Echo.
«Sometimes
when I close
my eyes I pretend I'm alright
but
it's never enough.»
Aveva
sempre amato viaggiare, andare in giro per il mondo da bambina era il
suo sogno
più grande e si era sempre detta che un giorno sola o
accompagnata sarebbe
partita per chissà dove. Diceva che questa
era una delle cose che voleva fare prima di morire. Nella
lista di cose da
fare prima di morire c’erano così tanti punti da
non poterli ricordare neanche
tutti in una volta sola, ogni tanto gliene veniva in mente uno ma non
aveva mai
pensato a fare una vera e propria lista.
Quando
suo padre tornò da uno dei suoi innumerevoli viaggi per
lavoro le portò una
moleskine completamente nera. «Magari
adesso potrai annotare i tuoi sogni», le aveva
detto. L’aveva guardata con
curiosità, aperta e chiusa innumerevoli volte ma non ci
aveva mai
effettivamente scritto nulla. Ogni volta che la vedeva lì,
sul comodino si
fermava qualche momento a guardarla e poi non ci pensava
più. Quell’agendina
passò si e no due mesi chiusa e completamente bianca su un
mobile qualsiasi
della sua camera o passata da una borsa all’altra. Le piaceva
tantissimo
portarsela in giro, pensava che prima o poi l’avrebbe aperta
e ci avrebbe
scritto su qualcosa e, nonostante non se ne dimenticasse mai e la
prendesse
sempre in mano non le veniva mai niente e la riponeva ordinata come
l’aveva
presa. Tutti i suoi amici le chiedevano di farli leggere qualcosa ma
lei rispondeva
sempre che non le andava, che erano fatti
che riguardavano solo lei, cose importanti e segrete: si
sentiva stupida
anche a dire che non ci aveva mai scritto
nulla.
Una
sera era al parco. Sola, senza nulla da fare ma comunque tranquilla. Si
guardava attorno silenziosa ed ascoltava il rumore della
città che la
circondava, guardava le luci che illuminavano le strade e i fari delle
auto che
facevano luce sulle siepi che aveva tutt’attorno. Tra i mille
pensieri
ricevette una telefonata che le cambiò drasticamente la vita.
Si
alzò in piedi e iniziò a correre, il
più velocemente possibile verso quella
casa che l’aveva vista crescere, da quei genitori che le
avevano dato forza per
diciassette lunghi anni. Il fumo si vedeva in lontananza e
iniziò a sentire il
cattivo odore un paio di strade più in là. I
rumori erano assordanti, le voci
confuse e le fiamme talmente alte e calde che iniziò a
sudare come in una
giornata rovente d’estate. Vedeva le finestre cadere in
pezzi, le tegole del
tetto schiantarsi a terra e le assi della veranda piegarsi su se
stesse. Le si
avvicinò un uomo in uniforme da vigile del fuoco che le
chiese se lei fosse la
figlia dei Carter. Rimase immobile, non rispose e di conseguenza
l’uomo annuì e
mettendo un braccio attorno le sue spalle la condusse ad uno dei loro
grandi
furgoni facendola sedere. Le fece tantissime domande a cui lei non
rispose se
non con un cenno della testa. Non riusciva neanche a piangere e
pensò che tutta
l’acqua che aveva in corpo la stava sudando.
I
lunghi capelli neri erano schiacciati sul viso e sul collo e i grandi
occhi
verdi erano persi nel vuoto. L’uomo le consigliò
di entrare nel furgone e
dormire per evitarle il peggio. Dopo aver alzato lo sguardo per la
prima volta
annuì e facendosi aiutare entrò dentro e si
rannicchiò in un angolo chiudendo
gli occhi, pensando a momenti felici, cercando con tutte le sue forze
di non
sentire il baccano che facevano fuori, di non vedere l’ombra
delle fiamme che
tingevano di rosso i finestrini del grande camion.
Quando
aprirono le portelle il sole splendeva e un venticello fresco le
accarezzava il
volto. «Belle?»
l’aveva chiamata l’uomo
della sera prima. Lei aveva aperto gli occhi e aiutata era scesa dal
camion
posando i piedi sull’asfalto che le sembrò un po
instabile. Guardandosi attorno
era rimasta sconvolta. Più di un centinaio di persone la
fissavano piangendo,
con gli occhi lucidi oppure solo commosse. Fece qualche passo avanti e
si voltò
verso casa sua o meglio, quello che rimaneva di casa sua.
A
quel punto nessuno le impedì di iniziare a piangere, niente
sudore, niente
shock. Iniziò a correre verso la sagoma grigiastra della
quale non riusciva a
vedere i contorni dati gli occhi appannati dalle lacrime. La veranda
era completamente
distrutta e solo con un po di attenzione riuscì a
riconoscere uno stralcio
della stoffa usata per rivestire i divanetti che avevano sistemato suo
padre col
nonno tantissimi anni prima. Le peonie che sua mamma aveva coltivato
con tanta
cura erano sparite lasciando posto ad un mucchietto di cenere.
L’acchiappasogni
che aveva fatto quando aveva sei anni era a terra con le piume
bruciacchiate
mentre lo zerbino verde di erba finta non lo riusciva neanche
più a
riconoscere. Facendo attenzione scavalcò
quell’ammasso di macerie ed entrò in
casa, tra quelle mura bianche che una volta erano decorate con la carta
da
parati panna, quella che avevano scelto con la madre. Si
guardò attorno e
iniziò a raccogliere oggettini che trovava qua e
là: un pezzo di una delle
cornici appoggiate sul tavolino di legno che al momento vedeva come un
ammasso
scuro ed accartocciato, la manina dell’angioletto che avevano
usato alla sua prima
comunione come bomboniera e altre piccole cose un po bruciacchiate ma
ai suoi
occhi ancora più belle e preziose. Andando in giro per le
stanze si accorse che
alcune erano mezze vuote, forse perché i vigili del fuoco
avevano portato via
le cose pericolose o semplicemente bruciate perché ormai da
buttare. Nella sua
stanza erano rimasti soltanto la sedia girevole e il comodino di pietra
che
avevano comprato ad una fiera dell’usato. Se ne era
innamorata subito e aveva
pregato i suoi genitori così tanto che alla fine glielo
avevano comprato.
Avvicinandosi si rese conto che era illeso e facendo attenzione
aprì uno dei
tre cassetti. Tutto era come lo aveva lasciato e un grande sorriso si
fece
spazio tra le guancie bagnate. Iniziò a rovistare ritrovando
cose preziose che
non avrebbe mai voluto perdere. Quando aprì il secondo
spalancò occhi e bocca
contentissima. «La mia moleskine!»
aveva urlato, skine, skine, ine.. aveva
ripetuto l’eco della stanza ormai vuota. Si guardò
attorno ascoltandolo
attentamente e aprì l’agendina. In un primo
momento si trattenne a sfogliare le
pagine bianche ma poi prese la penna e sulla prima pagina scrisse
“echo”. Sorrise
e la chiuse per poi
dirigersi fuori. Erano ancora tutti lì che la guardavano
dispiaciuti e immersi
nelle lacrime. «Vieni, ti portiamo
da..»
«Sono sola. I miei erano figli
unici, i
miei nonni non ci sono più. Sono sola.»
lo interruppe calma. Una qualità
che la contraddistingueva dall’ammasso di ragazzine della sua
età era il saper
nascondere le emozioni perfettamente. Quando finì di parlare
l’uomo la guardò
stupito e poi cercò lo sguardo di un suo collega col quale
si scambiarono due
parole velocemente. «Ti portiamo
alla
centrale allora.» le disse l’altro
venendo vicino a lei con un sorriso
amabile e tranquillizzante. Questo era molto giovane, sarà
stato cinque o sei
anni più grande di lei. Annuì e si
voltò di nuovo verso casa sua. «Dovunque
andrò, voglio che il mio comodino
venga con me sempre.» disse dolcemente e entrambi
gli uomini andarono verso
la casa dalla quale uscirono un paio di minuti dopo con il comodino in
pietra grigia che
caricarono sul camion.
Quello dopotutto era l’unico ricordo intatto di casa sua,
della sua vecchia
vita. Ringraziò di cuore i due che dopo averla aiutata a
salire si diressero
verso le portelle del posto di guida. Quando queste si riaprirono il
paesaggio
era cambiato davvero tanto. Al posto di alberelli e aiuole
c’erano alti
cancelli di ferro con filo spinato e un grande cortile senza alcun tipo
di
vita. Le mattonelle tutte ugualmente grigie mettevano tristezza. Rimase
quasi
tutto il giorno seduta su una sedia dell’ufficio di Sam, il
ragazzo giovane che
le aveva annunciato la sua sorte per il resto della giornata. Quando
entrò le
sorrise e le si avvicinò cauto. «Sinceramente
non sappiamo ancora dove poterti mandare a stare ma stiamo facendo il
possibile
per contattare qualsiasi tipo di istituto. Fino a quel momento non
potrai certo
stare seduta qui quindi se non ti dispiace vieni con me.»
le disse
sorridendogli ancora. Era così dolce e gentile, le ricordava
molto una figura
fraterna, quella che aveva sempre desiderato. Si alzò
timidamente e lo seguì
fino fuori lo stabilimento. Lì la aspettavano
l’uomo di quella mattina ed una
signora che apparentemente sarebbe sembrata sua moglie. Le sorrisero
entrambi. «Vorresti venire a stare
da noi per un po?»
chiese la donna. Lei annuì anche se con sguardo
interrogativo. «Sono i miei genitori.»
le spiegò Sam.
Annuì di nuovo e si lasciò guidare in macchina e
poi a casa delle belle persone
che avevano accettato di tenerla con loro. La sistemarono nella stanza
degli
ospiti e le fecero trovare tutte le comodità ma nonostante
tutto si sentiva tremendamente
sola e infelice.
Ogni
tanto sentiva nelle orecchie le ultime parole che sua mamma le aveva
detto al
telefono e poi vedeva davanti a se momenti belli e indimenticabili
passati con
le uniche due persone che l’avevano sempre sostenuta, che
erano stati i suoi
unici amici e confidenti. Doveva tutto a due persone che non avrebbe
mai potuto
ripagare come avrebbe voluto.
«Hello, hello
anybody
out there?
'cause
I don't hear a sound
alone,
alone
I don't really know
where the world is but I miss it now.»
Fine.
Ok,
One-Shot alquanto random su fatti molto random con tema la canzone
più bella
del mondo.
Echo
di Jason Walker attualmente per me è la canzone
più bella del mondo, si v.v Me
ne sono innamorata follemente come Belle si era innamorata del comodino
di
pietra (piangiamo tutti insieme).
Spero
vivamente che vi sia piaciuta e che non vi sia sembrata una demenziale
storia
idiota, di quelle che si trovano dappertutto. Siate buoni, vi prego.
Detto
questo vi saluto e vi ringrazio per averla solo letta:3
Bacioni,
Frah♥