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Autore: hibou    25/06/2012    2 recensioni
Amava il suo lavoro, il dottor Fisher.
Conoscere l’intricato e incomprensibile linguaggio del cervello umano lo affascinava da sempre, fin da quando era bambino. Molte volte si ritrovava ad ascoltare rapito i discorsi dei propri pazienti, a studiare i loro comportamenti con una nota di attrazione che, dopo quasi vent’anni di professione, ancora era ardente come agli albori della sua carriera.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In Human Mind




Il dottor Fisher si era svegliato particolarmente stanco quella mattina. Alzatosi di mala voglia, si era diretto verso il bagno grattandosi distrattamente il capo, mentre un'imprecazione infastidita gli scivolava roca dalle labbra nel vedere i grandi nuvoloni carichi di pioggia che regnavano sopra la città. Si fece una doccia lenta e rigenerante e rischiò di rompersi l’osso del collo quando, assopitosi sotto il caldo getto dell’acqua, perse l’equilibrio e slittò a terra, finendo in una rovinosa caduta che gli costò un bel livido viola sulla natica destra.
Si vestì di fretta e furia, in ritardo e dolorante per le continue fitte che la botta gli procurava ogni volta che, accidentalmente, ci incappava contro.
Si infilò in macchina quasi di corsa, acquistò un bollente e fumante caffè lungo la strada e si diresse verso l’istituto di salute mentale che dominava l’alto di una collina fuori città.
Scese dalla vettura con in mano la bibita. Proteggendosi con la valigetta ventiquattrore la testa dalla pioggia che, improvvisamente, era sciacquata dalle nere nubi, cercava di chiudere la macchina con le chiavi malamente rette tra le mani. Velocemente si affrettò a raggiungere l’entrata dell’istituto, ma sfortuna volle che un movimento brusco gli solleticasse il livido che pulsò di dolore, facendolo capitolare a terra per la seconda volta e volare all’interno di una pozzanghera. Ne emerse bagnato fradicio e indolenzito, mentre con orrore si accorgeva dei documenti fuoriusciti dalla valigetta durante la caduta, affaccendandosi così con affanno a raccoglierli. Finalmente riuscì a varcare la soglia del palazzo, paonazzo in viso e in condizioni pietose. Sospirò, sistemandosi la giacca e ostentando una nonchalance che non gli apparteneva e si diresse, così, verso il suo ufficio centellinando la bevanda divenuta, nel frattempo, fredda.
Il dottor Fisher era tanto bravo nel suo lavoro quanto impacciato nella vita.
Sempre ben disposto ad ascoltare i propri pazienti e i loro famigliari, educato nei modi e ben attento a qualsiasi cosa gli si dicesse, non lasciava mai nulla per scontato.
Si mise, così, subito al lavoro, visitando un paziente dopo l’altro e interrompendosi frattanto per una breve pausa.
A metà mattinata, chiuso nel bagno, sbuffò mentre strofinava con energia una fresca macchia di caffè nella sua giacca nuova, lanciando di tanto in tanto delle occhiate al fascicolo poggiato nel lavandino accanto. Le era stato affidato una nuova paziente.
Stufo, demorse dal cercare di smacchiare la traccia scura nell’abito e lo indossò velocemente, dirigendosi poi verso la sala svago.
Amava il suo lavoro, il dottor Fisher.
Conoscere l’intricato e incomprensibile linguaggio del cervello umano lo affascinava da sempre, fin da quando era bambino. Molte volte si ritrovava ad ascoltare rapito i discorsi dei propri pazienti, a studiare i loro comportamenti con una nota di attrazione che, dopo quasi vent’anni di professione, ancora era ardente come agli albori della sua carriera.
Entrò nella sala con un sorriso ad incorniciargli le labbra, cominciando ad aggirare i grandi tavoli rotondi in cui gruppi di persone svolgevano giochi e attività differenti. Salutò con tenerezza diversi pazienti che gli si avvicinarono pieni di entusiasmo ed energia, mentre diede delle semplici pacche affettuose a quelli più taciturni o intenti nei loro stravaganti interessi.
Non riuscendo a trovare la persona a lui interessata, si avvicinò a un’infermiera chiedendo informazioni.
“La signora Ellis? È seduta fuori in giardino, come sempre” si sentì rispondere e, con riconoscenza, ringraziò e si avvicinò alla porta a vetri che lo divideva dalla sua meta.
Percorse diversi metri, inoltrandosi nel grande parco della clinica e individuando, dopo un po’, una donna seduta su una panchina all’ombra di una vecchia quercia.
Si diresse verso di lei e, quando le fu abbastanza vicino, la chiamò piano senza spaventarla: “La signora Abigail Ellis?”
La donna affermò con un gesto deciso della testa, senza voltarsi.
Il dottor Fisher si avvicinò piano, notando il vestito di lei fradicio e indeciso se seguire il suo esempio e, quindi, sedersi sulla panca bagnata o trovare una soluzione alternativa. Soppesò l’idea rimirando il cielo cupo, disperando nello scoppio di un nuovo acquazzone. Alla fine, con un sospiro, decise di accomodarsi: non sarebbe stata un po’ d’acqua nei pantaloni a fare la differenza tra tutti quei lividi e macchie.
“L’ho sentita arrivare, sa?” gli disse lei, quando se lo trovò vicino; “Ho sentito i suoi passi...” aggiunse, rivolta più a se stessa che al suo interlocutore.
Il Dottore le studiò il viso: era una donna anziana, sulla settantina; aveva lunghi capelli bianchi e lisci, occhi chiari e profonde rughe le solcavano gli angoli della bocca e la fronte.
“Dunque Signora Ellis... posso chiamarla Abigail?” chiese subito confidenziale, non ricevendo risposta.
“Si, bene” borbottò imbarazzato; “Sono il dottor Albert Fisher e da oggi in poi sarò io a prendermi cura di lei.”
La donna lo guardò appena, spostò lo sguardo dal suo viso alla mano aperta che le stava porgendo, scostandosi piano da lui.
“Mi chiami Abbie” sussurrò.
Le sorrise: “Va bene, Abbie”.
Cominciò a porle qualche domanda di pura cortesia, per intavolare un discorso, un principio di conoscenza e sondare un po’ il terreno per poter individuare quale fosse il motivo per il quale era stata affidata a lui.
Non riusciva a capire quale potesse essere il suo problema: rispondeva con logica ad ognuna delle sue domande, seguiva i discorsi con apparente attenzione e non dava segni di squilibri mentali. Se l’avesse incontrata al di fuori dell’istituto, le sarebbe parsa una semplice e triste signora anziana.
Il loro incontro, quella mattina, fu breve e il dottore decise che si sarebbe preso altro tempo prima di sondare in maniera più profonda e decisa la mente della paziente, così, dopo essersi congedato, si allontanò e proseguì la propria giornata lavorativa.

Da quella mattina era passato un mese, e ancora Abbie non aveva dato segno di voler cedere e rivelargli cosa la turbasse.
All’inizio, come da prassi, aveva aspettato che fosse lei a rivelarglielo ma, vedendo che ciò non avveniva, aveva semplicemente sospettato che fosse una persona timida e taciturna, bisognosa dei propri tempi.
Così, quella mattina, all’ombra del solito albero e seduti nella solita panchina, decise che era arrivato il momento di chiederle in maniera schietta e diretta, seppur con il dovuto tatto, cosa turbasse la sua anima, in modo da poter iniziare la ricerca di una possibile causa e guarigione.
“Abbie” la richiamo Fisher, “Posso sapere il motivo della sua permanenza nell’istituto?”
La donna lo guardò seria, poi sorrise appena: “Lei è un dottore davvero particolare, signor Fisher” rispose enigmatica lei, “E’ da un mese che ogni mattina si siede vicino a me, sotto quest’albero, e comincia ad ubriacarmi di domande e discorsi futili. Mi chiedevo, in effetti, quando sarebbe arrivato il momento in cui mi me l’avrebbe chiesto” spiegò con un accenno divertito nella voce. Ma la sottile ilarità del momento si spense all’istante, lasciando spazio alla serietà e la tristezza.
“Sento i passi” gli disse, percependo l’occhiata perplessa che il Dottore le lanciò.
“Ogni notte, in ogni silenzio, sento i suoi passi risuonare nella testa, riecheggiare nei corridoi.”
Il dottore la guardò, aggrottò le sopracciglia e si sistemò gli occhiali dalla montatura rotonda nel naso: “ I passi di chi, Abbie?” chiese gentilmente, intuendo il tormento che la costringeva a torturarsi le mani.
La vide esitare e boccheggiare; poi, con un sospiro, emise parola con ritrovata energia: “Avevo diciassette anni e vivevo a Shaftesbury Avenue, Londra. Mio padre era un avvocato molto prestigioso e mia madre proveniva da un agiata e prestigiosa famiglia del Northampton. Non ci era mai mancato nulla, avevamo soldi, potere e potevamo disporre di tutti gli agi possibili all’epoca” spiegò, ignorando beatamente la domanda.
“Era una sera d’inverno, Dicembre 1959. Ricordo tutto come se fosse ieri...”

Pioveva ormai da una settimana sulla cupa e nuvolosa città inglese. Il Tamigi si era tinto di uno scuro e preoccupante grigio, come il cielo buio sopra ad esso.
La Signora Margareth Ellis era seduta nel caldo e confortevole salotto insieme alla sua unica figlia Abigail, mentre con confidenza e serenità discutevano del suo rendimento scolastico e, di tanto in tanto, si soffermavano a leggere qualche frase dal libro che Abbie reggeva in grembo. Aspettavano impazienti che il padre di famiglia tornasse a casa, così da poter cenare tutti insieme; era sempre stato un uomo puntuale, il Signor Ellis, ma evidentemente la pioggia doveva avergli causato qualche disturbo al ritorno.
Tra una risata e l’altra, le due donne sentirono una macchina accostare nel vialetto davanti casa e il rumore di uno sportello chiudersi con veemenza.
Si sorrisero a vicenda e, dopo un comando imperioso della madre, Abbie salì le scale di corsa e si diresse in bagno a lavarsi le mani.
Percepì la porta d’entrata sbattere e il rumore di indumenti che venivano tolti e poggiati sull’appendiabiti. Felice di sapere il padre a casa e di poter finalmente cenare, entrò in camera depositando il libro sopra il letto e si avvicinò al corridoio, quando un grido soffocato la costrinse a fermarsi.
Si fece silenziosa, acuendo l’udito e riuscendo a percepire solamente il rumore di passi frettolosi ed oggetti che cadevano a terra in frantumi. Sospettosa spiò nel corridoio, ma un urlo più acuto e forte la costrinsero a rientrare in camera e poggiarsi sulla parete dietro le sue spalle. Stava succedendo qualcosa.
Il silenzio invase la casa, e Abbie ebbe l’impressione di soffocare tanta era la tensione che le invadeva il corpo. Avrebbe voluto chiamare la madre, correre al piano inferiore e certificare con i propri occhi cosa fosse successo, ma ogni singola cellula del suo essere le sussurravano di restare li dov’era, al silenzio, senza farsi scoprire.
Restò in allerta per diversi secondi, poi si accucciò su se stessa convinta che, nel caso in cui non fosse successo nulla, i genitori sarebbero venuti a chiamarla per il pasto e rimproverarla per il ritardo.
Sussultò quando percepì distintamente il rumore di passi lenti e cadenzati percorrere le stanze al piano inferiore.
Il suono procedeva lento e misurato, ma ben presto lo percepì più forte. Qualcuno stava salendo le scale.
Il cuore cominciò a batterle talmente forte che ebbe paura che il suo pompare furioso sarebbe risultato talmente acuto da poter essere percepito al di fuori della sua cassa toracica. Si poggiò una mano al petto e si rannicchiò completamente contro il muro, mentre dalla penombra della camera fissava la porta aperta e aspettava fremente di paura che il misterioso proprietario di quei passi facesse la sua apparizione.
Sentì la loro cadenza riecheggiare nel corridoio, farsi sempre più vicina, più forte, più oscura e, nel momento in cui furono talmente udibili da darle l’impressione che la creatura si trovasse esattamente dietro la camera, un tuono spezzò l’aria e la fece sussultare, facendole emettere un gemito strozzato ed illuminando d’azzurro il terreno ai suoi piedi. Fu in quel momento che vide un ombra proiettarsi davanti a lei, ferma, statica, immobile.
Fissò l’oblunga e deformata macchia nera davanti a lei, cercando il coraggio di alzare lo sguardo verso il proprietario.
Vide le scarpe laccate e sporche di fango, risalì lentamente lungo la gamba fasciata da morbidi pantaloni, raggiunse il busto e le braccia muscolose; sussultò e un giramento la colpì facendole venire la nausea alla vista della bianca maglietta sporca di sangue che gli fasciava il petto, finché, terrorizzata, fissò il viso pallido e trascurato dello sconosciuto che la fissava intensamente...

“...mi prese per i capelli e mi trascinò giù per le scale. Mi spinse dentro il salone e vidi il corpo di mia madre steso a terra tra i cocci di una lampada.” Sussurrò Abbie, il viso in lacrime coperto dalle mani.
“Non ricordo più nulla di quella sera... tre mesi dopo il mio corpo abortì il mio primo figlio”.
Il dottor Fisher, rimasto in silenzio durante l’intero sfogo della paziente, deglutì visibilmente toccato; boccheggiò, misurando le parole e cercando qualcosa di adatto da dirle, e allungò piano una mano nella sua direzione.
La donna, percependo il tocco distratto delle sue dita sulla spalla, urlò spaventata facendo sobbalzare l’uomo. Abbie si alzò di scatto, il viso contratto in una maschera di paura e dolore. Si guardò intorno spaesata, improvvisamente attenta ad ogni singolo rumore.
“Sta arrivando” mormorò con gli occhi sgranati; “Lo sento, è vicino! Sta arrivando!” gridò esagitata, girando su se stessa alla ricerca dell’invisibile rumore che solo lei percepiva.
Il dottore si alzò, si avvicinò con calma e cercò di afferrarla con delicatezza per le spalle, ma lei gli sfuggì con uno scatto, continuando a piangere e coprirsi il volto.
Si voltò, fissando il punto in cui la vegetazione del parco si infittiva e la sentì mugugnare qualcosa di incomprensibile. “I suoi passi, sono sempre più vicini... sta arrivando, vuole me, lo so! Vuole me!” cominciò a disperarsi e gridare. Il dottore la circondò, parlandole in maniera pacata e cercando di rassicurarla. Vide delle infermiere avvicinarsi correndo, attirate dalle urla della donna.
Fattesi vicine, aiutarono l’uomo a tenere ferma Abbie e la trascinarono all’interno della clinica, pronte e sedarla con l’ausilio di forti medicinali.
Il dottor Fisher rimase immobile a fissare le donne trascinare il corpo urlante e scalmanato di Abbie, mentre un groppo in gola gli bloccava il respiro.
Una goccia gli cadde sulla fronte e scese lungo il suo viso; due, tre presero a bagnarlo piano e, ben presto, si ritrovò fradicio e solo al centro del parco.
Si passò una mano tra i capelli, sospirò e si diresse verso la clinica.
Amava il suo lavoro, il dottor Fisher.
Lo amava tanto quanto, in quel momento, avrebbe voluto scappare e rifugiarsi nel suo piccolo e caldo appartamento, lontano dalla crudeltà a dall’orrore che l’essere umano covava in se'.










Vi ringrazio sentitamente per aver dedicato il vostro tempo alla mia storia.
Un saluto,
hibou.
  
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