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Autore: LazySoul    25/06/2012    3 recensioni
Dal testo:
«Non voglio farti del male, Helena» mormorò, facendo un passo esitante verso di me.
Sentii immediatamente il freddo che albergava nel mio cuore scaldarsi.
Il mio nome sulle sue labbra era tremendamente dolce, scivolava fuori dalla sua bocca in modo quasi provocante, sembrava avermi promesso la vita eterna con quel semplice suono; ne rimasi incantata.
Provai l’istinto di abbracciarlo e di piangere ancora, ma non lo feci.
Rimasi ferma immobile a fissarlo, sentendo il cuore impazzito e i muscoli tesi...
[2° classificata al contest: "Love Never Fail-Quando anche cupido sbaglia" indetto da Flaren97]
Genere: Malinconico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lost Memories_Lazysoul

Nick Autore: LazySoul (EFP), Lisa.96 (forum)

Titolo: Lost Memories

Rating: Arancione

Genere: Romantico, Storico, Malinconico, Sentimentale

Note/Avvertimenti: One-shot

Introduzione: L’unica cosa che si ricordava della sua intera esistenza era il suo nome: Helena. Tutto il resto erano pagine di un libro non ancora finito di scrivere, che faticava a mettere a fuoco. Avrebbe voluto che quello fosse solo un enorme incubo, ma non era così. Chi erano quegli uomini in uniforme che vedeva fuori dalle finestre? E quel soldato, entrato nel casotto in cui si trovava, era un amico o un nemico? Molte domande si affollavano nella sua mente, ma una in particolare la ossessionava: “Chi sono io?”

NdA: Nel testo si alternano i ricordi (in corsivo) con ciò che sta succedendo nel presente (scrittura normale), spero che si capisca tutto. Buona lettura!

 

 

 

Lost Memories

 

 

Primavera, 1945

 

 

Era cambiato tutto da quando avevo aperto gli occhi, o almeno così mi sembrava, dato che in realtà non ricordavo niente del passato tranne un nome: Helena.

Era il mio nome?

Si, probabile.

Eppure il dubbio si fece largo tra i miei pensieri mentre mi guardavo intorno e capivo dove mi trovavo: era una stanza buia e l’unica fonte di luce filtrava da una piccola finestra ricoperta con della carta di giornale. Mi trovavo su un materasso con le molle distrutte e accanto a me vedevo un piccolo tavolino di legno scuro e pieno di buchi, avevo freddo e quella piccola e leggera coperta, che qualcuno mi aveva probabilmente gettato addosso, non mi copriva abbastanza per farmi sentire anche solo un po’ al caldo. L’aria era pesante e dalle pareti si vedevano cadere frammenti di vecchia vernice.

La solitudine era tremendamente soffocante, eppure non mi sarei fatta prendere dal panico, avrei combattuto, avrei fatto di tutto pur di fuggire o anche solo di capire che cosa mi stava succedendo.

Mi sollevai appena, facendo leva con i gomiti e cercando di abituare la vista al buio per poter scorgere qualcosa di più di quello che mi circondava.

Riuscii a distinguere una bottiglia di vetro mezza rotta a terra e poco distante un’altra brandina vuota, una scatola di fiammiferi, alcune candele spezzate o del tutto consumate, un piatto sporco e unto e un libro aperto a metà con alcune pagine strappate accanto.

Tutti quegli oggetti mi fecero sentire ancora più sola e perduta.

Mi alzai in piedi tenendomi stretta intorno al corpo la coperta bucherellata che rappresentava il mio unico indumento e mi avvicinai alla finestra, sbirciando attraverso un piccolo buco tra un giornale e l’altro ciò che c’era fuori.

Vidi della terra brulla, dei piccoli casotti molto simili tra di loro e degli uomini in divisa che marciavano ordinatamente da una parte all’altra del campo sgombro.

Poi ci fu il suono di una tromba e vidi uscire dai casotti donne, bambini e uomini.

Avevano un aspetto terribile, alcuni erano magri all’inverosimile e faticavano a reggersi in piedi, altri invece avevano ferite sul volto o si trascinavano dietro una gamba rotta.

Sbarrai gli occhi a quella vista raccapricciante, sentendo la nausea e un senso di terrore impadronirsi di me.

Tutte quelle persone si misero in riga di fronte ad alcuni soldati, che sembrava stessero facendo l’appello.

Alla fine del lungo elenco uno degli uomini in uniforme più basso lesse un altro elenco e gli uomini e le donne nominati fecero di nuovo un passo avanti restando fermi immobili con un espressione di terrore e rassegnazione in volto.

Alla fine di quel secondo appello le persone che erano state chiamate vennero condotte verso uno dei casotti più grandi da un paio di soldati, mentre quelli che non erano stati nominati tornavano da dove erano venuti.

Sentii brividi di freddo e di paura salirmi lungo la spina dorsale, mentre mi chiedevo cosa diavolo ci facevo in un posto del genere.

Indietreggiai, andando a sbattere con il sedere contro il tavolo che emise un lieve cigolio che però mi gelò il sangue nelle vece facendomi rimanere immobile per alcuni agghiaccianti minuti.

Quanto tornai a respirare mi accorsi che ero ancore viva e che nessun soldato mi aveva scoperto.

Osservai intensamente una parete, mentre cercavo di rallentare il martellare furioso del mio cuore, notando a terra uno specchio rotto in alcuni punti.

Mi avvicinai esitante, facendo attenzione a non pestare qualche vetro e, grazie alla poca luce, riuscii a specchiarmi.

Osservai i miei capelli scuri ricci e spettinati scendere ad accarezzarmi le spalle e la schiena, avevo la pelle candida e nessun livido, diversamente dalle donne che avevo visto allineate davanti ai soldati poco prima, i miei occhi erano chiari, ma non riuscivo a capire – e ricordare – se erano grigi, azzurri o verdi, forse un miscuglio dei tre colori.

Non ero brutta, su questo ero sicura, ma non ero nemmeno lontanamente bella.

In quel momento, mentre cercavo di legarmi in modo impacciato la coperta intorno al corpo come se fosse un vestito mi tornò in mente una scena che avevo dimenticato, che sembrava appartenere a una vita prima. 

 

***

 

Guardavo con occhi incantati mia sorella, indossava un bellissimo abito da sposa e aveva i capelli legati sulla testa in un modo maledettamente elegante che mi fece sentire davvero gelosa di lei e della sua fortuna sfacciata.

Si stava per sposare!

Tutta la casa era in fermento, mamma e papà erano quelli più eccitati di tutti, mentre cercavano di prevedere ogni singolo momento, così da poter poi essere preparati, mentre mia sorella era al settimo cielo e attendeva impaziente la data delle nozze.

 

***

 

Tornai al presente, sentendo delle lacrime premere per bagnarmi il volto e un groppo in gola che mi faceva mancare l’aria.

Tornai al materasso e mi sdraiai stringendo al petto un piccolo cuscino con la fodera rotta che perdeva piume un po’ ovunque.

Cominciai a piangere come non avevo mai fatto in vita mia, cercando di fare meno rumore possibile per paura che qualcuno mi scoprisse.

Non ricordare niente era tremendo, era qualcosa che mi distruggeva dentro, che mi faceva sentire sola e impotente.

Ero il nulla, e nessuno mi avrebbe aiutata a ricordare chi ero, da dove venivo. L’unica cosa che mi rimaneva era un nome.

Un rumore di passi troppo vicino mi fece sussultare e trattenere il fiato.

Mi sollevai da terra raccogliendo la bottiglia mezza distrutta e alzandola in aria come se fosse stata una mazza.

Sentii la maniglia di una porta, che non riuscivo a scorgere da nessuna parte, girare e poi il cigolio dei cardini.

Nella stanza entrò qualcuno che si richiuse subito la porta alle spalle, facendo pochi passi verso di me.

Quando lo sconosciuto venne illuminato dalla luce sentii qualcosa dentro urlare parole incomprensibili che però mi fecero abbassare la guardia.

Era giovane, doveva avere massimo vent’anni, aveva i capelli talmente chiari da sembrare bianchi e possedeva dei bellissimi e alquanto tristi occhi azzurri.

Quando i nostri sguardi si incontrarono lo vidi sorridere appena: «Ti sei svegliata finalmente, come stai?»

Tentò di fare un passo verso di me, ma indietreggiai guardandolo confusa.

Era un soldato, perché allora non mi guardava con disprezzo e superiorità?

Chi era lui? Perché mi era così familiare?

«Non ti ricordi di me?»

Avrei voluto dirgli di si, ma non volevo mentirgli così scossi appena la testa, vedendo il suo volto adombrarsi.

«Questa proprio non ci voleva» mi guardò per alcuni istanti, soffermandosi sulla coperta che mi copriva il corpo, prima di tornare ad incontrare i miei occhi chiari: «Se vuoi posso raccontarti tutto quello che so, magari in questo modo alcune cose ti torneranno in mente»

Stavo pensando alla sua proposta quando lo vidi togliersi la giacca della divisa e poi la camicia.

Cosa aveva in mente di fare?

Solo perché mi sembrava terribilmente familiare questo non gli avrebbe permesso di toccarmi!

Lui doveva aver capito quello che mi passava per la mente, dato che mi tranquillizzò con poche parole: «Stai tranquilla, non voglio farti del male, mi sto solo togliendo la camicia, così puoi coprirti un po’, devi aver freddo...»

Lasciai ricadere la mano che stringeva la bottiglia lungo il fianco, mentre sentivo delle lacrime salate bagnarmi il volto.

Si preoccupava di me e forse era l’unico, in quel luogo orribile.

Lo vidi avvicinarsi lentamente, mentre mi porgeva guardingo la camicia, osservando con aria leggermente spaventata la bottiglia che tenevo in mano.

«Che ne dici di darla a me? Rischi di farti male e...» lo guardai dritto negli occhi per alcuni istanti.

Sentii la sua mano sfiorarmi appena le dita che stringevano il collo della bottiglia e il contatto con la sua pelle mi fece sussultare e lasciare la presa, mentre indietreggiavo di alcuni passi, appiattendomi contro la parete con la mente invasa dai ricordi che finalmente stavano tornando.

 

***

 

Ero nascosta dietro ad una parete e spiavo con un misto di orrore e curiosità quello che un giorno o l’altro sarebbe successo anche a me. Momentaneamente non ero ancora stata nominata nella seconda lista, probabilmente perché ero abbastanza furba e in gamba da aggiustarmi anche lì, all’inferno, ma soprattutto a non farmi notare troppo.

Sporsi appena il volto, guardando una donna che teneva per mano un bambino che doveva avere otto o nove anni che guardava intorno spaventato a morte, dietro di loro un uomo con il volto sfregiato e senza un orecchio che non faceva altro che aggiustarsi i polsini della giacca logora e stracciata dal tempo, dietro ancora c’erano un uomo e una donna che si tenevano teneramente per mano e che non smettevano di cercarsi con gli occhi.

Distolsi lo sguardo e tornai a nascondermi dietro alla parete con il respiro affannato.

Avrei tanto voluto piangere e urlare, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla.

Una parte di me era curiosa, voleva vedere altre persone condannate prima di non poterle vedere mai più, allo stesso tempo però volevo fuggire, darmela a gambe il più velocemente possibile.

Esitai qualche secondo e se non l’avessi mai fatto non avrei sentito una mano forte afferrarmi per una spalla e farmi voltare di scatto.

Mi ritrovai davanti uno dei soldati più giovani che mi scrutava incuriosito e infastidito allo stesso tempo.

«Che ci fai qui? Questa è zona vietata» disse con un tono di voce deciso e annoiato allo stesso tempo.

«Stavo cercando... » cominciai, prima di rendermi conto che non sapevo come continuare la frase.

“Improvvisa!” mi urlò una voce nella testa, facendomi uscire dalle labbra la scusa più idiota del mondo: «... il bagno».

Lui alzò un sopracciglio, probabilmente si stava chiedendo se lo stavo prendendo in giro o no, prima di avvicinare troppo il viso al mio: «Chi ti credi di essere?»

Il suo tono di voce tagliente mi fece tremare appena le gambe dalla paura e sperai che non se ne accorgesse, perché quella era la regola principale: “Mai mostrarsi deboli”.

«No, io...» mi bloccai, prima di ritrovare il mio sangue freddo e sfidarlo con lo sguardo: «Come chi mi credo di essere? Credi di essere qualcuno solo perché segui le idee di un pazzo razzista? Che poi io non dovrei neanche essere qui perché io non sono ebrea!» gli piantai il dito indice contro il petto, mentre lo vedevo guardarmi sconvolto: «Sono una ragazza come tante, magari non bellissima, ma questo non significa che debba essere qui! Sai qual è il problema? È che io non ho nessuno qui, NESSUNO! E questo perché i miei genitori sono stati uccisi davanti ai miei occhi, come anche mia sorella! La mia bellissima sorella che si sarebbe dovuta sposare pochi giorni dopo! E questo perché sono stata codarda, perché mi sono nascosta quando ho sentito il primo sparo, ma per mia sfortuna da dove mi trovavo ho visto tutta la scena e non hai idea di cosa significhi vedere tua madre e tua sorella essere violentate, picchiate e uccise davanti ai tuoi occhi!» una lacrima calda mi scivolò lungo la guancia, ma non smisi di parlare e di sfogarmi, non mi m’importava di morire, perché quella in qualsiasi caso non era vita: «E non sai cosa significhi venire scoperte e temere di fare la stessa fine della tua famiglia, non puoi nemmeno lontanamente immaginare come ci si senta quando la cameriera, quella che non hai mai considerato perché pensavi fosse pazza, da la sua vita per concedere a te di vivere ancora qualche giorno, ma sai una cosa? Avrei preferito morire perché questa non è vita! Questa è sopravvivenza, vince il più forte, ma il problema è che mi sono stancata di combattere per un tozzo di pane che non riesce nemmeno a sfamarmi o di mezza patata completamente impolverata e magari ricoperta di germi che però mangi lo stesso perché se hai fame non fai lo schizzinoso e preferisci rischiare di ammalarti piuttosto che sopportare ancora i crampi allo stomaco! E sai che ti dico? Preferisco che tu mi uccida ora, piuttosto che dover sopportare ancora un giorno la puzza di morte che sento quando mi sveglio la mattina, oppure di dover tremare come una foglia durante l’appello per paura di essere chiamata per esser sterminata e la paura che sento quando un soldato qualsiasi mi guarda, per paura che faccia a me ciò che hanno fatto a mia madre e a mia sorella!»

I suoi occhi erano sbarrati dallo stupore, mentre mi sentivo all’improvviso più leggera, era come essersi gettata dietro alle spalle una pietra che non sapevi di avere legata all’altezza del cuore.

Il soldato non disse una parola, mentre continuava semplicemente a guardarmi.

«Cosa stai aspettando? Uccidimi» gli dissi con la lacrima di prima che si era fermata all’altezza delle labbra.

Lui scosse violentemente la testa e mi prese per il gomito, trascinandomi fino ad un casotto, il più lontano possibile dalle camere a gas.

«Non si entra nella zona vietata, chiaro?» ripeté, prima di scomparire e lasciarmi sola.

Io mi accasciai contro il muro, mentre mi stringevo le gambe contro il petto e affondavo il viso tra le braccia, iniziando a singhiozzare.

Non so quanto tempo passò, ad un certo punto sentii un rumore di passi e vidi di nuovo il soldato giovane di fronte a me. Lui si accovacciò vicino a dove mi ero rannicchiata e mi porse un panino bollente al tatto e una mela verde.

Lo fissai a lungo con gli occhi ancora lucidi e le guance arrossate, incerta sul da farsi.

«Non hai fame?» mi chiese sbrigativo, probabilmente col timore che qualcuno dei suoi compari lo vedesse.

«Cosa stai facendo?» gli chiesi, con gli occhi fissi nei suoi che erano di un bellissimo color grigio azzurrino.

«Mangia» disse e quella parola sembrava in un modo impressionante un ordine.

«Perché?» domandai, insicura di cosa avrei dovuto provare, percependo una strana sensazione di felicità all’altezza del cuore.

«Perché hai fegato e perché mi sembri familiare» rispose spiazzandomi, prima di continuare a parlare: «I tuoi occhi mi sembra di averli già visti, solo non ricordo... Come ti chiami?»

«Helena... voglio dire io sono 3700037o. Numero 37000370 *» risposi mentre mi rigiravo il panino tra le mani, ne spezzavo un pezzetto sentendolo morbido e con un odore delizioso e lo mangiavo con lo stomaco che brontolava.

«Io sono Lukas» disse, mentre mi guardava finire in pochi attimi ciò che mi aveva dato: «Non devi ingozzarti» aggiunse con una punta di rimprovero nella voce.

Mi venne voglia di ribattere: “Sono due giorni che magio poco o niente! Vorrei vedere te al mio posto!”, ma non dissi niente, fermandomi a fissarlo.

Mi chiesi cosa l’avesse spinto ad aiutarmi.

Sembrava troppo banale come scusa il fatto che gli sembravo familiare, mi stava nascondendo qualcosa?

E se...

«Sei uguale identica ad una mia vecchia amica» mormorò, facendomi sussultare: «Stesso colore di capelli, stessi occhi... hai un viso leggermente diverso però...»

Continuò a fissarmi per qualche manciata di secondi, prima di distogliere lo sguardo e allontanarsi in fretta, lasciandomi sola.

Incredibile, ma forse mi ero fatta un amico...

 

***

 

Era davvero lo stesso soldato del ricordo?

Mi chiesi mentre lo osservavo posare sul tavolino tarlato la bottiglia mezza distrutta, prima di porgermi gentilmente la sua camicia bianca e stirata, che sapeva di pulito.

Cercai di fare un passo indietro, ma mi era impossibile, così ne feci uno laterale, tentando di allontanarmi.

I ricordi che avevo ritrovato erano positivi o almeno, non del tutto negativi, su di lui, ma avevo paura, una paura atroce che non riuscivo in nessun modo ad affievolire.

«Non voglio farti del male, Helena» mormorò, facendo un passo esitante verso di me.

Sentii immediatamente il freddo che albergava nel mio cuore scaldarsi.

Il mio nome sulle sue labbra era tremendamente dolce, scivolava fuori dalla sua bocca in modo quasi provocante, sembrava avermi promesso la vita eterna con quel semplice suono; ne rimasi incantata.

Provai l’istinto di abbracciarlo e di piangere ancora, ma non lo feci.

Rimasi ferma immobile a fissarlo, sentendo il cuore impazzito e i muscoli tesi.

Lo vidi fare un altro passo verso di me e mi ci volle tutto il mio autocontrollo per non allontanarmi ancora da lui.

Fissai la sua mano a pochi centimetri da me, che teneva stretta la camicia bianca, e lentamente ne afferrai un lembo con le mie dita tremanti a causa dei vari sentimenti contrastanti che albergavano nel mio cuore; paura e sorpresa, stupore e terrore.

«Grazie» mormorai, sentendo il tessuto leggermente ruvido a contatto con la mia pelle, ma ancora caldo di lui rispetto al gelo che sentivo ovunque sul corpo.

«Non devi ringraziarmi, bimba» disse, indossando di nuovo la giacca, coprendo la canottiera che non lasciava molto all’immaginazione, mentre continuava a guardarmi.

«Bimba?» sussurrai, alzando un sopracciglio, sorpresa.

Se avevo pensato che il mio nome detto da lui sembrasse provocante era solo perché non l’avevo mai sentito chiamarmi in quel modo.

 

***

 

«Dovresti smetterla di spuntare all’improvviso» ansimai, a causa della corsa che mi ero dovuta fare per raggiungere il casotto accanto al filo spinato.

«Scusa» disse sbuffando, mentre mi porgeva un fagotto riempito da qualcosa che profumava di buono.

Lo presi e non potei evitare di sorridere al contatto col tepore di quei biscotti.

«Hai corso?» mi chiese appoggiandosi ad un muretto di pietra alto mezzo metro, prima di sedercisi sopra.

«Perché?» domandai a mia volta, ancora guardinga e indecisa su come mi sarei dovuta comportare con lui.

«Curiosità» rispose, appoggiando una mano accanto a sé e facendomi segno di sedermi lì.

Provai lo strano istinto di scuotere la testa e fargli la linguaccia, ma mi diedi immediatamente un po’ di contegno e mi avvicinai a lui.

Ecco ciò che ancora non capivo: come facesse a tirar fuori la parte più infantile e testarda di me.

«Ho corso perché pensavo di essere in ritardo» ammisi, addentando un biscotto ed emettendo uno strano suono di felicità.

«Sei tutta rossa» constatò guardandomi in volto.

«È per la corsa» dissi sbrigativa, sperando che smettesse di fissarmi.

Mi metteva in imbarazzo il modo in cui mi studiava, mi sentivo una cavia da laboratorio.

«Solo per quello, bimba?» chiese, sorridendo appena, mentre sentivo altro calore defluire sulle mie guance.

«C-come mi ha-hai chiamato?» domandai, sbigottita, fissando i suoi occhi azzurri e limpidi.

«Non ti piace, bimba

Stavo per urlargli contro che no, non mi piaceva affatto, quando mi bloccai di colpo.

Era una provocazione? Mi stava provocando?

Beh, in questo caso non gli avrei dato soddisfazione.

«Fa un po’ come ti pare» risposi, smettendo di guardarlo e tornando a mangiucchiare silenziosamente i biscotti ancora caldi.

Per qualche minuto non parlò nessuno dei due e l’unica cosa che riuscivo a sentire era il suo respiro e il mio, regolari e vicini.

«Dovrei andare» disse, spezzando il momento di stasi che si era creato: «Ci vediamo questa sera davanti al casotto 7. Va bene?»

Io annuii piano: «Va bene».

Mi passò una mano tra i capelli, scompigliandomeli: «Fa la brava, bimba».

 

***

 

«Non la indossi?» mi chiese Lukas, lanciando occhiate veloci da me alla camicia che ancora stringevo tra le mani.

«Io...» incominciai, prima di vederlo voltarsi di scatto.

«Adesso va bene?» domandò sbuffando impaziente.

Possibile che fosse in grado di leggermi nel pensiero? Come aveva fatto a capire che mi metteva in imbarazzo vestirmi davanti a lui?

«Sì, grazie» risposi, slegando il piccolo nodo che stringeva la copertina bucherellata sul mio seno, prima di lasciarla cadere a terra e di indossare quell’indumento che mi stava largo.

«Fatto?» chiese lui, mettendosi le mani in tasca.

«Sì» sussurrai con un filo di voce, mentre raccoglievo da terra la copertina e ma la portavo all’altezza del petto per coprirmi il seno, che di sicuro si intravedeva attraverso la stoffa chiara della camicia.

Tornò a fissarmi con un sorriso triste sulle labbra: «Davvero non ricordi nulla di me?»

«Ti chiami Lukas e... e mi hai aiutato, mi hai dato da mangiare... però, oltre questo, non ricordo nulla...» ammisi, camminando fino alla brandina a terra in cui mi ero svegliata e sedendomi sopra.

Mi presi il viso tra le mani, mentre cercavo di ricordare, di dare senso ad ogni frammento, di collegarli tra di loro, di...

«Non devi sforzarti, bimba. Abbiamo tutto il tempo che vuoi a nostra disposizione» sussurrò sedendosi accanto a me e prendendo una mia mano tra le sue.

Il contatto con la sua pelle bollente mi fece sorridere.

 

***

 

«Il tuo colore preferito?» mi chiese Lukas, giocherellando con un bottone mezzo scucito della sua divisa.

Io aggrottai lo sopracciglia, mentre addentavo la mela rossa che mi aveva portato: «Verde».

«Perché il verde?»

«Perché è il colore della natura, della speranza e della vita» risposi prontamente: «Il tuo?»

«Il blu».

«Perché?» domandai a mia volta.

«Perché è il colore che vedi la notte, e poi mia madre aveva gli occhi blu.»

«Come si chiamava?» chiesi, guardando assorta le sue dita che giocavano con quel bottone.

«Chi?»

«Tua madre» specificai.

«Greta» mormorò, incatenando i miei occhi nei suoi.

Restammo a fissarci per pochi istanti, prima che lui continuasse con le sue domande.

«Il tuo primo ragazzo come si chiamava?» domandò sorridendo, divertito dalla mia espressione imbarazzata.

«Non mi ricordo bene...» risposi imbronciata.

«Non preoccuparti, bimba, abbiamo tutto il tempo che vuoi a nostra disposizione»

 

***

 

«Avrei dovuto portarti qualcosa di comodo da indossare, per fortuna non fa freddo come un paio di settimane fa...» mormorò Lukas, mentre continuava a stringermi la mano, scaldandomi le dita intorpidite dal freddo.

«Dove sono finiti i miei vestiti?» chiesi, fissando con una strana sensazione all’altezza del petto un foglio a terra, sul quale vi era disegnato un omino stilizzato con un naso e dei piedi enormi; sembrava un pagliaccio.

«Beh...mmh...i-io...» iniziò a farfugliare, attirando la mia attenzione.

Il suo viso era leggermente colorato da un tenero rosa all’altezza degli zigomi, mentre continuava a passarsi una mano tra i capelli, esternando il suo imbarazzo.

Lo vidi aprire la bocca un paio di volte, quasi volesse dire qualcosa, prima di richiuderla istantaneamente.

«Cos’è successo? Me li hanno rubati?» domandai, confusa.

Lui scosse la testa, prima di voltare il viso verso di me e di incontrare i miei occhi.

Nel suo sguardo potevo leggere imbarazzo, tristezza, dolore, tormento, furia...

Eppure c’era qualcos’altro che mi sfuggiva.

«Si son rotti?» riprovai.

«In un certo senso» lo sentii sussurrare con un tono di voce duro, che mi fece rabbrividire.

Stavo per chiedergli altre spiegazioni, quando mi tornarono alla mente poche immagini che mi fecero sussultare.

 

***

 

Un uomo alto, spalle larghe e occhi di ghiaccio stava marciando svogliatamente verso le camere gas.

Doveva avere una quarantina d’anni, se non di più e nel suo sguardo si poteva scorgere soltanto disprezzo e fastidio.

Lo stavo osservando da lontano, perché avevo paura di quell’uomo, del Generale.

Fin dalla prima volta che ero stata introdotta in quel campo avevo notato il modo in cui guardava le donne in generale, più o meno giovani, e una semplice parola mi era venuta in mente: violentatore.

Gli piaceva far del male, gli piaceva eccome.

Era per questo che cercavo in tutti i modi di stargli alla larga, non ero mai stata una persona masochista e non avrei iniziato in quel momento.

Lo vidi fermarsi accanto ad un casotto e sbirciare attraverso la finestra.

Stava cercando una preda.

Non riuscii a trattenermi oltre e fuggii il più lontano possibile.

 

***

 

Sbarrai gli occhi dalla paura mentre altre immagini mi invadevano la mente.

 

***

 

«Generale, l’abbiamo trovata accanto alle camere a gas, che ne facciamo?» chiese il soldato che mi teneva dolorosamente per un gomito, facendomi fermare a pochi passi dal mio incubo personale.

L’uomo in questione mi fissò con uno sguardo da malato, mentre ghignava.

Non potei impedirmi di rabbrividire.

«Non vi preoccupate, ci penso io ad insegnarle che le regole vanno rispettate» disse il Generale, congedandoli subito dopo.

Appena gli altri soldati se ne furono andati, si avvicinò con una grande falcata a me e mi accarezzò il volto.

«Ma che bella ragazzina» mormorò, prima di afferrarmi il braccio sinistro e di sollevarmi la manica  del maglione che indossavo.

Puntò gli occhi sul numero che mi era stato impresso a fuoco appena entrata nel campo di concentramento, prima di strappare bruscamente il davanti del maglione.

Mi sentii singhiozzare senza nemmeno rendermene conto e d’istinto mi portai le mani sul petto, per coprirmi.

Stavo per urlare, quando dalla porta dietro di me sentii un forte bussare.

«Avanti» disse infastidito dall’interruzione, il Generale, prima di allontanarsi di qualche passo da me e di poggiare le mani sulla piccola scrivania del suo ufficio.

«Spero di non disturbare Generale, ma alcuni soldati mi hanno chiesto di riferirle che manca il numero 40678951 all’appello e che è stato trovato un buco nella recinzione a nord del campo» disse una voce fin troppo familiare, mentre, impacciata, continuavo a stringermi addosso il maglione ormai distrutto e irreparabile.

Il Generale fissò insistentemente Lukas accanto a me, prima di dire: «Vado di persona a dare loro ordini e indicazioni su come agire».

Fece due passi verso di me e mi tirò uno schiaffo in pieno di viso, facendomi singhiozzare ancora più forte, mentre copiose lacrime mi scivolavano lungo il viso.

Vidi la mano di Lukas stringersi a pugno, mentre il mostro che mi trovavo di fronte mi prendeva per un braccio e mi faceva cadere brutalmente a terra.

Battei dolorosamente la testa e in pochi istanti persi i sensi.

L’ultima cosa che percepii furono le mani ruvide ma delicate di Lukas che mi sollevavano da terra e mi stringevano a sé.

 

***

 

Sbarrai gli occhi a quel ricordo: «Da quant’è che dormo?» mormorai toccandomi esitante la nuca e percependo una fitta di dolore.

«Una settimana e due giorni, ho temuto che non ti saresti più svegliata» disse tirando fuori dalla tasca del pane, una mela e dei biscotti: «Credo che tu abbia fame».

Non gli diedi nemmeno tempo di finire la frase che mi ero già avventata sul pane, sentendo lo stomaco brontolare insistentemente per la fame.

Lo sentii ridere piano: «Con calma, non scappa mica».

Sentii una strana sensazione al petto, quando sentii una sua mano accarezzarmi i capelli.

“Chi sei tu?”

Pensai, ma non dissi nulla, mi limitai a fissarlo e ad osservare la sua espressione; sembrava quasi su un altro mondo, gli occhi parevano guardare lontano, mentre le labbra erano atteggiate in un sorriso piccolo e delicato che rendeva il suo viso ancora più angelico.

«Mi sei mancata, bimba» mormorò a un soffio dal mio viso, baciandomi la tempia e facendo scivolare la mano lungo la mia schiena, coperta solo dalla camicia chiara.

“Chi sei tu?”

Sentii le dita risalire lungo la mia spina dorsale, fino a fermarsi all’altezza della nuca e prima di tornare ad accarezzarmi dolcemente i capelli, mentre l’altra mano mi aveva afferrato delicatamente per un fianco e mi teneva stretta a sé.

“Chi sei tu?”

«Bimba...» sussurrò piano mordendomi il lobo dell’orecchio.

Sentii il fuoco nascermi dentro ed espandersi ovunque nel mio corpo infreddolito, mentre lo guardavo sconvolta.

“Chi sei tu?”

 

***

 

«Zitta!» mormorò appoggiandomi una mano sulle labbra e guardandomi con gli occhi sbarrati dallo spavento.

«Dov’è finita la ragazzina?» chiese una voce oltre la porta, che mi fece tremare dalla paura.

«Che ragazzina?» rispose qualcuno, prima che dei passi veloci si allontanassero.

Sentii la mano di Lukas abbandonare il mio volto: «C’è mancato molto poco bimba, mi vuoi spiegare perché diavolo ti è venuto in mente di venire qui, nelle camere di noi soldati cattivi?»

Aprii e richiusi la bocca un paio di volte, prima di trovare il coraggio di parlare: «Non volevo venire qui, ma quell’uomo mi inseguiva e... i-io non sapevo dove andare... c-continuava ad urlarmi di fermarmi e di fare la b-brava, ma... l-lui voleva...voleva...»

A quel punto non riuscii più a continuare, sentendo brividi di paura ovunque e le lacrime riempirmi gli occhi.

Percepii le sue braccia stringermi delicatamente a sé e mi sentii istantaneamente bene e al sicuro.

«Ssh, non piangere bimba, qui nessuno ti farà del male» mormorò passandomi una mano tra i capelli, spettinati e sporchi.

Mi allontanai di scatto da lui, chiedendomi perché fosse sempre così dolce e premuroso, perché non mi guardasse con disprezzo, perché non mi insultasse...

Cos’è che lo aveva spinto ad aiutarmi?

«Hai bisogno di rilassarti bimba, ti va un bagno?» chiese, dirigendosi verso un piccolo separé alla destra del suo letto.

«Un b-bagno?» domandai confusa, seguendolo e ritrovandomi di fronte ad una grande vasca.

«Vado a prendere dell’acqua, tu aspetta qui, se vuoi puoi fare che spogliarti...»

«Spogliarmi?» chiesi allarmata, fissandolo sconvolta.

Lui sospirò: «Giuro che...»

«Te lo scordi che mi spoglio davanti a te!» esclamai, forse a voce troppo alta, dato che mi guardo con uno sguardo duro e infastidito.

«E perché no? Non ti fidi?» chiese avvicinandosi a me, scrutandomi in modo strano.

«Certo che mi fido, semplicemente non penso che sia appropriato» risposi lanciandogli uno sguardo di fuoco.

«E cosa pensi che sia appropriato?» domandò prendendo le mie braccia e passandosele dietro al collo, avvicinando i nostri corpi.

Era la seconda volta che ci ritrovavamo così vicini, e non ero certa che anche questa volta sarei riuscita a fermarlo.

Il problema era che lui sembrava leggermi dentro, sembrava sapere perfettamente quello che sentivo, provavo, pensavo, credevo e sognavo.

«Lukas smettila di...» non riuscii a continuare sentendo la sua fronte contro la mia e i suoi occhi che mi fissavano talmente intensamente da sembrare dentro di me.

«Di?» mi spinse a continuare, accarezzandomi la schiena.

«Di giocare» dissi, fissandolo confusa e insicura.

«Io non sto giocando» sussurrò, passandomi una mano tra i capelli e prendendomi per la nuca avvicinandomi ancora di più a sé, fino a quando le sue labbra di non si trovarono sulle mie.

 

***

 

Mi portai una mano alle labbra al ricordo di quel bacio e lo guardai sconvolta, mentre lo sentivo abbracciarmi e sussurrare il mio nome a pochi millimetri dal mio orecchio.

Sentii un rumore di passi fuori dal casotto e rabbrividii al pensiero del Generale.

Lukas, mi strinse ancora di più a sé, forse pensava che i brividi fossero di freddo...

«Helena?», mi chiamò accarezzandomi la guancia: «Davvero non ti ricordi nulla?»

Stavo per rispondere che sì, qualcosa mi era tornato in mente, quando un urlo lontano mi fece sussultare e stringere ancora di più a lui.

«Cosa sta succedendo?» chiesi spaventata, tremando senza controllo.

«Calmati bimba, non ti accadrà nulla. Qui sei al sicuro, ti proteggerò io...» disse cercando di calmarmi.

«Cos’è stato?» domandai, mentre registravo il fatto che l’urlo udito poco prima non poteva appartenere ad un uomo.

«Non lo so, Helena...» mormorò baciandomi vicino alle labbra: «L’importante è che tu stia bene, l’unica cosa che conta per me in questo momento è che tu stia bene»

Sentii calde lacrime bagnarmi le guance e non potei impedirmi di gettargli le braccia al collo e di stringermi a lui.

«Non ce la faccio più, ho tanta paura!» dissi, singhiozzando e asciugandomi il volto sul tessuto della sua giacca.

«“Non devi pensare a quello che c’è fuori, concentrati su ciò che ti sta intorno”, ti ricordi? Me l’hai detto tu una volta...» mormorò, stringendo tra le mani il mio unico indumento, stropicciandolo tutto.

«Fammi pensare ad altro» sussurrai senza pensarci, incatenando il mio sguardo al suo.

Lui sorrise appena, prima di sfiorarmi una guancia con le dita e di baciarmi appena le labbra.

In quell’istante smisi di pensare a qualcosa di preciso, sentendo un fuoco rovente dentro di me e una particolare sensazione di languore.

Il bacio, da delicato e dolce, divenne in un istante molto più intenso e frenetico, facendo tornare a galla il ricordo di altri mille baci rubati e prematuramente dimenticati.

 

***

 

«Baciami, bimba» sussurrò, avvicinandomi a sé e facendomi sorridere come una ragazzina la mattina di Natale davanti ad una montagna di regali.

Mi avventai sulla sua bocca, mentre sentivo il freddo della parete dietro di me e il caldo del suo corpo contro il mio.

Avrebbe potuto vederci chiunque, ma l’attrazione che sentivo per lui era un qualcosa di incontrollabile, mi sentivo una ragazza alla sua prima cotta e, in effetti, era ciò che ero...

 

***

 

«Helena, non dovresti essere qua, se qualcuno ti vede...» mormorò Lukas, facendomi entrare nella sua stanza, in modo che nessuno potesse scoprire la mia presenza.

«Si, hai ragione. Scusa. Ma avevo bisogno di vederti» ammisi, appoggiandomi alla porta della camera.

Lui sorrise, baciandomi: «Ti perdono, bimba, ma la prossima volta...»

«Si,  lo so, la prossima volta ti avverto, prima di sbucare qui all’improvviso» dissi, precedendolo.

«Non l’hai mai fatto» sussurrò ridacchiando, mentre mi baciava il collo e la gola.

«Prima o poi lo farò...»

 

***

 

«Implorami» mormorò tenendomi le mani bloccate sopra la testa.

«Mai» ripetei fissandolo con uno sguardo di sfida.

«Va bene, l’hai voluto tu...» minacciò iniziando a farmi il solletico all’altezza della pancia e del collo.

«Ah, basta! Ahahah!» dissi tra le risate dimenandomi sotto di lui, prima di sentire la sua bocca sulla mia e le nostre lingue giocare in sincronia.

«Chi ha vinto?» chiesi, ridendo, prima di perdermi nel suo sguardo di piombo fuso.

«Entrambi, bimba».

 

***

 

Sentii le sue mani accarezzarmi con una lentezza disarmante le gambe e non potei impedire ad un piccolo gemito di uscire dalle mie labbra.

«Lukas, a-aspetta» mormorai, percependo le sue mani sotto il tessuto della camicia bianca che indossavo.

Lui si bloccò di colpo, guardandomi negli occhi.

Sembrava un angelo; i capelli dorati che gli ricadevano sulla fronte, gli occhi chiari dello stesso colore delle nuvole in autunno, le labbra gonfie e arrossate dei baci e le guance leggermente colorate per l’emozione.

«Helena, scusa, io... non so cosa mi è preso... non avrei dovuto...» disse allontanandosi da me e alzandosi in piedi, inquieto.

Lo vidi muovere alcuni passi verso la porta del casotto e gli corsi dietro, bloccandolo: «Dove stai andando?»

Non poteva lasciarmi, non in quel momento, in cui avevo assolutamente bisogno di lui.

«Bimba, se resto qui ancora un po’ rischio di fare cose che tu non vuoi che io faccia, oltre al fatto che magari qualcuno potrebbe accorgersi della mia assenza e in quel caso finiremmo tutti e due nei guai e io non voglio che accada, quindi...»

Gli getti le braccia intorno al collo, prima di baciarlo con trasporto.

«Non lasciarmi sola questa notte Lukas» lo implorai, vedendo i suoi occhi scintillare al buio.

«Intendi...» iniziò a dire, guardandomi confuso.

Io annuii, pensando con terrore che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta insieme.

 

***

 

«Non mi hai mai detto perché sei finita in questo campo di concentramento, la prima volta che ci siamo visti hai ammesso di non essere ebrea, ma allora perché sei qui?» chiese Lukas, mentre mi guardava mangiare durante uno dei nostri tanti incontri.

«Beh» incominciai mandando giù il boccone di pane che avevo in bocca: «Principalmente  la colpa è di mio zio, il fratello di mio papà, che qualche anno fa si è convertito all’ebraismo. Quando poi è iniziata la Guerra lui si è opposto agli ordini e alle regole, tipo quella del coprifuoco e si è fatto notare parecchio. Un giorno è arrivato a casa nostra, ha parlato con papà e poi è di nuovo scomparso nel nulla. Due settimane dopo sono arrivati dei soldati a casa nostra e... beh, il resto lo sai» dissi, sentendo un nodo in gola e le lacrime agli occhi.

«Mi dispiace» mormorò lui, prendendo una mia mano tra le sue e accarezzandone dolcemente il dorso.

«Mi manca la mia vecchia vita, soprattutto le litigate con mia sorella per ogni sciocchezza» sussurrai osservando un punto indefinito a terra: «Un tempo non riuscivo a sopportare i suoi sbalzi di umore, le sue strane richieste, le sue battutine poco divertenti... erano cose che mi facevano impazzire. Ora, se potessi, tornerei indietro nel tempo per poter ridere, scherzare, giocare, litigare e chiacchierare con lei come facevo fino a qualche mese fa».

Non disse più nulla, rimase semplicemente a fissarmi, mentre la sua mano continuava ad accarezzare la mia.

 

***

 

«Ho trovato un nascondiglio perfetto per te» disse, sorridendo.

«Un che cosa

«Un posto dove puoi stare tranquilla tutto il giorno mentre aspetti che ti porti da mangiare» spiegò pulendosi distrattamente la divisa dalla polvere.

«Mi dispiace, ma mi sa che hai dimenticato una cosa: l’appello»

«No, invece, dato che da oggi tu non esisti più su quell’elenco» mi mormorò ad una spanna dal mio viso, facendomi arrossire e sbiancare subito dopo.

«In che senso scusa?» domandai, mentre nella mia mente cominciavo a figurarmi il suo volto diventare ad un tratto freddo e crudele nel tirare fuori una pistola e spararmi un colpo alla tempia.

«Nel senso che ho detto al Generale che ti ho trovata morta e che quindi eri da depennare dalla lista».

Io sbarrai gli occhi: «Mi vuoi uccidere?!»

Lo vidi alzare lo sguardo al cielo, prima di tornare a fissare il mio viso: «Ma certo che no, bimba! Come ti viene in mente una cosa simile?»

Io aprii la bocca per rispondere quando venni interrotta dal suono di alcuni passi che si avvicinavano.

Quando il rumore si allontanò abbastanza osservai attentamente Lukas ad un palmo dal naso e non potei impedirmi di sorridere: «Dov’è questo nascondiglio segreto?»

 

***

 

Le sue braccia mi stringevano forte al suo petto, mentre ci dirigevamo impacciati al materasso che si trovava a terra a pochi passi da noi.

Ci coricammo uno accanto all’altra, stando il più vicini possibile, quando vidi nei suoi occhi una scintilla di sorpresa: «Helena?!»

«Si?» chiesi confusa.

«Tu...» iniziò guardandomi, prima di prendere il mio viso tra le mani e di darmi un bacio a stampo, che emise un sonoro “smack”, sulle labbra: «...ti ricordi di me!»

Io annuii piano, accarezzandogli i capelli: «Sì e non ho intenzione di dimenticarmene mai più» dissi sorridendo.

«È una promessa?» chiese sfiorandomi il naso con il suo.

«No, una minaccia» risposi stringendomi a lui.

 

***

 

«Odio la pioggia» lo sentii dire, mentre ci nascondevamo sotto il tettuccio di un casotto.

«Io invece la adoro» ammisi passandomi una mano tra i capelli fradici, per provare ad asciugarli; l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era di prendermi il raffreddore.

«Cos’è che ti piace della pioggia?» mi chiese.

«È rilassante sentire il suono che producono le gocce, sembra una melodia».

Lo studiai, mentre si torturava sempre il solito bottone mezzo scucito della divisa, sembrava irrequieto.

Stavo per chiedergli il motivo del suo nervosismo, quando lo sentii sussurrare: «Io ho sempre avuto paura dei tuoni e dei temporali, fin da quando ero piccolo».

Lo guardai negli occhi, sconvolta: «Come mai?»

«Mia sorella maggiore è morta quando avevo cinque anni, aveva sempre avuto problemi di cuore, ma quella notte le si fermò del tutto il battito cardiaco. L’unica cosa che ricordo di quel giorno è che pioveva».

Sentii una stretta al cuore e non potei impedirmi di abbracciarlo, nel vano tentativo di consolarlo.

 

***

 

«La cosa che vorresti di più al mondo?» mi chiese, portandosi alle labbra un pezzo di pane.

«Una cosa sola?» domandai osservandolo curiosa.

«No, puoi dirmene massimo tre».

«La fine della Guerra, una fetta di tiramisù e poter vedere un’ultima volta la mia famiglia viva e felice come un tempo» ammisi, sorridendo al pensiero.

«Una fetta di tiramisù?» ripeté, lanciandomi uno sguardo strano.

«Sì, è il mio dolce preferito. Tu? Cosa vorresti di più al mondo?»

«La fine della Guerra, rivedere mia madre e aiutarti a fuggire da qui» disse, con gli occhi seri e una scintilla di speranza, che mi scaldò il cuore.

 

***

 

«Sei stanca?» domandò, baciandomi i capelli.

«Un po’» ammisi, mentre mi accoccolavo contro il suo petto.

Per un istante che sembrò durare secoli mi sentii bene, completa e in un certo senso serena.

Felice di essere ancora viva.

Felice di essere con lui.

Felice di poter sperare e sognare ancora.

Felice di avere ancora la possibilità di dirgli ciò che provavo e avevo sempre provato per lui.

«Ti amo» lo sentii sussurrare.

Sorrisi a quelle parole e incominciai a giocare con il bottone mezzo scucito della sua giacca.

«Lukas?» lo chiamai: «Vorrei...»

“...fare l’amore con te. Su, dillo, non è difficile. Una frase, quattro parole e quindici lettere. Parla. Non stare lì ferma e immobile a fissare il nulla. Devi dirlo. Subito! Altrimenti perderai l’attimo, quest’istante non tornerà più e tu non farai altro che chiederti per tutta la vita cosa sarebbe potuto accadere se...”

Un suono acuto e fastidioso si diffuse ovunque intorno a noi.

Era una campana che suonava ininterrottamente.

Lo sentii alzarsi di scatto e dirigersi verso la porta.

In pochi istanti era già scomparso, lasciandomi sola.

 

***

 

«Non fare rumore» mormorò appoggiando una mano sulla mia bocca, avvicinandomi  a sé e facendomi scudo col suo corpo in modo che dalla stradina sterrata non fossi visibile.

Appena il rumore si fu allontanato, sentii la sua mano abbandonare il mio viso e i suoi occhi piantarsi nei miei: «Devi fare più attenzione»

«Devo? Sei tu che...» iniziai a dire, prima di rendermi conto che ero ancora stretta a lui e che la sua mano non smetteva di accarezzarmi la schiena: «La vuoi smettere?!»

Lo vidi sorridere e senza volerlo mi sentii scaldata dalla sua espressione dolce, prima di rendermi conto che con quello sguardo si stava prendendo gioco di me, dato che non aveva spostato la mano di un solo millimetro.

«Ammettilo» mormorò contro la mia guancia, mentre scendeva pericolosamente con la mano, fino ad arrivare ad un soffio dal mio sedere.

«Che cosa?» chiesi sentendo il fiato mancarmi e il cuore accelerare i battiti.

«Che ti piace» sussurrò prima di fare il percorso al contrario con le dita lunghe e affusolate.

Mi sentivo morire e bruciare come non era mai accaduto prima, ma non gli avrei mai dato la soddisfazione di avere ragione.

Mai.

«Mi dispiace, ma non è così» dissi cercando dentro di me un po’ d contegno, prima di allontanare il suo braccio, che continuava a stringermi, con uno schiaffo.

Lo vidi fare una smorfia infastidita: «Prima o poi cadrai ai miei piedi».

«Mai» replicai con tono pungente, in modo che non notasse i brividi di freddo che avevo sentito ovunque quando si era allontanato, lasciandomi.

«Vuoi scommetterci?» domandò ridacchiando.

Molto probabilmente si era accorto della mia pelle d’oca...

 

***

 

Rimasi ferma, coricato sul materasso per quelle che mi parvero ore, prima di riuscire finalmente ad addormentarmi.

Non sognai niente e venni svegliata da una voce bassa e conosciuta che mi stava chiamando: «Helena. Helena? Helena!»

«Lukas, cosa..?» aprii gli occhi e mi ritrovai immersa nel suo sguardo color piombo.

Aveva le sopracciglia aggrottate e i lineamenti seri, doveva essere successo qualcosa mentre dormivo.

«Bimba alzati e metti questi» disse posandomi accanto dei pantaloni color sabbia e una maglia di lana scura.

«Cosa sta succedendo?» chiesi, sollevandomi facendo leva sul gomito.

«Ti spiego tutto più tardi, ora cambiati!» esclamò con un tono di voce impaziente.

Aveva fretta.

Mentre lui era impegnato a riempire uno zaino di vestiti, oggetti e cibo io mi cambiai senza fare storie, ero certa che ci fosse un valido motivo sotto al suo comportamento anormale.

«Sono pronta» lo informai, avvicinandomi a dove si trovava lui.

«Bene, tieni questo» disse porgendomi la sacca, prima di prendermi per mano e di trascinarmi fuori dal casotto.

«Dove stiamo andando?» domandai, infastidita dal suo silenzio.

«Ssh, rischi di svegliare qualcuno o di farci scoprire. Non dire nulla» ordinò passando rasente alcuni muri, prima di giungere ad una delle recinzioni del campo di concentramento.

Si fermò solo quando ci trovammo entrambi davanti ad una piccola porta, di solito sorvegliata giorno e notte, che portava oltre il muro di cinta.

«Lukas? Perché...?» cominciai a chiedere, anche se dentro di me cominciavo a capire: dovevo fuggire, dovevo andarmene, era troppo pericoloso restare un minuto di più e lui voleva proteggere la sua bimba.

Mi zittì con un bacio che sapeva di morte e esilio.

«Devi vivere», mi disse, prima di infilarmi in tasca un piccolo foglietto di carta: «Aprilo solo quando sarai lontana e ricorda: sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada».

«Lukas fuggi anche tu, non posso farcela da sola, ti prego non...» incominciai a singhiozzare silenziosamente con una familiare sensazione di panico ovunque dentro di me.

«Ssh, bimba, andrà tutto bene. Ti amo» disse prendendomi tra le braccai e stringendomi forte a sé: «Qualsiasi cosa accada, voglio che tu mi prometta una cosa: vivi, combatti se necessario, ma vivi e non permettere a nessuno di spegnare il tuo bel sorriso. Me lo giuri?»

«Sì, Lukas, te lo giuro» promisi dandogli un piccolo bacio sullo zigomo e augurandogli buona fortuna: «Ti aspetterò per sempre».

«E io farò di tutto pur di raggiungerti, ma ora devi andare».

Due minuti dopo ero già fuori dal campo di concentramento e correvo, correvo come non avevo mai fatto prima, sentivo i polmoni bruciare e le gambe cedere, ma non mi fermai nemmeno un istante, facendomi largo tra gli arbusti e non badando al dolore che mi assaliva quando i rami mi graffiavano il viso o le braccia, creando profondi graffi sulla mia pelle fredda e quasi insensibile a causa del freddo.

Mi bloccai di colpo in una piccola radura e provai l’insano desiderio di tornare indietro, sentendo la preoccupazione farsi largo dentro di me.

Combattei una dura lotta contro me stessa, prima di chiudere gli occhi e continuare a correre il più lontano possibile da quel luogo infernale e dall’unica persona che mi avesse mai aiutato e protetto.

 

***

 

«Com’è tua madre?» gli chiesi, fissando le stelle che intravedevo attraverso i giornali che coprivano i vetri delle finestre.

«È una donna fantastica, gentile, coraggiosa e testarda» rispose.

«Come te quindi» dissi, sorridendo.

«Pensi che io sia fantastico?» domandò lanciandomi uno sguardo malizioso, che mi fece arrossire fino alla punta dei capelli: «No, non intendevo...» iniziai, ma venni interrotta dalla sua risata.

Era raro vederlo ridere, ma quando accadeva era uno spettacolo che mi faceva sentire meglio ogni volta.

«Sto scherzando, Helena».

Io annuii, ma non dissi nulla.

Avrei voluto tornare indietro nel tempo per poter cancellare la mia reazione perché una cosa era certa:lui, diversamente da come avevo detto, era una persona fantastica.

 

***

 

Quando pensai di aver corso abbastanza, mi fermai.

Potevo scorgere in lontananza le rotaie di un treno, mentre il cielo cominciava a schiarirsi e il sole faceva capolino all’orizzonte.

Mi sedetti ai piedi di una grande quercia e rimasi per alcuni istanti lì, immobile, a riprendere fiato.

Sfiorai la tasca dei miei pantaloni e sentii attraverso la stoffa la consistenza del biglietto che Lukas mi aveva lasciato.

Non riuscii a resistere molto contro la curiosità, così alla fine lo tirai fuori e lo aprii piano, col battito del cuore accelerato e il fiato corto.

C’era solo scritto un indirizzo dove, secondo lui, avrei potuto trovare aiuto e poi poche righe ancora in cui mi prometteva che avrebbe fatto di tutto pur di raggiungermi.

Deglutii rumorosamente, prima di alzarmi di nuovo in piedi e di mettermi in cammino.

“Manterrò la mia promessa Lukas, costi quel che costi, lo farò per te”.

 

 

Estate, 1949

 

 

«Sarah, non ti allontanare troppo» raccomandai alla bambina con le treccine scure che si trovava a pochi passi da me, appena entrammo nel grande parco della città.

«Va bene, Helena!» esclamò prima di fuggire verso le altalene e di lasciarmi sola.

La Guerra era finita, la pace – finalmente – aveva illuminato la mia vita.

Tornai esattamente a quattro anni prima, quando avevo ritrovato mio zio e con lui una famiglia e una speranza per il futuro. Non ero mai riuscita a raggiungere l’indirizzo scritto su quel biglietto e non avevo più notizie di Lukas da quella mattina in cui mi fece fuggire.

Sentii come una pugnalata al petto al pensiero di quel giorno e di quella promessa che gli avevo fatto.

L’avevo mantenuta, ero viva anche se il mio sorriso si era spento insieme alla mia solarità.

La Guerra aveva distrutto vite, famiglie, città, stati...

...Amori.

Mi lasciai cadere su una panchina color muschio e tirai fuori dalla mia borsa un libro.

Lessi appena due righe, prima di alzare il viso e di non vedere più Sarah sull’altalena.

Sentii il panico all’altezza del cuore e rimasi bloccata dal panico per pochi istanti, prima di alzarmi, buttare il libro nella borsa e di incominciare a camminare per il parco alla ricerca della bambina.

“Dove sei finita?!” pensai sconvolta, prima di figurarmi nella mente i visi infuriati dei suoi genitori, che me l’avevano affidata per poter stare un po’ da soli.

Stavo per correre a chiamare la polizia, quando vidi due treccine familiari accanto ad un uomo che si era accovacciato a terra, a quanto pare per sentire ciò che la bambina stava dicendo.

«Sarah!» la chiamai, avvicinandomi a lei: «Ti avevo detto di non allontanarti! Non hai idea della paura che ho sentito quando non ti ho più vista sull’altalena! Non farlo mai più!»

Presi la bambina per un braccio e le lanciai uno sguardo che era un misto tra il sollievo, la preoccupazione e la rabbia.

«Scusa, Helena» disse lei abbassando il volto, mortificata.

Io sospirai, prima di lanciare uno sguardo confuso all’uomo, che nel frattempo si era alzato, mettendo in mostra ben quindici centimetri più di me.

I miei occhi incontrarono due iridi color piombo fuso che mi fecero accelerare i battiti cardiaci e sussultare dalla sorpresa: «Lukas?»

Su quel volto familiare e terribilmente bello vidi comparire quel sorriso dolce e sincero che mi aveva perseguitata per anni, tutte le volte che chiudevo gli occhi.

«Ti ho raggiunta, bimba». 

 

 

 

 

The end

 

 

NdA:

 

*Ho visto un documentario dove dicevano che gli Ebrei e in generale le persone introdotte nei campi di concentramento perdevano il loro nome e veniva loro assegnato un numero, che spesso veniva marchiato loro sulla pelle. Infatti Helena ha il numero 37000370 impresso su un braccio.

 

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Buongiorno a tutti! :)
Spero che vi sia piaciuta questa storia, dato che ci tengo molto.
Ho corretto tutti gli errori che ho trovato, ma se ne avete incontrati altri vi chiedo di scusarci (me e la mia distrazione)... XD
Mi farebbe piacere ricevere qualche vostro commentino (una recensione al giorno toglie il medico di torno... o almeno credo... XD), per sapere cosa ne pensate di Helena e di Lukas (di cui mi sono perdutamente innamorata*.*)!
Vi ringrazio comunque per aver letto questa one-shot - che è arrivata seconda al contest di Flaren97: "Love
Never Fails-Quando anche Cupido sbaglia", facendomi sentire davvero orgogliosa...
Thanks a lot <3

Lazysoul
  
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