Nick Autore: LazySoul (EFP), Lisa.96 (forum)
Titolo: Lost Memories
Rating: Arancione
Genere: Romantico, Storico, Malinconico, Sentimentale
Note/Avvertimenti: One-shot
Introduzione: L’unica cosa che si ricordava della sua intera
esistenza era il suo nome: Helena. Tutto il resto erano pagine di un libro non
ancora finito di scrivere, che faticava a mettere a fuoco. Avrebbe voluto che
quello fosse solo un enorme incubo, ma non era così. Chi erano quegli uomini in
uniforme che vedeva fuori dalle finestre? E quel soldato, entrato nel casotto
in cui si trovava, era un amico o un nemico? Molte domande si affollavano nella
sua mente, ma una in particolare la ossessionava: “Chi sono io?”
NdA: Nel testo si alternano i ricordi (in corsivo) con ciò che sta succedendo nel presente (scrittura
normale), spero che si capisca tutto. Buona lettura!
Lost Memories
Primavera, 1945
Era cambiato tutto da
quando avevo aperto gli occhi, o almeno così mi sembrava, dato che in realtà
non ricordavo niente del passato tranne un nome: Helena.
Era il mio nome?
Si, probabile.
Eppure il dubbio si
fece largo tra i miei pensieri mentre mi guardavo intorno e capivo dove mi
trovavo: era una stanza buia e l’unica fonte di luce filtrava da una piccola
finestra ricoperta con della carta di giornale. Mi trovavo su un materasso con
le molle distrutte e accanto a me vedevo un piccolo tavolino di legno scuro e
pieno di buchi, avevo freddo e quella piccola e leggera coperta, che qualcuno
mi aveva probabilmente gettato addosso, non mi copriva abbastanza per farmi
sentire anche solo un po’ al caldo. L’aria era pesante e dalle pareti si
vedevano cadere frammenti di vecchia vernice.
La solitudine era
tremendamente soffocante, eppure non mi sarei fatta prendere dal panico, avrei
combattuto, avrei fatto di tutto pur di fuggire o anche solo di capire che cosa
mi stava succedendo.
Mi sollevai appena,
facendo leva con i gomiti e cercando di abituare la vista al buio per poter
scorgere qualcosa di più di quello che mi circondava.
Riuscii a distinguere
una bottiglia di vetro mezza rotta a terra e poco distante un’altra brandina
vuota, una scatola di fiammiferi, alcune candele spezzate o del tutto
consumate, un piatto sporco e unto e un libro aperto a metà con alcune pagine
strappate accanto.
Tutti quegli oggetti
mi fecero sentire ancora più sola e perduta.
Mi alzai in piedi
tenendomi stretta intorno al corpo la coperta bucherellata che rappresentava il
mio unico indumento e mi avvicinai alla finestra, sbirciando attraverso un
piccolo buco tra un giornale e l’altro ciò che c’era fuori.
Vidi della terra
brulla, dei piccoli casotti molto simili tra di loro e degli uomini in divisa
che marciavano ordinatamente da una parte all’altra del campo sgombro.
Poi ci fu il suono di
una tromba e vidi uscire dai casotti donne, bambini e uomini.
Avevano un aspetto
terribile, alcuni erano magri all’inverosimile e faticavano a reggersi in
piedi, altri invece avevano ferite sul volto o si trascinavano dietro una gamba
rotta.
Sbarrai gli occhi a
quella vista raccapricciante, sentendo la nausea e un senso di terrore
impadronirsi di me.
Tutte quelle persone
si misero in riga di fronte ad alcuni soldati, che sembrava stessero facendo
l’appello.
Alla fine del lungo
elenco uno degli uomini in uniforme più basso lesse un altro elenco e gli
uomini e le donne nominati fecero di nuovo un passo avanti restando fermi
immobili con un espressione di terrore e rassegnazione in volto.
Alla fine di quel
secondo appello le persone che erano state chiamate vennero condotte verso uno
dei casotti più grandi da un paio di soldati, mentre quelli che non erano stati
nominati tornavano da dove erano venuti.
Sentii brividi di
freddo e di paura salirmi lungo la spina dorsale, mentre mi chiedevo cosa
diavolo ci facevo in un posto del genere.
Indietreggiai, andando
a sbattere con il sedere contro il tavolo che emise un lieve cigolio che però
mi gelò il sangue nelle vece facendomi rimanere immobile per alcuni
agghiaccianti minuti.
Quanto tornai a
respirare mi accorsi che ero ancore viva e che nessun soldato mi aveva
scoperto.
Osservai intensamente
una parete, mentre cercavo di rallentare il martellare furioso del mio cuore,
notando a terra uno specchio rotto in alcuni punti.
Mi avvicinai
esitante, facendo attenzione a non pestare qualche vetro e, grazie alla poca
luce, riuscii a specchiarmi.
Osservai i miei
capelli scuri ricci e spettinati scendere ad accarezzarmi le spalle e la
schiena, avevo la pelle candida e nessun livido, diversamente dalle donne che
avevo visto allineate davanti ai soldati poco prima, i miei occhi erano chiari,
ma non riuscivo a capire – e ricordare – se erano grigi, azzurri o verdi, forse
un miscuglio dei tre colori.
Non ero brutta, su
questo ero sicura, ma non ero nemmeno lontanamente bella.
In quel momento, mentre
cercavo di legarmi in modo impacciato la coperta intorno al corpo come se fosse
un vestito mi tornò in mente una scena che
avevo dimenticato, che sembrava appartenere a una vita prima.
***
Guardavo con occhi
incantati mia sorella, indossava un bellissimo abito da sposa e aveva i capelli
legati sulla testa in un modo maledettamente elegante che mi fece sentire
davvero gelosa di lei e della sua fortuna sfacciata.
Si stava per sposare!
Tutta la casa era in
fermento, mamma e papà erano quelli più eccitati di tutti, mentre cercavano di
prevedere ogni singolo momento, così da poter poi essere preparati, mentre mia
sorella era al settimo cielo e attendeva impaziente la data delle nozze.
***
Tornai al presente,
sentendo delle lacrime premere per bagnarmi il volto e un groppo in gola che mi
faceva mancare l’aria.
Tornai al materasso e
mi sdraiai stringendo al petto un piccolo cuscino con la fodera rotta che
perdeva piume un po’ ovunque.
Cominciai a piangere
come non avevo mai fatto in vita mia, cercando di fare meno rumore possibile
per paura che qualcuno mi scoprisse.
Non ricordare niente
era tremendo, era qualcosa che mi distruggeva dentro, che mi faceva sentire
sola e impotente.
Ero il nulla, e nessuno mi avrebbe aiutata a ricordare chi ero, da dove
venivo. L’unica cosa che mi rimaneva era un nome.
Un rumore di passi
troppo vicino mi fece sussultare e trattenere il fiato.
Mi sollevai da terra
raccogliendo la bottiglia mezza distrutta e alzandola in aria come se fosse
stata una mazza.
Sentii la maniglia di
una porta, che non riuscivo a scorgere da nessuna parte, girare e poi il
cigolio dei cardini.
Nella stanza entrò
qualcuno che si richiuse subito la porta alle spalle, facendo pochi passi verso
di me.
Quando lo sconosciuto
venne illuminato dalla luce sentii qualcosa dentro urlare parole
incomprensibili che però mi fecero abbassare la guardia.
Era giovane, doveva
avere massimo vent’anni, aveva i capelli talmente chiari da sembrare bianchi e
possedeva dei bellissimi e alquanto tristi occhi azzurri.
Quando i nostri
sguardi si incontrarono lo vidi sorridere appena: «Ti sei svegliata finalmente,
come stai?»
Tentò di fare un
passo verso di me, ma indietreggiai guardandolo confusa.
Era un soldato,
perché allora non mi guardava con disprezzo e superiorità?
Chi era lui?
Perché mi era così familiare?
«Non ti ricordi di
me?»
Avrei voluto dirgli
di si, ma non volevo mentirgli così scossi appena la testa, vedendo il suo
volto adombrarsi.
«Questa proprio non
ci voleva» mi guardò per alcuni istanti, soffermandosi sulla coperta che mi
copriva il corpo, prima di tornare ad incontrare i miei occhi chiari: «Se vuoi
posso raccontarti tutto quello che so, magari in questo modo alcune cose ti
torneranno in mente»
Stavo pensando alla
sua proposta quando lo vidi togliersi la giacca della divisa e poi la camicia.
Cosa aveva in mente
di fare?
Solo perché mi
sembrava terribilmente familiare questo non gli avrebbe permesso di toccarmi!
Lui doveva aver
capito quello che mi passava per la mente, dato che mi tranquillizzò con poche
parole: «Stai tranquilla, non voglio farti del male, mi sto solo togliendo la
camicia, così puoi coprirti un po’, devi aver freddo...»
Lasciai ricadere la
mano che stringeva la bottiglia lungo il fianco, mentre sentivo delle lacrime
salate bagnarmi il volto.
Si preoccupava di me
e forse era l’unico, in quel luogo orribile.
Lo vidi avvicinarsi
lentamente, mentre mi porgeva guardingo la camicia, osservando con aria
leggermente spaventata la bottiglia che tenevo in mano.
«Che ne dici di darla
a me? Rischi di farti male e...» lo guardai dritto negli occhi per alcuni
istanti.
Sentii la sua mano
sfiorarmi appena le dita che stringevano il collo della bottiglia e il contatto
con la sua pelle mi fece sussultare e lasciare la presa, mentre indietreggiavo
di alcuni passi, appiattendomi contro la parete con la mente invasa dai ricordi
che finalmente stavano tornando.
***
Ero nascosta dietro
ad una parete e spiavo con un misto di orrore e curiosità quello che un giorno
o l’altro sarebbe successo anche a me. Momentaneamente non ero ancora stata
nominata nella seconda lista, probabilmente perché ero abbastanza furba e in
gamba da aggiustarmi anche lì, all’inferno, ma soprattutto a non farmi notare
troppo.
Sporsi appena il
volto, guardando una donna che teneva per mano un bambino che doveva avere otto
o nove anni che guardava intorno spaventato a morte, dietro di loro un uomo con
il volto sfregiato e senza un orecchio che non faceva altro che aggiustarsi i
polsini della giacca logora e stracciata dal tempo, dietro ancora c’erano un
uomo e una donna che si tenevano teneramente per mano e che non smettevano di
cercarsi con gli occhi.
Distolsi lo sguardo e
tornai a nascondermi dietro alla parete con il respiro affannato.
Avrei tanto voluto
piangere e urlare, ma sapevo che non sarebbe servito a nulla.
Una parte di me era
curiosa, voleva vedere altre persone condannate prima di non poterle vedere mai
più, allo stesso tempo però volevo fuggire, darmela a gambe il più velocemente
possibile.
Esitai qualche
secondo e se non l’avessi mai fatto non avrei sentito una mano forte afferrarmi
per una spalla e farmi voltare di scatto.
Mi ritrovai davanti
uno dei soldati più giovani che mi scrutava incuriosito e infastidito allo
stesso tempo.
«Che ci fai qui?
Questa è zona vietata» disse con un tono di voce deciso e annoiato allo stesso
tempo.
«Stavo cercando... »
cominciai, prima di rendermi conto che non sapevo come continuare la frase.
“Improvvisa!” mi urlò
una voce nella testa, facendomi uscire dalle labbra la scusa più idiota del
mondo: «... il bagno».
Lui alzò un
sopracciglio, probabilmente si stava chiedendo se lo stavo prendendo in giro o
no, prima di avvicinare troppo il viso al mio: «Chi ti credi di essere?»
Il suo tono di voce
tagliente mi fece tremare appena le gambe dalla paura e sperai che non se ne
accorgesse, perché quella era la regola principale: “Mai mostrarsi deboli”.
«No, io...» mi
bloccai, prima di ritrovare il mio sangue freddo e sfidarlo con lo sguardo:
«Come chi mi credo di essere? Credi di essere qualcuno solo perché segui le
idee di un pazzo razzista? Che poi io non dovrei neanche essere qui perché io non sono ebrea!»
gli piantai il dito indice contro il petto, mentre lo vedevo guardarmi
sconvolto: «Sono una ragazza come tante, magari non bellissima, ma questo non
significa che debba essere qui! Sai qual è il problema? È che io non ho nessuno
qui, NESSUNO! E questo perché i miei genitori sono stati uccisi davanti ai miei
occhi, come anche mia sorella! La mia bellissima sorella che si sarebbe dovuta
sposare pochi giorni dopo! E questo perché sono stata codarda, perché mi sono
nascosta quando ho sentito il primo sparo, ma per mia sfortuna da dove mi
trovavo ho visto tutta la scena e non hai idea di cosa significhi vedere tua
madre e tua sorella essere violentate, picchiate e uccise davanti ai tuoi
occhi!» una lacrima calda mi scivolò lungo la guancia, ma non smisi di parlare
e di sfogarmi, non mi m’importava di morire, perché quella in qualsiasi caso non
era vita: «E non sai cosa significhi venire scoperte e temere di fare la
stessa fine della tua famiglia, non puoi nemmeno lontanamente immaginare come
ci si senta quando la cameriera, quella che non hai mai considerato perché
pensavi fosse pazza, da la sua vita per concedere a te di vivere ancora qualche
giorno, ma sai una cosa? Avrei preferito morire perché questa non è vita!
Questa è sopravvivenza, vince il più forte, ma il problema è che mi sono
stancata di combattere per un tozzo di pane che non riesce nemmeno a sfamarmi o
di mezza patata completamente impolverata e magari ricoperta di germi che però
mangi lo stesso perché se hai fame non fai lo schizzinoso e preferisci
rischiare di ammalarti piuttosto che sopportare ancora i crampi allo stomaco! E
sai che ti dico? Preferisco che tu mi uccida ora, piuttosto che dover
sopportare ancora un giorno la puzza di morte che sento quando mi sveglio la
mattina, oppure di dover tremare come una foglia durante l’appello per paura di
essere chiamata per esser sterminata e la paura che sento quando un soldato
qualsiasi mi guarda, per paura che faccia a me ciò che hanno fatto a mia madre
e a mia sorella!»
I suoi occhi erano
sbarrati dallo stupore, mentre mi sentivo all’improvviso più leggera, era come
essersi gettata dietro alle spalle una pietra che non sapevi di avere legata
all’altezza del cuore.
Il soldato non disse
una parola, mentre continuava semplicemente a guardarmi.
«Cosa stai
aspettando? Uccidimi» gli dissi con la lacrima di prima che si era fermata
all’altezza delle labbra.
Lui scosse
violentemente la testa e mi prese per il gomito, trascinandomi fino ad un
casotto, il più lontano possibile dalle camere a gas.
«Non si entra nella
zona vietata, chiaro?» ripeté, prima di scomparire e lasciarmi sola.
Io mi accasciai
contro il muro, mentre mi stringevo le gambe contro il petto e affondavo il
viso tra le braccia, iniziando a singhiozzare.
Non so quanto tempo
passò, ad un certo punto sentii un rumore di passi e vidi di nuovo il soldato
giovane di fronte a me. Lui si accovacciò vicino a dove mi ero rannicchiata e
mi porse un panino bollente al tatto e una mela verde.
Lo fissai a lungo con
gli occhi ancora lucidi e le guance arrossate, incerta sul da farsi.
«Non hai fame?» mi
chiese sbrigativo, probabilmente col timore che qualcuno dei suoi compari lo
vedesse.
«Cosa stai facendo?»
gli chiesi, con gli occhi fissi nei suoi che erano di un bellissimo color
grigio azzurrino.
«Mangia» disse e
quella parola sembrava in un modo impressionante un ordine.
«Perché?» domandai,
insicura di cosa avrei dovuto provare, percependo una strana sensazione di
felicità all’altezza del cuore.
«Perché hai fegato e
perché mi sembri familiare» rispose spiazzandomi, prima di continuare a
parlare: «I tuoi occhi mi sembra di averli già visti, solo non ricordo... Come
ti chiami?»
«Helena... voglio
dire io sono 3700037o. Numero 37000370 *» risposi mentre mi rigiravo il panino
tra le mani, ne spezzavo un pezzetto sentendolo morbido e con un odore
delizioso e lo mangiavo con lo stomaco che brontolava.
«Io sono Lukas»
disse, mentre mi guardava finire in pochi attimi ciò che mi aveva dato: «Non
devi ingozzarti» aggiunse con una punta di rimprovero nella voce.
Mi venne voglia di
ribattere: “Sono due giorni che magio poco o niente! Vorrei vedere te al mio
posto!”, ma non dissi niente, fermandomi a fissarlo.
Mi chiesi cosa
l’avesse spinto ad aiutarmi.
Sembrava troppo
banale come scusa il fatto che gli sembravo familiare, mi stava nascondendo
qualcosa?
E se...
«Sei uguale identica ad
una mia vecchia amica» mormorò, facendomi sussultare: «Stesso colore di
capelli, stessi occhi... hai un viso leggermente diverso però...»
Continuò a fissarmi
per qualche manciata di secondi, prima di distogliere lo sguardo e allontanarsi
in fretta, lasciandomi sola.
Incredibile, ma forse
mi ero fatta un amico...
***
Era davvero lo stesso
soldato del ricordo?
Mi chiesi mentre lo
osservavo posare sul tavolino tarlato la bottiglia mezza distrutta, prima di
porgermi gentilmente la sua camicia bianca e stirata, che sapeva di pulito.
Cercai di fare un
passo indietro, ma mi era impossibile, così ne feci uno laterale, tentando di
allontanarmi.
I ricordi che avevo
ritrovato erano positivi o almeno, non del tutto negativi, su di lui, ma avevo
paura, una paura atroce che non riuscivo in nessun modo ad affievolire.
«Non voglio farti del
male, Helena» mormorò, facendo un passo esitante verso di me.
Sentii immediatamente
il freddo che albergava nel mio cuore scaldarsi.
Il mio nome sulle sue
labbra era tremendamente dolce, scivolava fuori dalla sua bocca in modo quasi
provocante, sembrava avermi promesso la vita eterna con quel semplice suono; ne
rimasi incantata.
Provai l’istinto di
abbracciarlo e di piangere ancora, ma non lo feci.
Rimasi ferma immobile
a fissarlo, sentendo il cuore impazzito e i muscoli tesi.
Lo vidi fare un altro
passo verso di me e mi ci volle tutto il mio autocontrollo per non allontanarmi
ancora da lui.
Fissai la sua mano a
pochi centimetri da me, che teneva stretta la camicia bianca, e lentamente ne
afferrai un lembo con le mie dita tremanti a causa dei vari sentimenti
contrastanti che albergavano nel mio cuore; paura e sorpresa, stupore e
terrore.
«Grazie» mormorai,
sentendo il tessuto leggermente ruvido a contatto con la mia pelle, ma ancora caldo
di lui rispetto al gelo che sentivo ovunque sul corpo.
«Non devi
ringraziarmi, bimba» disse, indossando di nuovo la giacca, coprendo la
canottiera che non lasciava molto all’immaginazione, mentre continuava a
guardarmi.
«Bimba?»
sussurrai, alzando un sopracciglio, sorpresa.
Se avevo pensato che
il mio nome detto da lui sembrasse provocante era solo perché non l’avevo mai
sentito chiamarmi in quel modo.
***
«Dovresti smetterla
di spuntare all’improvviso» ansimai, a causa della corsa che mi ero dovuta fare
per raggiungere il casotto accanto al filo spinato.
«Scusa» disse
sbuffando, mentre mi porgeva un fagotto riempito da qualcosa che profumava di
buono.
Lo presi e non potei
evitare di sorridere al contatto col tepore di quei biscotti.
«Hai corso?» mi
chiese appoggiandosi ad un muretto di pietra alto mezzo metro, prima di
sedercisi sopra.
«Perché?» domandai a
mia volta, ancora guardinga e indecisa su come mi sarei dovuta comportare con
lui.
«Curiosità» rispose,
appoggiando una mano accanto a sé e facendomi segno di sedermi lì.
Provai lo strano
istinto di scuotere la testa e fargli la linguaccia, ma mi diedi immediatamente
un po’ di contegno e mi avvicinai a lui.
Ecco ciò che ancora
non capivo: come facesse a tirar fuori la parte più infantile e testarda di me.
«Ho corso perché
pensavo di essere in ritardo» ammisi, addentando un biscotto ed emettendo uno
strano suono di felicità.
«Sei tutta rossa»
constatò guardandomi in volto.
«È per la corsa»
dissi sbrigativa, sperando che smettesse di fissarmi.
Mi metteva in
imbarazzo il modo in cui mi studiava, mi sentivo una cavia da laboratorio.
«Solo per quello, bimba?» chiese,
sorridendo appena, mentre sentivo altro calore defluire sulle mie guance.
«C-come mi ha-hai
chiamato?» domandai, sbigottita, fissando i suoi occhi azzurri e limpidi.
«Non ti piace, bimba?»
Stavo per urlargli
contro che no, non mi piaceva affatto, quando mi bloccai di colpo.
Era una provocazione?
Mi stava provocando?
Beh, in questo caso
non gli avrei dato soddisfazione.
«Fa un po’ come ti
pare» risposi, smettendo di guardarlo e tornando a mangiucchiare
silenziosamente i biscotti ancora caldi.
Per qualche minuto
non parlò nessuno dei due e l’unica cosa che riuscivo a sentire era il suo
respiro e il mio, regolari e vicini.
«Dovrei andare»
disse, spezzando il momento di stasi che si era creato: «Ci vediamo questa sera
davanti al casotto 7. Va bene?»
Io annuii piano: «Va
bene».
Mi passò una mano tra
i capelli, scompigliandomeli: «Fa la brava, bimba».
***
«Non la indossi?» mi
chiese Lukas, lanciando occhiate veloci da me alla camicia che ancora stringevo
tra le mani.
«Io...» incominciai,
prima di vederlo voltarsi di scatto.
«Adesso va bene?»
domandò sbuffando impaziente.
Possibile che fosse
in grado di leggermi nel pensiero? Come aveva fatto a capire che mi metteva in
imbarazzo vestirmi davanti a lui?
«Sì, grazie» risposi,
slegando il piccolo nodo che stringeva la copertina bucherellata sul mio seno,
prima di lasciarla cadere a terra e di indossare quell’indumento che mi stava
largo.
«Fatto?» chiese lui,
mettendosi le mani in tasca.
«Sì» sussurrai con un
filo di voce, mentre raccoglievo da terra la copertina e ma la portavo
all’altezza del petto per coprirmi il seno, che di sicuro si intravedeva
attraverso la stoffa chiara della camicia.
Tornò a fissarmi con
un sorriso triste sulle labbra: «Davvero non ricordi nulla di me?»
«Ti chiami Lukas e...
e mi hai aiutato, mi hai dato da mangiare... però, oltre questo, non ricordo
nulla...» ammisi, camminando fino alla brandina a terra in cui mi ero svegliata
e sedendomi sopra.
Mi presi il viso tra
le mani, mentre cercavo di ricordare, di dare senso ad ogni frammento, di
collegarli tra di loro, di...
«Non devi sforzarti, bimba.
Abbiamo tutto il tempo che vuoi a nostra disposizione» sussurrò sedendosi
accanto a me e prendendo una mia mano tra le sue.
Il contatto con la
sua pelle bollente mi fece sorridere.
***
«Il tuo colore
preferito?» mi chiese Lukas, giocherellando con un bottone mezzo scucito della
sua divisa.
Io aggrottai lo
sopracciglia, mentre addentavo la mela rossa che mi aveva portato: «Verde».
«Perché il verde?»
«Perché è il colore
della natura, della speranza e della vita» risposi prontamente: «Il tuo?»
«Il blu».
«Perché?» domandai a
mia volta.
«Perché è il colore
che vedi la notte, e poi mia madre aveva gli occhi blu.»
«Come si chiamava?»
chiesi, guardando assorta le sue dita che giocavano con quel bottone.
«Chi?»
«Tua madre»
specificai.
«Greta» mormorò,
incatenando i miei occhi nei suoi.
Restammo a fissarci
per pochi istanti, prima che lui continuasse con le sue domande.
«Il tuo primo ragazzo
come si chiamava?» domandò sorridendo, divertito dalla mia espressione
imbarazzata.
«Non mi ricordo
bene...» risposi imbronciata.
«Non preoccuparti, bimba, abbiamo
tutto il tempo che vuoi a nostra disposizione»
***
«Avrei dovuto
portarti qualcosa di comodo da indossare, per fortuna non fa freddo come un
paio di settimane fa...» mormorò Lukas, mentre continuava a stringermi la mano,
scaldandomi le dita intorpidite dal freddo.
«Dove sono finiti i
miei vestiti?» chiesi, fissando con una strana sensazione all’altezza del petto
un foglio a terra, sul quale vi era disegnato un omino stilizzato con un naso e
dei piedi enormi; sembrava un pagliaccio.
«Beh...mmh...i-io...»
iniziò a farfugliare, attirando la mia attenzione.
Il suo viso era
leggermente colorato da un tenero rosa all’altezza degli zigomi, mentre
continuava a passarsi una mano tra i capelli, esternando il suo imbarazzo.
Lo vidi aprire la
bocca un paio di volte, quasi volesse dire qualcosa, prima di richiuderla
istantaneamente.
«Cos’è successo? Me
li hanno rubati?» domandai, confusa.
Lui scosse la testa,
prima di voltare il viso verso di me e di incontrare i miei occhi.
Nel suo sguardo
potevo leggere imbarazzo, tristezza, dolore, tormento, furia...
Eppure c’era
qualcos’altro che mi sfuggiva.
«Si son rotti?»
riprovai.
«In un certo senso»
lo sentii sussurrare con un tono di voce duro, che mi fece rabbrividire.
Stavo per chiedergli
altre spiegazioni, quando mi tornarono alla mente poche immagini che mi fecero sussultare.
***
Un uomo alto, spalle
larghe e occhi di ghiaccio stava marciando svogliatamente verso le camere gas.
Doveva avere una
quarantina d’anni, se non di più e nel suo sguardo si poteva scorgere soltanto
disprezzo e fastidio.
Lo stavo osservando
da lontano, perché avevo paura di quell’uomo, del Generale.
Fin dalla prima volta
che ero stata introdotta in quel campo avevo notato il modo in cui guardava le
donne in generale, più o meno giovani, e una semplice parola mi era venuta in
mente: violentatore.
Gli piaceva far del
male, gli piaceva eccome.
Era per questo che
cercavo in tutti i modi di stargli alla larga, non ero mai stata una persona
masochista e non avrei iniziato in quel momento.
Lo vidi fermarsi
accanto ad un casotto e sbirciare attraverso la finestra.
Stava cercando una
preda.
Non riuscii a
trattenermi oltre e fuggii il più lontano possibile.
***
Sbarrai gli occhi
dalla paura mentre altre immagini mi invadevano la mente.
***
«Generale, l’abbiamo
trovata accanto alle camere a gas, che ne facciamo?» chiese il soldato che mi
teneva dolorosamente per un gomito, facendomi fermare a pochi passi dal mio
incubo personale.
L’uomo in questione
mi fissò con uno sguardo da malato, mentre ghignava.
Non potei impedirmi
di rabbrividire.
«Non vi preoccupate,
ci penso io ad insegnarle che le regole vanno rispettate» disse il Generale,
congedandoli subito dopo.
Appena gli altri
soldati se ne furono andati, si avvicinò con una grande falcata a me e mi
accarezzò il volto.
«Ma che bella
ragazzina» mormorò, prima di afferrarmi il braccio sinistro e di sollevarmi la
manica del maglione che indossavo.
Puntò gli occhi sul
numero che mi era stato impresso a fuoco appena entrata nel campo di
concentramento, prima di strappare bruscamente il davanti del maglione.
Mi sentii
singhiozzare senza nemmeno rendermene conto e d’istinto mi portai le mani sul
petto, per coprirmi.
Stavo per urlare,
quando dalla porta dietro di me sentii un forte bussare.
«Avanti» disse
infastidito dall’interruzione, il Generale, prima di allontanarsi di qualche
passo da me e di poggiare le mani sulla piccola scrivania del suo ufficio.
«Spero di non
disturbare Generale, ma alcuni soldati mi hanno chiesto di riferirle che manca
il numero 40678951 all’appello e che è stato trovato un buco nella recinzione a
nord del campo» disse una voce fin troppo familiare, mentre, impacciata,
continuavo a stringermi addosso il maglione ormai distrutto e irreparabile.
Il Generale fissò
insistentemente Lukas accanto a me, prima di dire: «Vado di persona a dare loro
ordini e indicazioni su come agire».
Fece due passi verso
di me e mi tirò uno schiaffo in pieno di viso, facendomi singhiozzare ancora
più forte, mentre copiose lacrime mi scivolavano lungo il viso.
Vidi la mano di Lukas
stringersi a pugno, mentre il mostro che mi trovavo di fronte mi prendeva per
un braccio e mi faceva cadere brutalmente a terra.
Battei dolorosamente
la testa e in pochi istanti persi i sensi.
L’ultima cosa che
percepii furono le mani ruvide ma delicate di Lukas che mi sollevavano da terra
e mi stringevano a sé.
***
Sbarrai gli occhi a
quel ricordo: «Da quant’è che dormo?» mormorai toccandomi esitante la nuca e
percependo una fitta di dolore.
«Una settimana e due
giorni, ho temuto che non ti saresti più svegliata» disse tirando fuori dalla
tasca del pane, una mela e dei biscotti: «Credo che tu abbia fame».
Non gli diedi nemmeno
tempo di finire la frase che mi ero già avventata sul pane, sentendo lo stomaco
brontolare insistentemente per la fame.
Lo sentii ridere
piano: «Con calma, non scappa mica».
Sentii una strana
sensazione al petto, quando sentii una sua mano accarezzarmi i capelli.
“Chi sei tu?”
Pensai, ma non dissi
nulla, mi limitai a fissarlo e ad osservare la sua espressione; sembrava quasi
su un altro mondo, gli occhi parevano guardare lontano, mentre le labbra erano
atteggiate in un sorriso piccolo e delicato che rendeva il suo viso ancora più
angelico.
«Mi sei mancata, bimba»
mormorò a un soffio dal mio viso, baciandomi la tempia e facendo scivolare la
mano lungo la mia schiena, coperta solo dalla camicia chiara.
“Chi sei tu?”
Sentii le dita
risalire lungo la mia spina dorsale, fino a fermarsi all’altezza della nuca e
prima di tornare ad accarezzarmi dolcemente i capelli, mentre l’altra mano mi
aveva afferrato delicatamente per un fianco e mi teneva stretta a sé.
“Chi sei tu?”
«Bimba...»
sussurrò piano mordendomi il lobo dell’orecchio.
Sentii il fuoco
nascermi dentro ed espandersi ovunque nel mio corpo infreddolito, mentre lo
guardavo sconvolta.
“Chi sei tu?”
***
«Zitta!» mormorò
appoggiandomi una mano sulle labbra e guardandomi con gli occhi sbarrati dallo
spavento.
«Dov’è finita la
ragazzina?» chiese una voce oltre la porta, che mi fece tremare dalla paura.
«Che ragazzina?»
rispose qualcuno, prima che dei passi veloci si allontanassero.
Sentii la mano di
Lukas abbandonare il mio volto: «C’è mancato molto poco bimba, mi vuoi
spiegare perché diavolo ti è venuto in mente di venire qui, nelle camere di noi
soldati cattivi?»
Aprii e richiusi la
bocca un paio di volte, prima di trovare il coraggio di parlare: «Non volevo
venire qui, ma quell’uomo mi inseguiva e... i-io non sapevo dove andare...
c-continuava ad urlarmi di fermarmi e di fare la b-brava, ma... l-lui
voleva...voleva...»
A quel punto non
riuscii più a continuare, sentendo brividi di paura ovunque e le lacrime
riempirmi gli occhi.
Percepii le sue
braccia stringermi delicatamente a sé e mi sentii istantaneamente bene e al
sicuro.
«Ssh, non piangere bimba, qui nessuno
ti farà del male» mormorò passandomi una mano tra i capelli, spettinati e
sporchi.
Mi allontanai di
scatto da lui, chiedendomi perché fosse sempre così dolce e premuroso, perché
non mi guardasse con disprezzo, perché non mi insultasse...
Cos’è che lo aveva
spinto ad aiutarmi?
«Hai bisogno di
rilassarti bimba,
ti va un bagno?» chiese, dirigendosi verso un piccolo separé alla destra del
suo letto.
«Un b-bagno?»
domandai confusa, seguendolo e ritrovandomi di fronte ad una grande vasca.
«Vado a prendere
dell’acqua, tu aspetta qui, se vuoi puoi fare che spogliarti...»
«Spogliarmi?» chiesi
allarmata, fissandolo sconvolta.
Lui sospirò: «Giuro
che...»
«Te lo scordi che mi
spoglio davanti a te!» esclamai, forse a voce troppo alta, dato che mi guardo
con uno sguardo duro e infastidito.
«E perché no? Non ti
fidi?» chiese avvicinandosi a me, scrutandomi in modo strano.
«Certo che mi fido,
semplicemente non penso che sia appropriato» risposi lanciandogli uno sguardo
di fuoco.
«E cosa pensi che sia
appropriato?» domandò prendendo le mie braccia e passandosele dietro al collo, avvicinando
i nostri corpi.
Era la seconda volta
che ci ritrovavamo così vicini, e non ero certa che anche questa volta sarei
riuscita a fermarlo.
Il problema era che
lui sembrava leggermi dentro, sembrava sapere perfettamente quello che sentivo,
provavo, pensavo, credevo e sognavo.
«Lukas smettila
di...» non riuscii a continuare sentendo la sua fronte contro la mia e i suoi
occhi che mi fissavano talmente intensamente da sembrare dentro di me.
«Di?» mi spinse a
continuare, accarezzandomi la schiena.
«Di giocare» dissi,
fissandolo confusa e insicura.
«Io non sto giocando»
sussurrò, passandomi una mano tra i capelli e prendendomi per la nuca
avvicinandomi ancora di più a sé, fino a quando le sue labbra di non si
trovarono sulle mie.
***
Mi portai una mano
alle labbra al ricordo di quel bacio e lo guardai sconvolta, mentre lo sentivo
abbracciarmi e sussurrare il mio nome a pochi millimetri dal mio orecchio.
Sentii un rumore di
passi fuori dal casotto e rabbrividii al pensiero del Generale.
Lukas, mi strinse
ancora di più a sé, forse pensava che i brividi fossero di freddo...
«Helena?», mi chiamò
accarezzandomi la guancia: «Davvero non ti ricordi nulla?»
Stavo per rispondere
che sì, qualcosa mi era tornato in mente, quando un urlo lontano mi fece
sussultare e stringere ancora di più a lui.
«Cosa sta
succedendo?» chiesi spaventata, tremando senza controllo.
«Calmati bimba,
non ti accadrà nulla. Qui sei al sicuro, ti proteggerò io...» disse cercando di
calmarmi.
«Cos’è stato?»
domandai, mentre registravo il fatto che l’urlo udito poco prima non poteva
appartenere ad un uomo.
«Non lo so,
Helena...» mormorò baciandomi vicino alle labbra: «L’importante è che tu stia
bene, l’unica cosa che conta per me in questo momento è che tu stia bene»
Sentii calde lacrime
bagnarmi le guance e non potei impedirmi di gettargli le braccia al collo e di
stringermi a lui.
«Non ce la faccio
più, ho tanta paura!» dissi, singhiozzando e asciugandomi il volto sul tessuto
della sua giacca.
«“Non devi pensare a
quello che c’è fuori, concentrati su ciò che ti sta intorno”, ti ricordi? Me
l’hai detto tu una volta...» mormorò, stringendo tra le mani il mio unico
indumento, stropicciandolo tutto.
«Fammi pensare ad
altro» sussurrai senza pensarci, incatenando il mio sguardo al suo.
Lui sorrise appena,
prima di sfiorarmi una guancia con le dita e di baciarmi appena le labbra.
In quell’istante
smisi di pensare a qualcosa di preciso, sentendo un fuoco rovente dentro di me
e una particolare sensazione di languore.
Il bacio, da delicato
e dolce, divenne in un istante molto più intenso e frenetico, facendo tornare a
galla il ricordo di altri mille baci rubati e prematuramente dimenticati.
***
«Baciami, bimba» sussurrò,
avvicinandomi a sé e facendomi sorridere come una ragazzina la mattina di
Natale davanti ad una montagna di regali.
Mi avventai sulla sua
bocca, mentre sentivo il freddo della parete dietro di me e il caldo del suo
corpo contro il mio.
Avrebbe potuto
vederci chiunque, ma l’attrazione che sentivo per lui era un qualcosa di
incontrollabile, mi sentivo una ragazza alla sua prima cotta e, in effetti, era
ciò che ero...
***
«Helena, non dovresti
essere qua, se qualcuno ti vede...» mormorò Lukas, facendomi entrare nella sua
stanza, in modo che nessuno potesse scoprire la mia presenza.
«Si, hai ragione.
Scusa. Ma avevo bisogno di vederti» ammisi, appoggiandomi alla porta della
camera.
Lui sorrise,
baciandomi: «Ti perdono, bimba, ma la prossima volta...»
«Si, lo so, la
prossima volta ti avverto, prima di sbucare qui all’improvviso» dissi, precedendolo.
«Non l’hai mai fatto»
sussurrò ridacchiando, mentre mi baciava il collo e la gola.
«Prima o poi lo
farò...»
***
«Implorami» mormorò
tenendomi le mani bloccate sopra la testa.
«Mai» ripetei
fissandolo con uno sguardo di sfida.
«Va bene, l’hai
voluto tu...» minacciò iniziando a farmi il solletico all’altezza della pancia
e del collo.
«Ah, basta! Ahahah!»
dissi tra le risate dimenandomi sotto di lui, prima di sentire la sua bocca
sulla mia e le nostre lingue giocare in sincronia.
«Chi ha vinto?»
chiesi, ridendo, prima di perdermi nel suo sguardo di piombo fuso.
«Entrambi, bimba».
***
Sentii le sue mani
accarezzarmi con una lentezza disarmante le gambe e non potei impedire ad un
piccolo gemito di uscire dalle mie labbra.
«Lukas, a-aspetta»
mormorai, percependo le sue mani sotto il tessuto della camicia bianca che
indossavo.
Lui si bloccò di
colpo, guardandomi negli occhi.
Sembrava un angelo; i
capelli dorati che gli ricadevano sulla fronte, gli occhi chiari dello stesso
colore delle nuvole in autunno, le labbra gonfie e arrossate dei baci e le
guance leggermente colorate per l’emozione.
«Helena, scusa, io...
non so cosa mi è preso... non avrei dovuto...» disse allontanandosi da me e
alzandosi in piedi, inquieto.
Lo vidi muovere
alcuni passi verso la porta del casotto e gli corsi dietro, bloccandolo: «Dove
stai andando?»
Non poteva lasciarmi,
non in quel momento, in cui avevo assolutamente bisogno di lui.
«Bimba, se
resto qui ancora un po’ rischio di fare cose che tu non vuoi che io faccia, oltre
al fatto che magari qualcuno potrebbe accorgersi della mia assenza e in quel
caso finiremmo tutti e due nei guai e io non voglio che accada, quindi...»
Gli getti le braccia
intorno al collo, prima di baciarlo con trasporto.
«Non lasciarmi sola
questa notte Lukas» lo implorai, vedendo i suoi occhi scintillare al buio.
«Intendi...» iniziò a
dire, guardandomi confuso.
Io annuii, pensando
con terrore che quella sarebbe potuta essere l’ultima volta insieme.
***
«Non mi hai mai detto
perché sei finita in questo campo di concentramento, la prima volta che ci
siamo visti hai ammesso di non essere ebrea, ma allora perché sei qui?» chiese
Lukas, mentre mi guardava mangiare durante uno dei nostri tanti incontri.
«Beh» incominciai
mandando giù il boccone di pane che avevo in bocca: «Principalmente la
colpa è di mio zio, il fratello di mio papà, che qualche anno fa si è
convertito all’ebraismo. Quando poi è iniziata la Guerra lui si è opposto agli
ordini e alle regole, tipo quella del coprifuoco e si è fatto notare parecchio.
Un giorno è arrivato a casa nostra, ha parlato con papà e poi è di nuovo
scomparso nel nulla. Due settimane dopo sono arrivati dei soldati a casa nostra
e... beh, il resto lo sai» dissi, sentendo un nodo in gola e le lacrime agli
occhi.
«Mi dispiace» mormorò
lui, prendendo una mia mano tra le sue e accarezzandone dolcemente il dorso.
«Mi manca la mia
vecchia vita, soprattutto le litigate con mia sorella per ogni sciocchezza»
sussurrai osservando un punto indefinito a terra: «Un tempo non riuscivo a
sopportare i suoi sbalzi di umore, le sue strane richieste, le sue battutine
poco divertenti... erano cose che mi facevano impazzire. Ora, se potessi,
tornerei indietro nel tempo per poter ridere, scherzare, giocare, litigare e
chiacchierare con lei come facevo fino a qualche mese fa».
Non disse più nulla,
rimase semplicemente a fissarmi, mentre la sua mano continuava ad accarezzare
la mia.
***
«Ho trovato un
nascondiglio perfetto per te» disse, sorridendo.
«Un che cosa?»
«Un posto dove puoi
stare tranquilla tutto il giorno mentre aspetti che ti porti da mangiare»
spiegò pulendosi distrattamente la divisa dalla polvere.
«Mi dispiace, ma mi
sa che hai dimenticato una cosa: l’appello»
«No, invece, dato che
da oggi tu non esisti più su quell’elenco» mi mormorò ad una spanna dal mio
viso, facendomi arrossire e sbiancare subito dopo.
«In che senso scusa?»
domandai, mentre nella mia mente cominciavo a figurarmi il suo volto diventare
ad un tratto freddo e crudele nel tirare fuori una pistola e spararmi un colpo
alla tempia.
«Nel senso che ho
detto al Generale che ti ho trovata morta e che quindi eri da depennare dalla
lista».
Io sbarrai gli occhi:
«Mi vuoi uccidere?!»
Lo vidi alzare lo
sguardo al cielo, prima di tornare a fissare il mio viso: «Ma certo che no, bimba! Come ti
viene in mente una cosa simile?»
Io aprii la bocca per
rispondere quando venni interrotta dal suono di alcuni passi che si
avvicinavano.
Quando il rumore si
allontanò abbastanza osservai attentamente Lukas ad un palmo dal naso e non potei
impedirmi di sorridere: «Dov’è questo nascondiglio segreto?»
***
Le sue braccia mi
stringevano forte al suo petto, mentre ci dirigevamo impacciati al materasso
che si trovava a terra a pochi passi da noi.
Ci coricammo uno
accanto all’altra, stando il più vicini possibile, quando vidi nei suoi occhi
una scintilla di sorpresa: «Helena?!»
«Si?» chiesi confusa.
«Tu...» iniziò
guardandomi, prima di prendere il mio viso tra le mani e di darmi un bacio a
stampo, che emise un sonoro “smack”, sulle labbra: «...ti ricordi di me!»
Io annuii piano,
accarezzandogli i capelli: «Sì e non ho intenzione di dimenticarmene mai più»
dissi sorridendo.
«È una promessa?»
chiese sfiorandomi il naso con il suo.
«No, una minaccia»
risposi stringendomi a lui.
***
«Odio la pioggia» lo
sentii dire, mentre ci nascondevamo sotto il tettuccio di un casotto.
«Io invece la adoro»
ammisi passandomi una mano tra i capelli fradici, per provare ad asciugarli;
l’ultima cosa di cui avevo bisogno in quel momento era di prendermi il raffreddore.
«Cos’è che ti piace
della pioggia?» mi chiese.
«È rilassante sentire
il suono che producono le gocce, sembra una melodia».
Lo studiai, mentre si
torturava sempre il solito bottone mezzo scucito della divisa, sembrava
irrequieto.
Stavo per chiedergli
il motivo del suo nervosismo, quando lo sentii sussurrare: «Io ho sempre avuto
paura dei tuoni e dei temporali, fin da quando ero piccolo».
Lo guardai negli
occhi, sconvolta: «Come mai?»
«Mia sorella maggiore
è morta quando avevo cinque anni, aveva sempre avuto problemi di cuore, ma
quella notte le si fermò del tutto il battito cardiaco. L’unica cosa che
ricordo di quel giorno è che pioveva».
Sentii una stretta al
cuore e non potei impedirmi di abbracciarlo, nel vano tentativo di consolarlo.
***
«La cosa che vorresti
di più al mondo?» mi chiese, portandosi alle labbra un pezzo di pane.
«Una cosa sola?»
domandai osservandolo curiosa.
«No, puoi dirmene
massimo tre».
«La fine della
Guerra, una fetta di tiramisù e poter vedere un’ultima volta la mia famiglia
viva e felice come un tempo» ammisi, sorridendo al pensiero.
«Una fetta di
tiramisù?» ripeté, lanciandomi uno sguardo strano.
«Sì, è il mio dolce
preferito. Tu? Cosa vorresti di più al mondo?»
«La fine della
Guerra, rivedere mia madre e aiutarti a fuggire da qui» disse, con gli occhi
seri e una scintilla di speranza, che mi scaldò il cuore.
***
«Sei stanca?»
domandò, baciandomi i capelli.
«Un po’» ammisi,
mentre mi accoccolavo contro il suo petto.
Per un istante che
sembrò durare secoli mi sentii bene, completa e in un certo senso serena.
Felice di essere
ancora viva.
Felice di essere con
lui.
Felice di poter
sperare e sognare ancora.
Felice di avere
ancora la possibilità di dirgli ciò che provavo e avevo sempre provato per lui.
«Ti amo» lo sentii
sussurrare.
Sorrisi a quelle
parole e incominciai a giocare con il bottone mezzo scucito della sua giacca.
«Lukas?» lo chiamai:
«Vorrei...»
“...fare l’amore con
te. Su, dillo, non è difficile. Una frase, quattro parole e quindici lettere.
Parla. Non stare lì ferma e immobile a fissare il nulla. Devi dirlo. Subito!
Altrimenti perderai l’attimo, quest’istante non tornerà più e tu non farai
altro che chiederti per tutta la vita cosa sarebbe potuto accadere se...”
Un suono acuto e
fastidioso si diffuse ovunque intorno a noi.
Era una campana che
suonava ininterrottamente.
Lo sentii alzarsi di
scatto e dirigersi verso la porta.
In pochi istanti era
già scomparso, lasciandomi sola.
***
«Non fare rumore»
mormorò appoggiando una mano sulla mia bocca, avvicinandomi a sé e
facendomi scudo col suo corpo in modo che dalla stradina sterrata non fossi
visibile.
Appena il rumore si
fu allontanato, sentii la sua mano abbandonare il mio viso e i suoi occhi
piantarsi nei miei: «Devi fare più attenzione»
«Devo? Sei tu che...»
iniziai a dire, prima di rendermi conto che ero ancora stretta a lui e che la
sua mano non smetteva di accarezzarmi la schiena: «La vuoi smettere?!»
Lo vidi sorridere e
senza volerlo mi sentii scaldata dalla sua espressione dolce, prima di rendermi
conto che con quello sguardo si stava prendendo gioco di me, dato che non aveva
spostato la mano di un solo millimetro.
«Ammettilo» mormorò
contro la mia guancia, mentre scendeva pericolosamente con la mano, fino ad
arrivare ad un soffio dal mio sedere.
«Che cosa?» chiesi
sentendo il fiato mancarmi e il cuore accelerare i battiti.
«Che ti piace»
sussurrò prima di fare il percorso al contrario con le dita lunghe e
affusolate.
Mi sentivo morire e
bruciare come non era mai accaduto prima, ma non gli avrei mai dato la
soddisfazione di avere ragione.
Mai.
«Mi dispiace, ma non
è così» dissi cercando dentro di me un po’ d contegno, prima di allontanare il
suo braccio, che continuava a stringermi, con uno schiaffo.
Lo vidi fare una
smorfia infastidita: «Prima o poi cadrai ai miei piedi».
«Mai» replicai con
tono pungente, in modo che non notasse i brividi di freddo che avevo sentito
ovunque quando si era allontanato, lasciandomi.
«Vuoi scommetterci?»
domandò ridacchiando.
Molto probabilmente
si era accorto della mia pelle d’oca...
***
Rimasi ferma,
coricato sul materasso per quelle che mi parvero ore, prima di riuscire
finalmente ad addormentarmi.
Non sognai niente e
venni svegliata da una voce bassa e conosciuta che mi stava chiamando: «Helena.
Helena? Helena!»
«Lukas, cosa..?»
aprii gli occhi e mi ritrovai immersa nel suo sguardo color piombo.
Aveva le sopracciglia
aggrottate e i lineamenti seri, doveva essere successo qualcosa mentre dormivo.
«Bimba alzati
e metti questi» disse posandomi accanto dei pantaloni color sabbia e una maglia
di lana scura.
«Cosa sta
succedendo?» chiesi, sollevandomi facendo leva sul gomito.
«Ti spiego tutto più
tardi, ora cambiati!» esclamò con un tono di voce impaziente.
Aveva fretta.
Mentre lui era
impegnato a riempire uno zaino di vestiti, oggetti e cibo io mi cambiai senza
fare storie, ero certa che ci fosse un valido motivo sotto al suo comportamento
anormale.
«Sono pronta» lo
informai, avvicinandomi a dove si trovava lui.
«Bene, tieni questo»
disse porgendomi la sacca, prima di prendermi per mano e di trascinarmi fuori
dal casotto.
«Dove stiamo
andando?» domandai, infastidita dal suo silenzio.
«Ssh, rischi di
svegliare qualcuno o di farci scoprire. Non dire nulla» ordinò passando rasente
alcuni muri, prima di giungere ad una delle recinzioni del campo di
concentramento.
Si fermò solo quando
ci trovammo entrambi davanti ad una piccola porta, di solito sorvegliata giorno
e notte, che portava oltre il muro di cinta.
«Lukas? Perché...?»
cominciai a chiedere, anche se dentro di me cominciavo a capire: dovevo
fuggire, dovevo andarmene, era troppo pericoloso restare un minuto di più e lui
voleva proteggere la sua bimba.
Mi zittì con un bacio
che sapeva di morte e esilio.
«Devi vivere», mi
disse, prima di infilarmi in tasca un piccolo foglietto di carta: «Aprilo solo
quando sarai lontana e ricorda: sarò sempre con te, qualsiasi cosa accada».
«Lukas fuggi anche
tu, non posso farcela da sola, ti prego non...» incominciai a singhiozzare
silenziosamente con una familiare sensazione di panico ovunque dentro di me.
«Ssh, bimba,
andrà tutto bene. Ti amo» disse prendendomi tra le braccai e stringendomi forte
a sé: «Qualsiasi cosa accada, voglio che tu mi prometta una cosa: vivi,
combatti se necessario, ma vivi e non permettere a nessuno di spegnare il tuo
bel sorriso. Me lo giuri?»
«Sì, Lukas, te lo
giuro» promisi dandogli un piccolo bacio sullo zigomo e augurandogli buona
fortuna: «Ti aspetterò per sempre».
«E io farò di tutto
pur di raggiungerti, ma ora devi andare».
Due minuti dopo ero
già fuori dal campo di concentramento e correvo, correvo come non avevo mai
fatto prima, sentivo i polmoni bruciare e le gambe cedere, ma non mi fermai
nemmeno un istante, facendomi largo tra gli arbusti e non badando al dolore che
mi assaliva quando i rami mi graffiavano il viso o le braccia, creando profondi
graffi sulla mia pelle fredda e quasi insensibile a causa del freddo.
Mi bloccai di colpo
in una piccola radura e provai l’insano desiderio di tornare indietro, sentendo
la preoccupazione farsi largo dentro di me.
Combattei una dura
lotta contro me stessa, prima di chiudere gli occhi e continuare a correre il
più lontano possibile da quel luogo infernale e dall’unica persona che mi
avesse mai aiutato e protetto.
***
«Com’è tua madre?»
gli chiesi, fissando le stelle che intravedevo attraverso i giornali che
coprivano i vetri delle finestre.
«È una donna
fantastica, gentile, coraggiosa e testarda» rispose.
«Come te quindi»
dissi, sorridendo.
«Pensi che io sia
fantastico?» domandò lanciandomi uno sguardo malizioso, che mi fece arrossire
fino alla punta dei capelli: «No, non intendevo...» iniziai, ma venni
interrotta dalla sua risata.
Era raro vederlo
ridere, ma quando accadeva era uno spettacolo che mi faceva sentire meglio ogni
volta.
«Sto scherzando,
Helena».
Io annuii, ma non
dissi nulla.
Avrei voluto tornare
indietro nel tempo per poter cancellare la mia reazione perché una cosa era
certa:lui, diversamente da come avevo detto, era una persona fantastica.
***
Quando pensai di aver
corso abbastanza, mi fermai.
Potevo scorgere in
lontananza le rotaie di un treno, mentre il cielo cominciava a schiarirsi e il
sole faceva capolino all’orizzonte.
Mi sedetti ai piedi
di una grande quercia e rimasi per alcuni istanti lì, immobile, a riprendere
fiato.
Sfiorai la tasca dei
miei pantaloni e sentii attraverso la stoffa la consistenza del biglietto che
Lukas mi aveva lasciato.
Non riuscii a
resistere molto contro la curiosità, così alla fine lo tirai fuori e lo aprii
piano, col battito del cuore accelerato e il fiato corto.
C’era solo scritto un
indirizzo dove, secondo lui, avrei potuto trovare aiuto e poi poche righe
ancora in cui mi prometteva che avrebbe fatto di tutto pur di raggiungermi.
Deglutii
rumorosamente, prima di alzarmi di nuovo in piedi e di mettermi in cammino.
“Manterrò la mia
promessa Lukas, costi quel che costi, lo farò per te”.
Estate, 1949
«Sarah, non ti
allontanare troppo» raccomandai alla bambina con le treccine scure che si
trovava a pochi passi da me, appena entrammo nel grande parco della città.
«Va bene, Helena!»
esclamò prima di fuggire verso le altalene e di lasciarmi sola.
La Guerra era finita,
la pace – finalmente – aveva illuminato la mia vita.
Tornai esattamente a
quattro anni prima, quando avevo ritrovato mio zio e con lui una famiglia e una
speranza per il futuro. Non ero mai riuscita a raggiungere l’indirizzo scritto
su quel biglietto e non avevo più notizie di Lukas da quella mattina in
cui mi fece fuggire.
Sentii come una
pugnalata al petto al pensiero di quel giorno e di quella promessa che gli
avevo fatto.
L’avevo mantenuta,
ero viva anche se il mio sorriso si era spento insieme alla mia solarità.
La Guerra aveva
distrutto vite, famiglie, città, stati...
...Amori.
Mi lasciai cadere su
una panchina color muschio e tirai fuori dalla mia borsa un libro.
Lessi appena due
righe, prima di alzare il viso e di non vedere più Sarah sull’altalena.
Sentii il panico
all’altezza del cuore e rimasi bloccata dal panico per pochi istanti, prima di
alzarmi, buttare il libro nella borsa e di incominciare a camminare per il
parco alla ricerca della bambina.
“Dove sei finita?!”
pensai sconvolta, prima di figurarmi nella mente i visi infuriati dei suoi
genitori, che me l’avevano affidata per poter stare un po’ da soli.
Stavo per correre a
chiamare la polizia, quando vidi due treccine familiari accanto ad un uomo che
si era accovacciato a terra, a quanto pare per sentire ciò che la bambina stava
dicendo.
«Sarah!» la chiamai,
avvicinandomi a lei: «Ti avevo detto di non allontanarti! Non hai idea della
paura che ho sentito quando non ti ho più vista sull’altalena! Non farlo mai
più!»
Presi la bambina per
un braccio e le lanciai uno sguardo che era un misto tra il sollievo, la
preoccupazione e la rabbia.
«Scusa, Helena» disse
lei abbassando il volto, mortificata.
Io sospirai, prima di
lanciare uno sguardo confuso all’uomo, che nel frattempo si era alzato,
mettendo in mostra ben quindici centimetri più di me.
I miei occhi
incontrarono due iridi color piombo fuso che mi fecero accelerare i battiti
cardiaci e sussultare dalla sorpresa: «Lukas?»
Su quel volto
familiare e terribilmente bello vidi comparire quel sorriso dolce e sincero che
mi aveva perseguitata per anni, tutte le volte che chiudevo gli occhi.
«Ti ho raggiunta, bimba».
The end
NdA:
*Ho visto un documentario
dove dicevano che gli Ebrei e in generale le persone introdotte nei campi di
concentramento perdevano il loro nome e veniva loro assegnato un numero, che
spesso veniva marchiato loro sulla pelle. Infatti Helena ha il numero 37000370
impresso su un braccio.
Spero che vi sia piaciuta questa storia, dato che ci tengo molto.
Ho corretto tutti gli errori che ho trovato, ma se ne avete incontrati altri vi chiedo di scusarci (me e la mia distrazione)... XD
Mi farebbe piacere ricevere qualche vostro commentino (una recensione al giorno toglie il medico di torno... o almeno credo... XD), per sapere cosa ne pensate di Helena e di Lukas (di cui mi sono perdutamente innamorata*.*)!
Vi ringrazio comunque per aver letto questa one-shot - che è arrivata seconda al contest di Flaren97: "Love
Thanks a lot <3
Lazysoul