta a terra. Elisa, toccando le labbra di quel volto – il proprio volto, le proprie labbra – sorrise commossa.

Si voltò, seguendo la scia della voce della ragazza. Abbandonando lì l’opera la seguì, e camminando in una casa che mai aveva visto raggiunse una porta spalancata.

In mezzo ai cespugli c’era Artemiya, che piangeva.

«Mirtilla…vieni subito qui, gatto maledetto!» urlò, la voce spezzata.

Elisa non disse nulla. Le si avvicinò soltanto, senza che lei si scostasse. Le posò un dito sulle labbra per fermare quelle urla. Gli occhi di Artemiya, arrossati, la guardavano. Erano lucidi e pieni di vergogna, e non si raccapezzavano di quel volto in estasi che avevano davanti.

D’improvviso, Artemiya si ritrovò tra le braccia di Elisa. Un lungo bacio le avvolse, un bacio che lasciò Artemiya ad occhi aperti e immobile nell’abbraccio morbido di Elisa.

Davanti al suo sguardo, la copia esatta della sua opera.

Quella donna perfetta, gli occhi chiusi, il volto disteso, che le baciava con dolce passione la bocca.

Ma non era freddo quel contatto, non era duro e immobile. Lentamente, anche Artemiya si sciolse, e accolse il bacio di Elisa.

Con lentezza si allontanarono poi, dopo che mille nuove lune si riversarono su di loro. Elisa sorrise e le prese la mano, portandola in casa.

La porta rimase aperta, e dopo qualche minuto che le due donne erano svanite, Mirtilla vi si accostò. Un turbine di parole spezzate e sussurri arrivarono alle sue orecchie feline: forse la padrona non era più arrabbiata. Una pressione lieve la fece scattare: Pochi-chan si era appoggiato a lei per annusare l’aria, inguaribile curioso nella sua livrea di lucido corvino. Mirtilla, con una rapida zampata, lo fece correre via nuovamente, e il loro inseguimento ricominciò.

Nello studio, la scultura era immersa in un aurea dorata. Forse il tramonto era ancora lontano, eppure la luce si faceva di secondo in secondo più lieve e morbida. Dalla stanza da letto, la cui porta era nascosta dalla libreria, provenivano i sussurri che avevano attirato i due felini litiganti. Parlavano d’amore, di passione scrosciante. Ma erano come una statua.

Promettevano di cementarsi tra quelle mura per molti, molti anni.  

   
 
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