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Autore: Talesteller    27/06/2012    2 recensioni
Uno dei personaggi del mio romanzo, protagonista di un breve racconto ambientato venticinque anni dopo la salita di Jarel al Trono del Drago.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La foresta sotto di lui risuonava dei canti di uccelli e insetti.
Raramente, dai folti boschi si levava inoltre il ruggito di una manticora.
Mai quegli animali si erano spinti così a nord, al punto da competere con orsi e lupi bianchi.
Quella migrazione anomala era senza dubbio causa del caldo.
Era l’estate più calda che la sua memoria sempre più debole gli permettesse di ricordare.
L’intera torre era vuota e silenziosa, come una rovina rimasta disabitata per troppo poco tempo per iniziare a cadere a pezzi.
Gli Eremiti erano gli occhi e le orecchie di Jarel e dell’Organizzazione in Europa, non avevano tempo per oziare al castello. Quelli che non erano in missione erano a godersi la licenza a Seagard o in un altro dei porti del nord, non torridi quanto quelli sul Mediterraneo ma comunque più caldi della Torre, che nella parte bassa riusciva ad essere fredda anche in quella stagione. Ad Heldarr ciò non dispiaceva, agli altri evidentemente sì.
Solo una delle settanta stanze riservate agli Eremiti era occupata, e vi soggiornava il maestro d’armi della Torre, ma di lì a poco sarebbe partito, insieme ad Ahriel.
L’indomani mattina, se ne sarebbe andato anche lui, e sarebbero rimasti solo gli attendenti.
Malgrado conoscesse personalmente quei ragazzi e si fidasse di loro come dei figli che non avrebbe mai avuto, la diffidenza del passato continuava a non fargli piacere l’idea di abbandonare ad altri la sua unica casa.
Si domandò quanto tempo sarebbe trascorso prima che quella situazione cambiasse.
Non venivano iniziati nuovi Eremiti da quasi due anni, e l’ultimo attendente era entrato al castello nel mezzo della stagione delle alluvioni.
In quel periodo si erano presentati al castello trentadue ragazzi, malconci e con il fango incrostato sui pantaloni fino alle cosce.
Orfani, gente a cui le inondazioni avevano strappato campi, bestiame o genitori, in alcuni casi tutto insieme, spinti più dalla prospettiva della misera paga che gli sarebbe spettata in quanto servitù alla Torre Verde che non da quella di diventare, un giorno, Eremiti, maestri del combattimento e dello spionaggio.
Se avesse accettato tutta quella gente, il Corpo sarebbe andato ben presto in rovina, così si era costretto a selezionare i giovani migliori, accettandone una decina.
Nessuno dei quali sarebbe mai diventato un Eremita.
E forse la situazione non sarebbe cambiata prima di un’altra rivolta.
Sembrava che in tempo di pace la gente dimenticasse l’esistenza e il significato della parola guerra.
E dire che la rivolta degli Schiavisti, l’ultima rivolta dei nobili restii a piegarsi sotto il martello anti-latifondi di Jarel, era stata annientata solo cinque anni prima.
Subito dopo l’applicazione del Martello, erano stati molti i nobili a ribellarsi, e nessuno di essi aveva ottenuto nulla tranne la propria rovina.
I beni confiscati vennero inizialmente utilizzati per riempire le tesorerie della Rocca del Drago, rimaste semivuote per due secoli, in seguito smembrati e ridistribuiti tra contadini e piccoli commercianti della zona, benestanti ma non ricchi, non abbastanza per essere colpiti dal decreto-martello.
Banditi gli Schiavisti e confiscati i loro beni, il Consiglio non aveva avuto più bisogno di sguainare la spada.
Alla fine delle inondazioni primaverili, nove decimi delle truppe erano stati mandati in licenza per ricostruire i raccolti distrutti.
Nel profondo, Heldarr aveva sperato che ciò inducesse due o tre dei nobili ridotti in rovina a sollevarsi, ma non era ancora accaduto nulla di simile.
Forse temevano tutti che il Drago tirasse fuori un esercito dal nulla, o più probabilmente erano stati ridotti tanto male da essere incapaci di qualsiasi azione bellica.
Heldarr era pronto a scommettere che almeno metà dei nobili privati del loro nome e delle proprie ricchezze ed esiliati dalla propria terra fosse stata ridotta a mendicare per le strade.
E un mendicantenon può radunare un esercito, non da solo.
Ma a chi avrebbero potuto appoggiarsi?
Quale malcontento avrebbero potuto sfruttare, a parte quello di altri mendicanti?
Metà del popolo idolatrava Jarel per averlo fatto uscire da duecento anni di miseria, il resto era troppo occupato a riprendersi dalle inondazioni per realizzare di avere un sovrano.
Insomma, la Pace del Drago aveva tutte le possibilità di durare finché il Drago stesso ed il Consiglio avessero avuto vita.
-Non hai ancora memorizzato ogni singolo albero di questo panorama?- Chiese una voce alle sue spalle.
Non l’aveva sentita arrivare, come al solito.
Si staccò dal parapetto della terrazza e si voltò verso la Sala Tattica, una grossa stanza quadrata che da sola occupava quasi tutto l’ultimo piano della Torre Verde.
Ahriel era appoggiata al tavolo circolare al centro, con addosso una tunica da viaggio senza maniche marrone chiaro, priva di qualsiasi decorazione.
Concorde con quell’abbigliamento quanto una macchia d’inchiostro su un arazzo, in vita portava un grosso cinturone nero con una fibbia d’argento, a cui era appeso il fodero di Ragno.
Era pronta ad andarsene, ed era venuta per dirgli addio.
Quella visione peggiorò il suo stato d’animo già cupo.
-No, ma su gran parte di essi ci sono i solchi dei miei coltelli e delle pallottole degli Eremiti- L’Ingegnere di Corte di Khereldan aveva da anni messo a punto un dispositivo che funzionava in modo analogo ai cannoni importati da Oriente, ma piccolo abbastanza da poter essere montato su un braccio ed azionato con un congegno a molle simile a quello della lama rotante.
Su brevi distanze era micidiale, ma Heldarr preferiva continuare ad affidarsi ad arco e frecce, malgrado sapesse che prima o poi le sue braccia si sarebbero rifiutate di reggere il pesante arco di torio nero ed oro e di tendere la corda al massimo dell’estensione.
Per questo teneva una di quelle armi nel doppiofondo di un cassetto nella sua stanza.
Gli Eremiti ne facevano uso già da anni, quindi teoricamente non avrebbe avuto nessun motivo per cui vergognarsi.
In realtà sapeva perfettamente il motivo per cui si rifiutava di tirarla fuori da quel cassetto.
Si rifiutava di ammettere a se’ stesso di stare invecchiando.
Usava sempre di più l’arco e teneva il fucile alla cintura solo come arma di riserva una volta che avesse esaurito le frecce.
Si rendeva conto di aver perso la precisione di quando ancora non aveva dimenticato la gioventù, ma l’esercizio continuo compensava per ora con efficacia quella perdita.
Si appoggiò alla ringhiera e contemplò il suo sorriso.
Aveva quasi cinquant’anni, ma la sua bellezza non era altro che aumentata.
La bellezza che si era forgiata in dieci anni di vagabondaggi nei boschi e venticinque trascorsi come guerriera e assassina.
Come avesse fatto a non consumarsi, era qualcosa che non riusciva a comprendere ormai da anni.
Le si avvicinò e l’abbracciò.
Era più vecchio di lei di almeno dieci anni, ma l’Energia Oscura che scorreva nelle sue vene li faceva sembrare coetanei.
Era lo stesso motivo per cui Jarel e l’Oracolo sembravano non essere affatto cambiati da quando, quasi vent’anni prima, il Giovane Drago aveva unito il Consiglio a Redhills.
Dietro questa anomalia si celava un’altra delle verità che non osava ammettere a se’ stesso -Devi proprio andare?- Lei gli accarezzò il braccio senza quasi neanche toccarlo.
-Sono passati trent’anni, e fai ancora domande di cui conosci la risposta-
-Spero sempre di sbagliarmi. E poi non sono trent’anni-
-Venticinque, trenta, non fa differenza. Ti terrorizza così tanto il tempo?-
-Lo scivolare costantemente verso la vecchiaia è ciò che permette di godersi a fondo la gioventù…-
-Non ho voglia di filosofia ora, Eremita- Non ne aveva voglia nemmeno lui.
Non l’avrebbe rivista per mesi, forse un anno.
C’era qualcosa di più importante di vagheggiamenti sul valore della vita.
Le sfiorò i lacci che chiudevano il vestito, lei capì all’istante e lo lasciò fare.
 
Si unirono per l’ultima volta sul Tavolo Tattico, dove avrebbero dovuto esserci le mappe dell’Europa e i rapporti degli Eremiti.
Ma fu un’unione che trasudava tristezza ed il dolore dell’addio, lei se ne accorse e fece del suo meglio, ma terminata l’eccitazione Heldarr si sentiva tale quale a prima.
Scese dal tavolo e si accasciò su uno dei sedili attorno ad esso.
Lei si trascinò nuda fino a lui e lo baciò sul collo.
-So che puoi fare meglio di così…- Gli sussurrò, poggiando la fronte contro la sua e fissando gli occhi nei suoi.
Occhi azzurri del Nord, quasi bianchi, con pagliuzze scure.
-Forse semplicemente non ne ho voglia- Stupita, lei si tirò a sedere ripiegando le gambe da un lato.
Aveva ancora uno scorpione legato ad entrambe le cosce.
Si chiese se quelle armi lasciassero mai il suo corpo.
Se era così, era meno fortunato di due coltelli.
Sul suo volto era comparsa un’espressione più che triste.
Quasi di compassione.
Ci passò sopra, non voleva provare rabbia verso di lei anche quel giorno.
-Heldarr… non è più solo tu ed io. Ci sono città, c’è un popolo da nutrire e governare. Non sai quanto vorrei passare tutto l’anno qui, con te… ma non posso. Abbiamo combattuto trent’anni per nient’altro che questo, ora non possiamo abbandonare, non possiamo cedere-
-Mi viene da chiedermi se abbiamo fatto bene…- Sussurrò, troppo piano perché lei potesse capire.
-Cosa?-
-Nulla- La trasse a se’ e la baciò a lungo.
Si accorse che avrebbe voluto averla ancora una volta, ma si trattenne –Vai, ora- Le disse, una volta che le loro labbra si furono sciolte –Hai gente da nutrire e città da governare- Lei rispose al suo sorriso, si rivestì e lo baciò, per poi uscire dalla sala seguita da Vento, lasciando un foglio spiegazzato su un tavolo vicino alla porta,
Perplesso, Heldarr si vestì a sua volta, afferrò il foglio e scese le fresche scale della Torre.
 
Nel cortile d’ingresso erano comparsi due cavalli, uno stallone grigio e un palafreno nero.
Il maestro d’armi montava il primo, con una picca da cui pendeva inerte il vessillo di Ahriel, un lupo nero rampante, sovrapposto a due spade incrociate grigie in campo bianco, sovrastato dal più grande stendardo di Jarel, un drago nero ritratto con lunghe e sinuose linee curve e armato di lancia, in campo rosso.
Malgrado gran parte del popolo non avesse più motivo di derubare i Cavalieri di passaggio, ladri irriducibili e compagnie di predoni e mercenarie erano sempre un rischio, oltre alle manticore, che, rese affamate dall’innaturale competizione, avrebbero potuto spingersi ad attaccare gli umani. Per questi motivi il maestro d’armi indossava una spessa cotta di maglia, portava due corte spade alla cintura e un’ascia dalla lunga asta legata alla schiena.
Tutte armi forgiate da lui stesso, come gran parte dell’armeria del Castello.
-Addio, Maestro- Lo salutò, sentendolo arrivare
-Fa’ che questo non sia un addio, Relthar- Rispose Heldarr, con lo sguardo rivolto alle stalle, da cui di lì a poco comparve Ahriel con un grosso zaino sulle spalle.
-Passerà molto prima che il tuo popolo e le tue città ti lascino un momento per tornare qui?-
-Diciamo… che non lascerò che un fiocco di neve ti tocchi prima di me- Gli sorrise, montò in sella, spronò il cavallo e lasciò il cortile, affiancata da Vento e seguita da Relthar.
Non si voltò, come sempre.
Immaginò che il giorno in cui l’avesse fatto avrebbe dovuto preoccuparsi.
Gli chiuse le porte alle spalle e si voltò verso la torre.
Il suo stendardo pendeva afflosciato da un’asta addossata ad un angolo della torre, una linea spezzata chiusa che formava tre triangoli, uno centrale più grande e due laterali simmetrici, rossa in campo grigio.
Secondo Jarel, che aveva insistito affinché gli Eremiti avessero un simbolo, doveva rappresentare un cappuccio e la parte anteriore di una cappa.
Dopo vent’anni dalla sua creazione, Heldarr continuava a vederci un katar a tre punte.
Rientrò nell’anticamera, si chiuse il portone alle spalle ed ascoltò il silenzio.
A quell’ora, quasi tutta la servitù oziava in vista dei preparativi per la cena.
Per loro stessi, lui non avrebbe mangiato.
E probabilmente avrebbe dormito sul tetto, era stato costruito senza troppa pendenza in modo che non dovesse legarsi la corda in vita ed assicurarsi alla cuspide per essere certo di non scivolare.
La cucina era separata dal castello e collegata ad esso da un sentiero sopraelevato.
Nei sotterranei si trovavano le dispense, era infatti stata progettata per fungere da ultimo rifugio in caso il resto del castello venisse preso.
Tutto in quel complesso era stato progettato per renderlo imprendibile o per consentire una rapida fuga in caso di attacco non respingibile.
Inquieto, salì fino alla sua stanza.
La solitudine non aveva più lo stesso sapore, da quando erano finite le rivolte.
Si chiuse dentro, spalancò le finestre e si tolse la tunica, quindi sedette alla scrivania e lì spiegò il foglio.
  
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