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Autore: KillAnyoneForYou    26/06/2012    18 recensioni
Una storia su tre ragazzi, tre migliori amici, tre anime unite che scopriranno quanto fa male la perfezione.
Genere: Fluff, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Stringevo una sigaretta tra le dita, strisciavo le converse a terra sporcandole ancora di più di quanto già non fossero.
Avevo l’mp3 in tasca, lo presi e snodai le cuffie che come al solito erano aggrovigliate tenendo la sigaretta tra le labbra. Misi le cuffie nelle orecchie e ascoltai quella canzone che ascoltavo ormai da giorni.
Strisciavo ancora le converse sul marciapiede senza sapere dove andare.
Quando finì la canzone mi tolsi la sigaretta dalle labbra e vidi che era spenta.
Ormai non avevo più voglia di fumare.
Non da quel giorno.
Mai più.
Quella canzone la ascoltavo da così tanto tempo che ormai sapevo note e pause senza aver mai studiato musica.
Era la sua preferita.
Alzai gli occhi, quel muro, uhm. Una goccia mi cadde sul sopracciglio destro ed inevitabilmente mi scivolò sulla palpebra facendomi strizzare di colpo l’occhio.
Che bello sentire qualcosa. Me lo strofinai pensando a lei.
Lei…



 Stringevo una sigaretta tra le dita, portandola ogni tanto alle labbra per aspirare furiosamente, strisciavo le converse nuove sull’asfalto caldo di quell’estate torrida e afosa, ero arrabbiata, con lei. Si lei!
Continuavo a camminare e non sapevo dove andare, nel frattempo la sigaretta era finita, cominciai ad annodarmi i capelli come facevo quand’ero nervosa, uno, due, cinque, sette nodi fino ad arrivare alla radice, poi li snodai formando un grazioso boccoletto che con un gesto secco misi dietro l’orecchio graffiandomi appena col piercing.
Poi la sentii urlare il mio nome, mi stava seguendo, tipico!
Non mi girai di proposito, presi un’altra sigaretta, l’accesi ed aspirai furiosamente, cominciai a camminare frettolosamente cercando di evitarla.
Ma lei mi raggiunse, mi prese per la spalla, vidi con la coda dell’occhio le sue unghie mangiucchiate e mi venne quasi da ridere, mi chiese di fare pace, io aspirai ancora, mi girai e continuai a camminare.
Decisi di non essere più arrabbiata, ma volevo fargliela pagare ancora un po’.
Ascoltai le sue mille scuse e per me era come vedere la televisione con il “mute”, vedevo le sue labbra carnose muoversi ed intravedevo il suo piercing alla lingua fatto pochi mesi prima, gesticolava con quelle mani minuscole e quelle unghie buffe, i suoi occhi azzurro ghiaccio erano tristi e dispiaciuti, ormai ci ero abituata!
Mi allontanai un secondo per guardare com’era vestita, lei pensò che volessi andarmene e mi afferrò per il braccio, sentivo le vene pulsare sotto le sue dita piccole ma forti, aveva una maglietta corta bianca ed un paio di jeans normalissimi, ma sembrava una modella.
Alzai lo sguardo, mi chiede cos’avessi da guardare e se la stessi ascoltando, annuii e l’abbracciai senza farla continuare, inevitabilmente aspirai il profumo dei suoi lunghi capelli biondi trovandomi tra le dita anche un po’ di quelle strane ciocche blu che si era colorata il giorno prima.
Insieme continuammo a camminare verso l’università, la sigaretta era finita.
Continuò a parlare per diversi minuti dei suoi esami, tutti 30, la volevo strangolare.
Nella mia mente le sue parole formavano graziose nuvolette nere che si trasformavano in alberi ed occhi, i rami si snodavano e dai boccioli dei frutti sbocciavano occhi di ghiaccio, proprio come i suoi.
Ovviamente ovunque passasse tutti i ragazzi si giravano a guardarla, eravamo come la notte ed il giorno, il buio e la luce e lei era la luce più splendente che avessi mai conosciuto.
Nei pressi dell’università il mio cuore iniziò automaticamente a battere più velocemente, gli occhi si trasformarono in note musicali che componevano quella canzone, la sua preferita.
Arrivammo davanti all’ingresso ed arrivò il nostro migliore amico. Si vedeva già lontano un miglio, era altissimo, una maglietta del solito gruppo alternativo che conosceva solamente lui, jeans neri, tracolla nera e tubo porta disegni.
Venne a salutarci con la sua solita voglia di vivere latente, doveva consegnare una tavola, poi sarebbe tornato a casa a suonare.
Io e lei ci guardammo, non avevamo dubbi!
Entrò svogliato e noi lo seguimmo, io ero in ritardo come sempre per la mia lezione, ma ormai i professori mi conoscevano, lei non aveva lezione invece.
Lui si girò a salutarci, guardò prima lei con un sorriso e cambiò espressione nel guardare me.
Quella era l’espressione riservata a me, non gliel’avevo vista rivolgere a nessun altro, mi guardava con quegli occhi nocciola, intensamente, senza sorridere, come se volesse dirmi qualcosa, che non diceva mai.
Ci pensai per tutto il tragitto fino all’entrata dell’aula dove erano già tutti seduti. Entrai da dietro evitando di farmi sentire ma ovviamente mi cadde il copri obiettivo della macchina fotografica facendo girare tutti all’unisono.
Mi sedetti e feci finta di niente, facendo finta di essere estremamente attenta alla lezione.
Nel frattempo pensai ancora a quello sguardo ed improvvisamente mi venne la solita fitta allo stomaco che avevo da un po’ di mesi a questa parte, probabilmente avrei dovuto andare dal medico, loro me lo dicevano sempre.
Uscii dall’aula e trovai lui ad aspettarmi senza di lei, forse era andata a casa, glielo chiesi e lui disse che non lo sapeva, gli brillavano gli occhi, probabilmente, dopo tanti anni aveva capito di essere innamorato di lei, era ovvio!
Mi accompagnò a casa nel suo solito silenzio pensieroso, lui aveva uno strano modo di restare in silenzio, era il silenzio di chi sta per dire qualcosa, peccato che non lo faceva mai.
Mi lasciò sotto casa con Quello sguardo e mi disse che ci saremmo visti quella sera. Quella sera, quella festa di compleanno.
Arrivai a casa, posai la mia macchina fotografica sul tavolo, i miei non c’erano, come sempre, mi accorsi che non avevo avuto voglia di fumare da quando ero uscita. Feci la doccia e mi imbambolai come al solito davanti all’armadio non trovando nulla da mettermi che non mi facesse sembrare una botte, una meringa o una mongolfiera.
Scorrevo i miei abiti mentalmente più che visivamente pensando a come mi avrebbe trovata lei, o lui?
Alla fine optai per un vestitino ed un paio di stivali, odiavo i tacchi con tutta me stessa, mi accesi una sigaretta, aspiravo il fumo piano, non avevo fretta ed ero parzialmente contenta e leggera.
Sentii il citofono, era lui, aprii la porta, non mi salutò, quando eravamo soli noi non ci salutavamo mai, non ne avevamo bisogno.
I disegni nella mia testa ricominciarono a suonare quella canzone, andai in cucina e presi una lattina dal frigorifero, tornai in camera e gliela lanciai, lui, quasi senza alzare lo sguardo dal pavimento la prese al volo e la aprì senza guardarla, sicuro che avrei indovinato i suoi gusti, da anni ormai li conoscevo più che bene.
Quella sera eravamo rimasti d’accordo che saremmo rimasti a dormire da lei, i suoi non c’erano per due settimane, probabilmente ci saremmo trasferiti da lei per tutto il tempo.
Andammo a quella festa, lei ci aspettava fuori. Era diversa, non aveva la solita parlantina, sembrava lui, nel suo silenzio parlante.
C’era tutta la gente dell’università, troppo alcool, troppa droga, troppo fumo, troppo alto il volume della musica. Mi agguantò un tipo dell’università che a quanto pare mi conosceva, mi girai e loro non c’erano più, li avrei rivisti in giro. Restai a parlare con questo tipo senza nome, drogato visibilmente, girandomi ogni tanto per ritrovarli.
Il tizio mi chiese se volevo un acido, pensai no, ma in quel momento focalizzai un punto della sala dove una ragazza bellissima e perfetta, bionda, con le labbra carnose, gli occhi azzurro ghiaccio ed il piercing sulla lingua stava baciando un ragazzo altissimo, con una maglietta di un gruppo sconosciuto ed i jeans neri dagli occhi nocciola, presi l’acido e lo misi sulla lingua.
Lo sentii sciogliersi ma non accadde nulla, il tipo mi disse che avrei dovuto aspettare qualche minuto. Li passai osservandoli, erano praticamente perfetti, come lo Ying e lo Yang, combaciavano perfettamente.
Poi tutto sfumò, i miei disegni mentali presero vita, coloratissimi per la stanza germogliavano alberi spogli con rami enormi dai quali sbocciavano occhi di ghiaccio che chiudendosi lacrimavano note musicali. Ovunque risuonava quella canzone, ovunque c’era Quello sguardo su di me, ce l’avevano tutti ed ovunque c’erano loro.
Loro perfetti, loro completati l’uno dall’altra, loro puliti senza più macchie insignificanti come me.
Sfumò di nuovo tutto, musica assordante mi costrinse a ballare, dovevo ballare, agguantai il primo tipo che mi passava accanto e ballai, ballai, ballai, ballai… Senza controllo, senza respiro, senza freni, senza inibizioni.
Mi ritrovai con loro, quelli veri, non più coloratissimi, li scostai, cominciai a camminare barcollando verso casa di lei, non avevo le chiavi per tornare a casa mia.
Aprii la porta con la solita chiave nascosta sotto il vaso sul pianerottolo, volevo vomitare, andai in bagno e lo feci.
Loro erano rimasti indietro di un bel po’, andai in una stanza, mi misi a letto e cercai di addormentarmi.
Note,occhi,alberi.
Rumore.
Aprii di scatto gli occhi non ricordando dove fossi.
Misi a fuoco la stanza.
Li sentii.
Entrarono in camera dei suoi genitori, una risatina, parlavano, lui parlava, come con me non aveva mai fatto.
Avrei voluto strapparmi le orecchie, i suoi occhi di ghiaccio guardavano quelli nocciola, lo sentivo dal silenzio, poi lenzuola stropicciate, pugni stretti sul tessuto, nervi tesi, gemiti soffocati, un’unione perfetta.
Silenzio.
Quello vero, evidentemente non doveva più dire nulla.
L’indomani mattina restai a letto a lungo, aspettai che si fossero alzati e che avessero fatto colazione, poi uscii e andai diretta in bagno. Aprii l’acqua della doccia e mi ci infilai. L’acqua faceva scivolare via ieri sera.
Osservai le goccioline scivolare sulle piastrelle: avevano un fascino particolare, raccoglievano le altre al loro passaggio e poi scivolavano giù, tutte insieme.
Sembrava la nostra storia, fino a quel giorno, quel giorno non mi avevano raccolto e portata con loro, avevano proseguito da soli.
Uscii, loro volevano parlarmi, ma io andai via e tornai a casa. Loro non mi seguirono.
Dopo quella sera ci furono tante sere così, con alcool, droga, troppo fumo e volume troppo alto. Finivo sempre a casa con il trucco sfatto e con un sapore diverso sulle labbra, tra le dita, sui jeans.
Loro c’erano sempre, ci tenevano a farmi vedere la loro perfezione, affondavano il coltello nell’enorme ferita che avevo, ogni volta cercavano di parlarmi, ma me ne andavo sempre.

Una mattina fu peggio delle altre, dalla festa andai direttamente all’università, dove ormai ero uno spettro e mi aggiravo per i corridoi sempre con i postumi di una sbornia o di troppi disegni mentali animati.
Mi accasciai nel bagno e la vidi entrare, perfetto, emanava più luce del solito.
Si sedette vicino a me e cominciò a parlare, le sue erano parole sincere, mi tornò quella fitta allo stomaco, dovevo proprio andare dal dottore.
Quando finì aveva le lacrime agli occhi, si girò e mi fissò intensamente quasi con Quello sguardo.
Il mio stomaco si attorcigliò e non sapevo se fosse per via della sera prima o per lei, per la sua perfezione di fronte a me, i suoi occhi trasparenti, le sue labbra carnose. Era così vicina a me, al mio cuore, alla mia anima, lei era tutto questo, era tutta la mia vita, loro lo erano, non esisteva altro per me. Ed, incredibilmente, al di fuori di ogni possibile possibilità e realtà, anch’io ero tutto per loro.
Fregandosene dei divieti si accese una sigaretta e ne passò una a me, fumammo in silenzio, quel silenzio che stava per dire qualcosa.
Successivamente si alzò e mi tirò su, inevitabilmente ci trovammo faccia a faccia, sorrise con il suo sorriso perfetto e andammo a lezione.
Finita la lezione ci aspettava, lui, ansioso e pensieroso come sempre. Appena mi vide mi abbracciò, era così vicino.
Anche lei si unì al nostro abbraccio di anime ed ebbi come l’impressione che quel senso di perfezione che mi trasmettevano da soli, così, con me, fosse anche più splendente.
Mi accompagnarono a casa, i miei erano partiti da giorni, la mia casa era uno schifo, c’era droga e fumo ovunque, vestiti sbiaditi e sporchi di troppe sere passate con gente senza nome, la fitta allo stomaco era lancinante ma divenne quasi piacevole.
Mi aiutarono a pulire tutta la casa, poi preparammo la cena, non sentivo più alcuna dipendenza da colori, note ed occhi.
Dopo cena guardammo un film sul mio letto.
Lei poggiò la sua testa sulla spalla di lui ed io mi sentii strappata dalla perfezione e la fitta diventò dolorosissima. Lei se ne accorse, mi guardò. Io feci finta di nulla, ma lei si avvicinò pericolosamente a me.
Ormai il film non aveva alcun suono per me, sentivo solo la melodia dei suoi occhi di ghiaccio che accarezzava la mia pelle.
Io mi girai, attirata magneticamente da quel suono fantastico, le sue labbra erano già sulle mie.
La fitta diventò lacerante, tutto il mio corpo si stava disintegrando dalla felicità, i miei atomi erano al limite dell’eccitazione, lei era fusa con me, le sue mani tra i miei capelli, poi più giù su quel petto, per me imbarazzante, troppo piccolo rispetto al suo, già teso dal primo istante, le mie si muovevano da sole come calamite su quel corpo perfetto.
Era di un rosa pallido, totalmente diversa da me e da lui, lui che ci fissava, non più con Quello sguardo, non più con il silenzio che parlava, con un altro sguardo.
Mi scostai da lei e ci andai, Quello sguardo, completò la melodia iniziata con lei.
Un’unione splendidamente, realmente, felicemente, perfetta.
Noi,tre anime in una.
La mattina mi svegliai per prima e trovai lui e Quello sguardo.
Ci guardammo a lungo nel silenzio parlante.
Quello che era successo era qualcosa di inspiegabilmente giusto e dannatamente perfetto.
La guardammo sognare, respirava piano, alzai gli occhi per vedere se lui stesse guardando quella bocca carnosa appena schiusa, ma vidi solo Quello sguardo.
Arrossii, tornò di colpo la fitta, mi sfilai dalle coperte totalmente svestita e sentii i suoi occhi nocciola osservare il mio corpo come non aveva avuto il tempo di fare la notte prima tra tutta quella passione e quell’eccitazione.
Cercai di coprirmi il più possibile, in poco tempo lo ritrovai vicino a me che mi porgeva la sua maglietta, quello era il suo gruppo preferito.
Andammo in cucina, senza far rumore continuammo, stavolta da soli, quello che era iniziato molte ore prima.
Non avevamo bisogno di parlare, lei era la perfezione tra di noi, ma il vero legame era il nostro.
Questa rivelazione mi colpì a tal punto che interruppi l’unione delle nostre labbra e lo guardai intensamente, nel nostro silenzio parlante, lui non so come, capì, lui capiva sempre.
Questo però non cambiò nulla in realtà, la nostra strana triade di anime continuò per mesi e mesi, lei ci rendeva splendenti, passionali, lui ci metteva quel pizzico di mistero ed intrigo, io, io ci mettevo l’amore.
Arrivò l’autunno coloratissimo e triste, la mia stagione preferita senza dubbio, ormai inseparabili camminavamo in un parchetto osservando le foglie che cadevano, lei parlava, noi ascoltavamo. La sua parlantina squillante e pulita era interrotta da vari colpi di tosse, il primo male di stagione, l’avrebbe passato a noi!
Lo stesso pensiero attraversò la mente di lui, che si girò con un sorrisetto ed una caramella al miele per lei. La prese e la infilò tra quelle labbra perfette continuando a parlare.
I giorni passavano, la tosse no, la prendemmo tutti e tre, lei però peggiorava sempre più.
La convinsi ad andare dal medico, almeno le avrebbe prescritto un buon farmaco. Ero in sala d’attesa, lei dentro da un’eternità, che sarà mai un po’ di influenza. Uscì un po’ triste, odiava prendere farmaci, le chiesi se andava tutto bene, si, influenza.
Il giorno dopo lei mi telefonò e mi disse di raggiungerla a casa, all’ingresso trovai anche lui, non mi allarmai, la perfezione è una droga.
Entrai, la baciai come ormai facevo per abitudine, lei ci disse di sederci, iniziò a piangere, il mio cuore si crepò, non potevo vederla piangere così lontana senza poterla stringere, senza riempire la parte vuota del suo petto con il mio cuore e sentire il mio vuoto riempito dal suo.
I suoi sentimenti erano cambiati, non voleva più continuare a vederci, non voleva più quella perfezione passionale, mai più.
Guardai lui, una strana luce negli occhi, tradimento, delusione, si alzò ed uscì.
Io la guardai, mi avvicinai, volevo capire, ne avevo bisogno, sentivo il suo cuore accelerare ad ogni mio passo, mi tenne lontana da lei, le sue manine sul mio petto singhiozzante, uscii.
Lo trovai fuori, non mi disse nulla, Quello sguardo, un bacio, ce l’avremmo fatta anche senza di lei.
Le settimane passarono, non la vidi neanche all’università, ci pensavo sempre, mi mancava un pezzo di anima, respiravo a fatica, a volte quando ero con lui, dimenticavo la sua assenza, ma poi tornava come un’onda di dolore che mi faceva infrangere su scoglia appuntiti.
Una sera sua madre ci chiamò.
Corremmo all’ospedale, perché non eravamo vicini a lei mentre era in quel letto e sembrava così piccola e fragile?
Si accorse della presenza delle nostre anime e si girò, si scostò i bellissimi capelli biondi dagli occhi, gliene rimase una ciocca in mano.
La guardò, pianse.
E piansi anch’io.
Era ad uno stadio troppo avanzato, inutile tentare altro.
Tutte quelle sigarette insieme, tante, troppe delusioni, troppi litigi, ci rilassavano, che stronzata.
Presi il pacchetto dalla mia tasca e lo lanciai dall’altra parte del corridoio, mai più. Nei mesi seguenti stemmo con lei ogni secondo, preoccupandoci che non toccasse nulla e nessuno per via del suo sistema immunitario così debole.
Sentivo ogni giorno la sua anima affievolirsi, spegnersi pian piano, i suoi occhi non erano più di ghiaccio ma di un azzurro acquoso e perennemente rossi e gonfi, i capelli diminuivano sempre più ma lei non volle mai tagliarli, ci prese la mano, disse che non era vero, non era cambiato nulla, noi eravamo tutto per lei, non avrebbe mai amato nessun altro così.
Un giorno portai lo stereo nella sua camera e misi la sua canzone preferita, la mia canzone preferita, la loro canzone preferita, l’unica che, per quanto ascoltassimo generi completamente diversi, ci metteva sempre d’accordo.
Arrivata all’ultima nota un suono continuo, elettronico la rovinò. L’ultimo respiro era per noi, con noi.
Si dice che quando si muore rimane per sempre impressa nel cervello l’ultima immagine osservata.
Noi, io e lui, la canzone in sottofondo, resteremo sempre con lei.

Le converse si rovinarono, arrivò un’altra estate, ma non fu calda non fu afosa non fu cinguettante non fu colorata, non sentii nulla.

La notte prima aveva piovuto, avevo le cuffie annodate, la mia mano era stretta dalla mia anima gemella, non mi lasciava andare mai, aveva paura di perdermi, ma io volevo restare un po’ sola, un bacio e poi presi a strisciare le converse sul marciapiede.
   
 
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