Fu solo una cosa; piccola e insignificante, come tanti altri gesti, furono solo pochi istanti, quei pochi abbastanza perché capissi di essere ancora capace, a baciare, ad amare, questo non lo so.
Non abbastanza perchè credessi di nuovo. Fu così poco, non abbastanza perché imparassi ancora una volta, per evitarmi passi incerti e fragili da neonato, imbarazzanti per il corpo di una donna, abbastanza per rovinarmi una vita si. Perché capissi che quella vita era già rovinata “in partenza”, come se uno stupro potesse mai essere una partenza, una nascita.
Come se serrare spasmodicamente le palpebre e pressare gli occhi mentre ti si imperlano le guance, mentre quasi soffochi nell’estinguere dei respiri frenetici con le labbra che affondano dentro quelle del tuo fidanzato non possa significare altro se non che stai dicendo addio a tutta una vita. Ero quindi costretta a lasciarmi morire per andare avanti? Quell’uomo che mi amava non chiese altro che il mio decesso, in fondo, eppure le dita mi fremettero a pochi millimetri dal suo collo mentre lo baciavo e non fu paura.
Le mani mi oscillarono a mezz’aria, arcuate a seguito dei suoi lineamenti ancora ed ancora, ma non toccarono mai il suo volto. Calarono, invece, mentre i piedi affondarono in terra.
Non tornai mai più, Sandro Corso sfumò alle mie spalle, nella bruma, Clarissa Segni mi fu accanto ed io a lei fedele, nonostante ogni cosa di lei fosse ammorbata fin dentro l’anima e nella mente, benché ogni suo ricordo fosse a me e ad ogni altro disgustoso e letale. Scelsi di trascinarmi appresso il pauroso fardello di ciò che fui, non mi lasciai morire, mai e morii fra me e me, con le membra lacere di cancrena, incapace di recidere la carne infetta di cui avevo pesto tutto il corpo.
Fu una cosa ed una sola, insufficiente perché amassi, ma quel tanto per rendermi detestabile l’infedeltà al mio essere, una volta presentatasi a me d’innanzi.
Sono Clarissa Segni e per rifiuto della morte rinunciai a vivere.