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Autore: Lely1441    26/06/2012    3 recensioni
Vorrei poter dire che la prima volta che la vidi fu in una fresca serata di settembre, silenziosa, rischiarata dalla luce della luna, che i nostri occhi si fossero cercati nella folla, ma sarebbe una bugia. La prima volta che la vidi era un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, il caldo era quasi insopportabile e io stavo lavorando.
E, soprattutto, lei non si era nemmeno accorta di me.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao.
 
 
 
Vorrei poter dire che la prima volta che la vidi fu in una fresca serata di settembre, silenziosa, rischiarata dalla luce della luna, che i nostri occhi si fossero cercati nella folla, ma sarebbe una bugia. La prima volta che la vidi era un qualsiasi pomeriggio afoso di luglio, il caldo era quasi insopportabile e io stavo lavorando.
E, soprattutto, lei non si era nemmeno accorta di me.
 
Dopo le superiori, i miei genitori non avevano potuto permettersi di farmi frequentare un’università, ma mi avevano lasciata libera di scegliere un lavoro in un campo che amassi. Dopo qualche tentativo fallimentare e quasi un anno a spasso, ero riuscita ad entrare nello staff che si occupava di organizzare le serate estive della mia città, una banalissima quanto piccola provincia del centro, e quindi da metà maggio fino a inizio ottobre facevo su e giù da casa mia all’angusto e umido piano che ospitava sala stampa, ufficio fotografi, sala riunioni e la piccola area dedicata alla radio universitaria. Ero diventata l’”assistente”: mi ero ritrovata a raccogliere informazioni per i giovani giornalisti in erba che ronzavano in quel piccolo alveare, a portare le borse di chi mi elargiva il - modesto - salario, ad occuparmi dell’accoglienza. Mi avevano persino insegnato a tenere in mano una macchina fotografica professionale, che da sola poteva costare quanto l’auto che non possedevo, e ad assistere adeguatamente i fonici che lavoravano nell’arena - “il” palco della città -, oppure dovevo presenziare ai concerti e agli incontri con arte e letteratura che si svolgevano nelle mille piazze della cittadina.
Mi piaceva stare lì: eravamo in molti, soprattutto nei giorni delle serate, e si parlava, si scherzava e si beveva parecchio. Si faceva rigorosamente tardi il venerdì, il sabato e la domenica - un orario che variava dalle due alle sei di mattina - ed era massacrante, una vita che amavo e che mi stordiva quasi quanto il vino. In tre anni avevo guadagnato molte amicizie diverse - i ragazzi universitari, un paio di fotografi, alcune ragazze dell’accoglienza all’arena -, un paio di brevi e insignificanti relazioni - una con il bassista di una band e l’altra con un giornalista esterno che ancora bazzicava in quei lidi - e un senso di pace interiore che non avevo mai provato alle superiori. Mi sentivo padrona della mia vita, e così volevo continuare a vivere.
La quarta estate era cominciata come al solito: calda, umida, piena di zanzare. Un pomeriggio di luglio, come dicevo prima, mi avevano spedito alla presentazione del nuovo album di un cantante mediamente famoso, di cui conoscevo poco o niente, e del quale ero poco entusiasta. Avevo salutato Danielle ed Erica, le altre due ragazze che dovevano occuparsi dell’accoglienza, e avevo iniziato a mettere i volantini sulle sedie. Nella piazzetta non c’era un filo d’aria, e io sapevo già che sarebbe stata una lunga, lunghissima serata.
«Maria Sole, sai mica dove si va stasera?», mi sussurrò Danielle, avvicinandosi a me mentre continuava sorridente ad invitare il pubblico a prendere posto sulle opache sedie nere di plastica.
«Sentivo prima Cristiano, probabilmente al Trenovezero… Deb faceva le solite storie, dobbiamo ancora decidere».
Sospirai, allontanandomi e appollaiandomi su un muretto, dietro lo spazio dedicato ai fonici, osservandoli trafficare tra bottoni, fili e microfoni.
«Mari, aiutami qua», disse Gianluca, mettendomi in mano un microfono. «Facciamo la prova e poi sistemalo sul bastone, che fra poco arrivano».
Obbedii e tornai al mio posto, aspettando che arrivassero gli ospiti della serata. In quel momento ero vagamente annoiata, preda di quell’insoddisfazione che, se avessi ceduto al mio istinto, mi avrebbe fatto alzare e andare via. Volevo solo scappare, fuggire; dove, non lo sapevo neppure io.
Mia nonna Pilar mi ha sempre detto, quand’ero piccola, che erano questi i momenti in cui accadeva inevitabilmente qualcosa, un qualcosa che dovevamo esser pronti ad afferrare, a stringere e a non lasciarci sfuggire. Era una donna superstiziosa, mia nonna: non iniziava mai a mangiare se mancava il sale in tavola, rideva con la bocca chiusa perché gli spiriti non le entrassero dentro e prima di entrare in chiesa si toglieva sempre le vecchie scarpe, per sfiorare la pietra sotto cui riposavano vecchi santi ormai dimenticati.
Non sono mai stata una persona scaramantica, ma forse mia nonna non aveva tutti i torti; quel giorno faceva veramente caldo, i capelli mi si erano attaccati al collo sudato, eppure, quando lei fece silenziosamente il suo ingresso, un brivido gelido mi costrinse a voltarmi verso di lei.
Ero una ragazza di ventidue anni, dell’amore non sapevo nulla e nulla volevo saperne. Eppure, in quell’istante capii che un muro opprimente si era appena dissolto dentro di me.
 
La trovavo bellissima. Aveva corti capelli ricci che le sfioravano dolcemente il collo, di un castano più chiaro del mio, occhi scuri ed un fisico dalle forme fini ed eleganti, niente affatto prepotente. Indossava una camicia leggera di lino, che si apriva e si appoggiava delicatamente al seno, infilandosi quindi in uno stretto paio di shorts marroni. Era scalza, e la cosa mi colpì particolarmente: il ricordo della mia infanzia, quella vissuta insieme a mia nonna Pilar, mi strinse lo stomaco, e avvertii il bisogno di avvicinarmi a quella donna, di toccarla. Come se sfiorandola potessi riappropriarmi di un passato fatto da sudore, menta masticata e fiori freschi in vaso, di crocefissi alle pareti e di disegni tracciati col gesso per terra.
Il cantante a cui si accompagnava era un uomo di mezza età, un bell’uomo, ma di quella bellezza che colpisce per la sua serenità, per la quieta essenza che traspariva da sotto la sua pelle. Insieme, ispiravano un tal senso di pace, di armonia, che era impossibile non rimanerne incantati.
Danielle mi si avvicinò di nuovo, facendosi aria con un dépliant e guardandomi con uno sguardo reso vacuo dall’afa. Provò ad attaccare bottone, ma io risposi a monosillabi, troppo agitata per capire realmente ciò che mi stava dicendo. Vedevo solo lei, il suo sorriso tranquillo, le sue movenze così leggere che non avevo mai scorto in nessun altro.
 
«Com’era stare con il nonno?», avevo domandato a donna Pilar, tanti anni prima. Lei mi aveva sorriso e si era accarezzata un polso.
«Non penso si possa spiegare, niña. Era come aver trovato una parte di me stessa che non sapevo neanche di possedere, era avere la sensazione che per quanto i tempi si fossero fatti duri, noi saremmo andati avanti; nonostante tutto, nonostante tutti. Sapevamo che, dovunque fossimo, eravamo amati. Questo mi è rimasto dentro, lui è ancora vivo dentro di me. E so che io sono da qualche parte, in qualche mondo, dentro di lui. Non ci siamo mai lasciati».
Di mio nonno avevo pochi ma caldi ricordi. Il suo sorriso bianco nella faccia abbronzata, l’odore di tabacco, le canottiere di cotone sotto la camicia, anche quando il caldo si faceva insopportabile. Di loro due insieme conservavo più che altro un senso di profonda commozione, che mi aveva sempre fatto aspettare la persona giusta. Quella che, come il nonno, avrei riconosciuto perché qualcosa di suo era in me, e nella quale avrei distinto qualcosa di mio.
«E tu la troverai, niña, lo vedo nel tuo futuro. Tu sei destinata ad essere felice, felice come lo sono stata io».
Mia nonna era convinta che le “anime belle” fossero destinate ad incontrarsi, a completarsi. E che, quando io avessi trovato la mia, l’avrei riconosciuta subito.
 
Quello che mi lasciava incantata, di lei, era il modo in cui si rapportava con la musica. Di cantanti ne avevo incontrati tanti, ma era come si approcciava alle melodie che mi sconvolgeva. Vedevo che muoveva impercettibilmente le labbra anche quando era l’altro a cantare, che quando modulava la voce si avvicinava al bastone del microfono come se volesse fondervisi - come se volesse fare l’amore con quella musica che la circondava e le entrava dentro -, che si tratteneva a stento dal danzare lì, davanti a quegli occhi, ormai nemmeno più conscia della realtà attorno. Non avevo mai visto nessuno così preso da qualcosa, non al punto di esprimere la propria gioia in maniera così tangibile, e riuscivo a sentire quello strano stato di ebbrezza fluire anche dentro me, coinvolgermi, lasciarmi senza fiato. Trovavo le parole dei testi di una poesia straordinaria, ma sapevo perfettamente che, se anche avessero cantato in una lingua sconosciuta, avrei comunque avuto gli occhi lucidi e la gola bloccata alla fine dell’esibizione.
«Ci accompagni?», mi aveva chiesto Gianluca, io avevo solo fatto cenno di no con la testa e mi ero intrufolata dietro gli archi di pietra che si aprivano sul backstage. Un paio di ragazzi aveva placcato il cantante per fargli un’intervista, lei invece si era seduta sopra una robusta cassa nera e stava bevendo dell’acqua da un bottiglietta.
«Ciao», le dissi, avvicinandomi. Da vicino era persino più bella.
Lei alzò gli occhi e mi guardò, sorridendomi. «Ciao».
Le mie condizioni erano pietose: la coda bassa non aveva impedito che i capelli si spettinassero comunque, avevo sicuramente delle occhiaie non indifferenti e indossavo una vecchia canotta sbiadita. Non facevo mai molto caso a quello che mi mettevo, non quando l’unica cosa a cui si faceva caso, là dentro, era il pass, fedelmente agganciato ai passanti dei miei larghi pantaloni neri. Ero un disastro, eppure in quel momento non mi importava.
«Siete stati eccezionali», mormorai, e vidi i suoi occhi illuminarsi. «Davvero… Io non vi conoscevo, siete stati una gradevole sorpresa».
Lei sorrise, chiudendo con il tappo la bottiglietta e dondolando i piedi per aria.
«Di sicuro non potevi conoscere me… Lo accompagno in giro per aiutarlo nelle canzoni nate per essere delle collaborazioni, ma preferisco rimanere una voce di nicchia. Sai, poter gironzolare in tutta tranquillità, godermi le serate, un pubblico che non ti conosce e che ti deve scoprire… L’anonimato è una vantaggio che non tutti sono in grado di apprezzare».
Io annuii, turbata dal misto di emozioni che stavo provando in quel momento.
«Mi chiamo Maria Sole, comunque. Sono solo una dell’organizzazione», mi presentai, porgendole la mano che lei strinse con ferma delicatezza.
«Io sono Eirene. Non avevo mai conosciuto qualcuno con un nome come il tuo!»
«Madre argentina», spiegai semplicemente, conscia che già la strana pronuncia di quel “Sole” e i miei lineamenti avrebbero fatto capire il necessario; avevo solamente voglia di parlarle di me, di dirle qualcosa di mio.
«Mia nonna, invece, era greca. In famiglia è rimasta la tradizione di battezzarci con nomi inconsueti per il nostro luogo di nascita».
«A me piace molto!», esclamai con sincerità. Lei sorrise di nuovo, e stava per aggiungere qualcosa quando un ragazzo si avvicinò e le toccò un braccio.
«Nene, dobbiamo andare, gli altri sono già nel furgone».
Mi crollò il mondo addosso. Intontita, la osservai alzarsi e darmi nuovamente la mano, che presi istintivamente.
«È stato un piacere, Maria Sole. Spero ci incontreremo ancora», disse, e io balbettai un:
«Lo spero anche io…»
Dopodiché, mi voltò le spalle e la osservai sparire oltre la piazza, in un vicolo piccolo e stretto.
Non l’avrei rivista che dopo due anni.
 
C’erano stati molti momenti difficili, nella nostra vita. Ero una bimba quando era morto mio nonno, e io avevo passato due giorni interi rannicchiata sul mio letto, rifiutandomi di alzarmi o di mangiare. Non ero voluta neanche andare al funerale. Nonna Pilar si era presentata da me la terza mattina e non aveva detto nulla, si era stesa accanto a me e mi aveva abbracciata, in modo che il mio capo si posasse sul suo vecchio petto materno che profumava di lacrime e lavanda.
«Non perdere la speranza, niña. Qualsiasi cosa accada, ricordati che è solo una prova, e che chi sembra lasciarci in realtà resta qui. Non se ne va nessuno, bambina mia, chi ti vuole bene non ti abbandona».
Non ricordo altro di quella giornata, se non la sensazione del cotone stropicciato e umido della sua veste contro la mia guancia bagnata, la sua catenina d’oro stretta nella mia mano.
 
In due anni, non sembrava essere cambiata di una virgola. Era sempre bellissima, delicata, aveva sempre lo stesso amore per ciò che faceva. In due anni, non ero ancora riuscita a togliermi dalla testa che fosse lei la persona che stavo cercando, e ancora non mi ero capacitata di come non fossi riuscita a ritrovarla che dopo tutto quel tempo. Era tornata, sempre affiancando quell’uomo grande e buono dalla voce rassicurante, e io ero decisa a parlarci di nuovo. Non avevo idea di cosa potessi dirle, perché mi rendevo io per prima conto dell’assurdità della situazione, ma non potevo farla andare via così.
Stavolta si erano fermati dopo l’esibizione, optando per passare la notte in un famoso pub con un bel giardino sul retro, e gli altri ragazzi avevano circondato il cantante, che rideva bloccato tra loro e il bancone. «Ti stavo cercando», sussurrai, trovandola sola, in un angolo, che si muoveva seguendo il ritmo della canzone che stavano suonando all’interno. Lei si voltò a guardarmi, e capii che mi aveva riconosciuta.
«Ciao», mi salutò con un sorriso, e sentii il mio stomaco sciogliersi e contrarsi. Mi chiesi se ci avrei mai fatto l’abitudine.
«Anche stasera siete andati benissimo», incominciai, come se riprendessi un discorso lasciato cadere solo pochi minuti prima. Lei annuì, contenta del mio parere, e mi fece segno di sedermi sul muretto, accanto a lei.
«Maria Sole, giusto? Mi era rimasto impresso il tuo nome…», mormorò, senza guardarmi. Sentii la faccia andarmi a fuoco, ma non mi importò. «Ti sei tagliata i capelli», continuò, sfiorandomi il collo con due dita e prendendo in mano una ciocca dei miei lisci capelli neri, che toccavano a malapena le spalle. Io sospirai involontariamente, e lei scoppiò a ridere.
«Scusa», e sapevo, sapevo di dover essere imbarazzata, che i miei sentimenti erano chiari e che lei aveva capito tutto, ma io non riuscivo ad esserlo. Non provavo imbarazzo, vergogna, solo la sensazione che essere lì, con lei, in quel preciso istante, era fondamentale, e un po’ di paura per il fatto che lei potesse allontanarsi e abbandonarmi. «Non sono mai stata brava nel gestire queste cose, sono troppo cristallina».
«Non esiste bravura “in queste cose”… In più, non mi piacciono le reazioni costruite, preferisco quelle spontanee».
Mi aveva sorriso, di nuovo, e pur se davvero non volevo fare altro che baciarla, la ringraziai negli anni a venire di quello che disse dopo.
«Ti va di parlarmi un po’ di te, Maria Sole?»
 
Tutta la nostra relazione fu improntata all’insegna della naturalezza. Le prime uscite, il primo bacio, il modo in cui cercavamo di far combaciare i nostri impegni per vederci - fortunatamente era venuto fuori che abitava a meno di un centinaio di chilometri da me, e quindi potevamo vederci più spesso di quanto avessi dapprima sperato. Avevamo avuto ore e ore solo per noi, e le avevo raccontato di me, della nonna, del mio lavoro; di lei, avevo scoperto che era in realtà una figlia d’arte. Suo padre era un personaggio piuttosto famoso nel giro, ma lei non aveva mai ambito a quella notorietà. Era una persona tranquilla, riservata, gelosa del suo spazio, spazio che poi da “suo” era diventato “nostro”.
«Mi importa solo poter cantare, ma non voglio farmi un nome».
Stesa nuda sul letto di quella grande casa al mare, ero ormai arrivata alla piena consapevolezza che ciò che mi aveva sempre detto nonna Pilar era vero.
«L’importante è che tu faccia quello che vuoi», mormorai con gli occhi chiusi, cominciando ad entrare nel dormiveglia. Sentivo la sua mano fresca carezzarmi la schiena, l’altra imprigionata nella mia, le nostre gambe intrecciate. L’aria era calma, immobile, regnava una sensazione di pace che riusciva a toccarmi come la prima volta. «Io resterò sempre insieme a te, è questa l’unica cosa che conta».
Mi baciò una tempia, e io sorrisi di riflesso, stringendole la mano. Adoravo dormire con lei, i nostri corpi si incastravano alla perfezione e sembrava che non potesse esistere nient’altro, in quei momenti, che noi due.
«Sono contenta che tu mi abbia trovata», sussurrò, chiudendo anche lei gli occhi e arrendendosi al sonno.
«Sono contenta che tu ti sia lasciata trovare».
 
«Come fai a essere così sicura che incontrerò chi mi aspetta, abuela?»
Nonna Pilar mi aveva fissato sorridendo, chinandosi a lasciarmi un bacio sulla fronte e rimboccandomi le coperte.
«Perché lo so», aveva risposto lei, con uno scintillio nello sguardo. Poi era scoppiata a ridere ed era uscita coprendosi la bocca, per evitare che gli spiriti le entrassero dentro.
 
 
 
A te.
   
 
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