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Autore: Breatheunderwater    26/06/2012    0 recensioni
Non ci credi nel destino?
Allora? Proprio non ci credi?
Quindi sei sicuro di non crederci?
Quindi ora ci credi? Nel destino intendo..
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre anni sono già passati da quando mi sono trasferito qui, a Londra. Il tempo, come sempre, è trascorso veloce e indisturbato.
Solo oggi, il giorno del mio trentesimo compleanno, mi rendo conto di tutto il trascorso.
Come se avessi ripercorso gli ultimi tre anni ad una velocità sostenuta, osservando e vivendo velatamente tutte le situazioni che mi si sono presentate. Io, persona, come sempre vestita di nero mi immagino di aver passato gli ultimi anni in mezzo ad una strada, le persona di tutti i giorni che mi passavano accanto senza mai sfiorarmi, solo ogni tanto qualcuno si scontrava alla mia spalla destra, qualcun altro sfiorava la sinistra. Mai nessuno che mi abbia travolto da buttarmi a terra e da essere costretto a stringermi la mano per aiutarmi a risollevarmi.
Io, umano, in mezzo a quella strada piena di luci che mi sorpassano e mi attraversano veloci lasciando alle loro spalle una piccola striscia di colore temporanea.

Oggi, 19 Novembre, mi trovo inspiegabilmente e inaspettatamente cosciente. All'improvviso qualcuno ha regolarizzato la velocità delle luci e dei passanti, un altro ha avuto la premura di riattivarmi girando la manopola al mio interno e un terzo mi ha voluto dare una leggera spinta, una scossa per farmi rinsavire. Come un mezzo di trasporto che, sparato ad una velocità inaudita, rallenta di colpo, io mi ritrovo scaraventato nella realtà e mi ritrovo a pensare al perché.
Perché me ne sono andato? Perché non ho affrontato la realtà? Perché non mi sono appoggiato a lei? Perché?
Siamo a Novembre, a Londra ed è inverno. Il freddo tanto terribile quanto piacevole mi punge la pelle diafana mentre cammino per raggiungere pochi amici per festeggiare il mio trentesimo compleanno.
Trent'anni. Li ho vissuti, eccome se l'ho fatto. Ho viaggiato, ho amato, ho perso miriadi di cose e persone e ne ho trovato altrettante, se non di più. Eppure manca qualcosa, qualcosa che ho lasciato tre anni fa. Non so bene cosa sia, più mi sforzo e più la memoria vacilla. Non riesco a fare una distinzione netta tra quei ricordi e la mia fantasia. Ogni volta che cerco di ricordare si aggiunge un nuovo particolare a volte logico altre volte illogico.
Non sto vivendo la crisi dei trenta, alla fine non ho niente su cui rimuginare che ho perso e che non avrei potuto perdere. Ho solo in testa questo piccolo particolare: c'è qualcosa che manca. Può darsi che fossi destinato ad un incontro e che io per vari motivi sia riuscito ad evitarlo. Anche se fosse il destino è destino, non penso possa fallire e se, apparentemente, fallisce si può star certi che in un modo o nell'altro tornerà per compiere la sua missione.
Sono quasi giunto al locale, non ricordo come si chiama ma fanno musica solo degli anni 80/90. Le hits del momento te le scordi.
Un ricordo poco chiaro fa un giro per la mia testa e sparisce velocemente in chissà quale meandro: “Non ci credi nel destino?” – una voce di donna, lieve, soffice e delicata. Il ricordo è accompagnato da un leggero calore all'altezza della bocca dello stomaco ma, non so di chi sia quella voce.
“Jim, ce l'hai fatta!” – mi risveglio dai miei pensieri e scorgo la figura di James che scuote una mano in aria per farsi notare. È il più attivo e dedito alle cazzate e al divertimento, è sempre iperattivo tanto che le prime volte che lo incontravo pensavo si drogasse. Mi avvicino sorridente e dopo aver abbracciato James saluto William e Jack. Pochi ma buoni, così dicono. In verità non volevo neanche festeggiare, con la scusa che il loro regalo sarebbe stata una festicciola sono riusciti a farmi uscire di casa. Spero che non ci siano altri regali, uno basta e avanza.
“Pronto per la serata? Abbiamo riservato il miglior tavolo solo per te!” – acconsento mentre mi accendo la quinta sigaretta della giornata, sto cercando di smettere e mi è impossibile non tenerne il conto.
“Quindi Gianni caro, ti conosciamo per cui la canzoncina del buon compleanno l'avrai ora” – non so se ridere per come ha pronunciato il mio vero nome o per il fatto che stanno tutti e tre per intonare il classico 'Happy Birthday'. Non riesco a soffocare le risate e nel mentre mi guardo attorno e posso constatare che c'è troppa gente che si sta godendo lo spettacolo ma, chi se ne importa. Sono uscito per festeggiare e festeggiamo, per una notte dimentichiamo tutte le angosce e le seghe mentali. Mi unisco anche io al coro augurandomi da solo un buon compleanno. I passanti hanno sicuramente apprezzato lo spettacolo visti gli applausi e i fischi.
Ancora con qualche risolino ed entriamo nel locale.
È la prima volta che ci vengo. Solcata la porta e chiusasi alle nostre spalle ci troviamo in un piccolo corridoio dove si trova una specie di bancone dove un ragazzo conserva giacche e cappotti. Abbandonati i nostri ci dirigiamo verso una tenda in velluto rosso e la sorpassiamo: la musica che prima rimbombava ovattata ora ci travolge. Il pavimento a scacchi neri e bianchi, i tavoli quadrati neri e un piccolo palco con una palo in mezzo. In fondo al locale il bar con le cameriere che, in pattini, scivolano da una parte all'altra per portare ai clienti le ordinazioni.
Vedo Jack parlare con un tizio che tutto sorridente ci accompagna al tavolo che gli altri avevano prenotato, è sotto il piccolo palco che avevo visto.
Per tutto il locale si diffonde 'Boys' dei Bauhaus e mi abbandono a quelle note mentre sorseggio il primo cocktail della serata.
Ridiamo e scherziamo come sempre, come al solito se non fosse che ora ho trent'anni e un macigno sullo stomaco.
“Ehi, ma cos'ha questo tavolo di speciale?” – chiedo dopo essermi ricordato delle parole del mio amico. Prima di rispondermi guarda l'orologio.
“Tra poco lo saprai” – tutti sorridono e io gli faccio cenno di parlare.
“Ti possiamo solo dire che sei fuori da mondo visto che questa è l'ultima novità notturna londinese e tu non ne sai niente” – li guardo sconcertato. Ok, a volte mi isolo e mi passano di mente diverse cose ma... si, ok hanno ragione. Pensato questo scoppio a ridere e attendo con ansia.
“è ora!” – mi sussurra William all'orecchio, non faccio in tempo a rispondere che la musica si interrompe improvvisamente e le luci si abbassano lasciandoci quasi nel buio più totale.

Sposto la mia attenzione sul palco dove una figura si sta facendo avanti accompagnata dal rumore dei tacchi che ha ai piedi. Si ferma sul bordo del palco e posso intravedere delle decoltè nere in vernice, sul dorso del piede destro dei fiori di pesco, credo, tatuati. Eccola di nuovo, quella voce: “Allora? Proprio non ci credi?”.
Quei piedi si sbilanciano appena e fanno retro marcia, verso il centro del palco, dove c'è il palo.
Il silenzio regna sovrano, gli unici rumori che si sono potuti sentire sono stati i tacchi e il rumore del ghiaccio che sciogliendosi sbatte contro il vetro del bicchiere.
Sembra che tutti, all'interno del locale, stiano trattenendo il fiato.
Ancora pochi secondi, pochi respiri e la musica parte: 'Girls, Girls, Girls' dei Motley Crue.
Le luci si fanno più vive e colorate e vengono proiettate sulla ragazza che inizia a ballare. Ha il capelli neri acconciati in un caschetto, le labbra rosso fuoco e un paio di rayban a goccia che le coprono il viso. Ha una maglietta nera, sopra una camicia anch'essa nera, due taglie più grande legata in vita. Un paio di shorts in pelle le fasciano le cosce e dalla camicia di possono intravvedere due bretelle bianche attaccate ai pantaloncini. Alla mani dei guanti in pelle nera senza dita. Si muove divinamente e, per quanto i movimenti possano essere espliciti, questa ragazza non trasmette nessuna volgarità.
Alla fine della canzone si abbassa gli occhiali e mi fa l'occhiolino. Per un attimo rimango stupito da quel gesto poi mi ricordo della specialità del tavolo.
“Figa, no?” – sempre delicato Jack.
“Si, figa...”
“Tranquillo, mica è finita qua” – sto per ribattere quando ecco di nuovo il rumore di tacchi, alzo la testa e la vedo sul bordo del palco a pochi centimetri dal nostro tavolo. Si toglie gli occhiali e, dopo aver fatto un cenno ad una cameriera, glieli lancia. Si inchina senza mai distogliere lo sguardo da me, punta le ginocchia sul parlo e poggiando le mani sul tavolo si sporge in avanti fino ad accostarsi al mio orecchio.
“Auguri Gianni” – un sussurro lieve, delicato e soffice proprio come la voce del ricordo. Vorrei parlare ma non riesco. Mi ha fatto gli auguri in italiano e mi ha chiamato col mio vero nome. Possono averglielo detto gli altri ma il suo non era di certo una accento inglese o americano ma un perfetto italiano.
Si allontana per posizionarsi di fronte al palo e dando le spalle al pubblico si prepara per la prossima canzone: 'Blues from a gun'.
Si muove a tempo, lasciando tutti senza fiato. Si gira per incatenare di nuovo il suo sguardo nel mio e con movimenti fluidi slaccia il nodo della camicia e piano la lascia scivolare sul palco, allontanandola con un movimento del piede. Ci ridà le spalle incrociando le mani al petto e ancheggiando si abbassa. Sposta le mani, dalle spalle le appoggia a terra lasciando scoperta un pezzo di pelle colorato da un altro tatuaggio, una scritta. Non leggo da qua. Di nuovo quella voce, uno stralcio di ricordo: “quindi sei sicuro di non crederci?”.
La musica finisce e scatta in automatico l'applauso. Mi sento frastornato.
“E ora, compreso nel tavolo, c'è un ballo lento con la ballerina” – guardo attonito il mio amico e dopo pochi secondi realizzo cosa mi sta dicendo. Io ballare?
“Eeeh?”
“Dai è solo un balletto e poi, ok che è pagata, ma non ti staccava gli occhi di dosso e con la faccia da pesce lesso che ti ritrovi non penso sia un problema avvicinarti a lei” – ok, la mia faccio è un libro aperto, ne sono consapevole ma sputarmelo così non è comunque carino.
Sbuffo e mi giro per guardare alle mie spalle la ragazza che si sta avvicinando.
“Su forza e coraggio!” – sono ancora seduto quando la ragazza mi raggiunge, poggia le mani sulla spalliera della sedia e si china per parlarmi nuovamente all'orecchio.
“Mi concedi questo ballo?” – si scosta, fa qualche passo indietro e mi tende la mano. Sposto rumorosamente la sedia e un po' imbarazzato poggio la mia mano sulla sua e parte un'altra canzone: 'Just Like Honey'. Ma cos'è la serata dei 'The Jesus and Mary chain'? Saranno stati gli altri a fare questa scaletta.
Mi avvolge le braccia attorno al collo, la stringo tenendola per i fianchi. Azzardo la domanda che mi ronza da quando mi ha fatto gli auguri.
“Mi conosci?” – mi fissa un attimo prima di abbassare il viso per ridacchiare. Lo rialza, si guarda attorno incuriosita come a cercare qualcosa, forse la risposta.
“Si e tu non ti ricordi!” – colpo basso. Accenno un sorriso timido come per scusarmi.
“Sei scusato, abbiamo parlato solo due volte” – ah, ecco. Però non mi tornano i conti, se ci ho parlato solo due volte perché mi suscita certi ricordi e certe sensazioni?
“La prima volta abbiamo avuto una discussione sul destino” – ora sto ricordando. Mi aveva colpito subito come ragazza, allora perché ci siamo visti solo due volte?
“La seconda volta mi sono dichiarata e tu mi hai dato un due di picche” – eeeh! E perché mai l'avrei fatto? Ah, si ricordo. Era un periodo brutto per me, volevo solo partire e sparire per un tempo indefinito, dimenticare tutto e tutti per iniziare un'altra vita. Non avevo intenzione di chiuderla definitivamente, volevo aprire un'altra porta, entrarci e arredare la nuova stanza con nuovi oggetti senza però dover rientrare o passare per la vecchia. Non so se tutto questo si possa definire una fuga, preferirei di no.
“Cos'è, pentito?” – sorride. Non me la ricordavo così bella, ancora più bella di prima. Che poi lei era una novità, non volevo neanche quelle al tempo.
“Mi dispiace” – le soffio ad uno orecchio. Rimane un attimo interdetta non aspettandosi questa risposta.
“Per il due di picche? Fa niente” – un ultimo sorriso prima che la canzone finisca e lei sciolga l'abbraccio, si sta allontanando ma la fermo afferrandola per il polso e accostandomi al suo orecchio le dico: “ti aspetto sul retro” – fa un cenno con la testa per acconsentire e poi si allontana.
Quando torno al tavolo le battutine e le battutacce non mancano, la serata finisce verso le due. Dopo essere usciti dal locale ci siamo buttati da una parte per un paio di sigarette e per scartare un regalo inaspettato. Un paio di cd che mi mancavano, so di avere trent'anni ma questo non significa che devo smettere di coltivare le mie passioni/ossessioni.
Ci salutiamo e mi dirigo a passo spedito sul retro del locale, non so a che ora chiude. Sono le due passate, spero solo che non se ne sia andata.
Giro l'angolo e la vedo seduta su un gradino che da gli ultimi due tiri alla sigaretta. Non ha più la divisa da “ballo”, indossa dei jeans stretti neri, ai piedi degli anfibi e si stringe in un golfo pesante e due taglie più grande. Butta la sigaretta e affonda il viso nella sciarpa rossa.
“è molto che aspetti?” – si alza e mi affianca.
“non molto”
“andiamo a casa” – annuisce e ci incamminiamo. Mi segue in silenzio, sembra sopraffatta dai suoi pensieri. Chissà a cosa pensa. Chissà se si ricorda l'insistenza con cui mi chiedeva del destino, aveva insistito talmente tanto che è uno dei ricordi più vividi che ho.
Arriviamo a casa, è un buco e non so neanche se si possa definire casa. Un monolocale con un letto troppo grande che occupa mezza stanza, un televisore incastrato in un angolo, una libreria troppo piena e libri e cd sparsi ovunque. Un cucinino sulla sinistra e infondo a questa stanzetta un bagno. Diciamo che sopravvivo.
“Bello” – esclama all'improvviso dopo troppo silenzio. Ma come fa ad essere bello? E come se mi avesse letto nel pensiero mi risponde.
“Cioè, a me piace. Non amo le cose grandi. Magari normalmente sarebbe bruttino ma a me piace. Anche il casino” – ok, strana e senza peli sulla lingua. Mi lascio sfuggire una risata e le faccio cenno di accomodarsi mentre mi tolgo il cappotto e mi accendo una sigaretta.
Si sfila le scarpe per poter salire sul letto, la sciarpa e togliendosi il golfo troppo grande rimane con una maglietta nera a maniche lunghe.
Anche io, seguendo il suo esempio, mi tolgo le scarpe e mi sistemo sul letto. Ancora silenzio, la osservo mordersi il labbro inferiore, è evidente che è di nuovo immersa in chissà quali pensieri.
All'improvviso alza il viso ed esordisce con: “quindi ora ci credi? Nel destino intendo”.
Se lo ricorda... sorrido sollevato. Mi sistemo meglio avvicinandomi a lei, poggio la mano destra sulla sua guancia e la accarezzo. Con le labbra a pochi centimetri dalle sue le soffio: “ci ho sempre creduto”. Annullo quella distanza unendo le nostre labbra. Le emozioni che si smuovono al mio interno sono indescrivibile, è come se avessi riunito quella cosa che tanto mi mancava e che tanto anelavo.
Le immagini dei nostri due unici incontri passati mi passano per la mente, sono vividi e caldi. Ecco cosa mi aveva colpito, la vita e la convinzione nei suoi occhi quando parlando, anche solo di un argomento quale il destino, emanava lucentezza. La voglia e la consapevolezza di vivere e di star vivendo, ecco cosa mi aveva spaventato.
Ora però non fa più paura.
“In due non fa poi così paura...” – non sono stato l'unico ad aver avuto paura.

  
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