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Nota di inizio: questa breve ff è scritta dal punto di vista di Remus, ed è ambientata
all’epoca dei Malandrini a Hogwarts. Nello specifico, siamo circa a metà del
primo anno di scuola. Ho deciso di scriverla per valorizzare questo
meraviglioso personaggio che è Remus Lupin, che spesso mio malgrado ho relegato
ad un ruolo piuttosto marginale. Questa ff invece è
tutta per lui, e per quelli che lo amano incondizionatamente.
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Capitolo 1 – Come Dormire Sonni Tranquilli
What I am to you, is not real.
What I am to you, you do not need.
What I am to you, is not what you mean to me,
You give me miles and miles of mountains,
And I'll ask for the sea.
(Damien Rice,
“Volcano”)
C’erano dei momenti in cui mi sorprendevo a pensare con convinzione di essere
un perfetto ingrato.
Avevo lottato nella mia ingenuità di bambino per anni e anni allo scopo di
essere trattato come un normale essere umano, per non vedermi almeno negare
quei diritti che a tutti gli altri vengono concessi in maniera così ovvia e
scontata, e per non finire relegato ai margini della comunità magica in una
posizione che mi precludesse di realizzare i miei sogni lontani. Ora avevo
ricevuto la grazia suprema di essere ammesso a frequentare Hogwarts, ero
ingessato nella divisa di seconda mano che tutto sommato aveva molti meno
rattoppi dei miei abiti consueti, dormivo in un letto che mi pareva degno del
Ministro della Magia e mi era stato preparato un luogo in cui potermi rifugiare
una volta al mese per consumare in solitudine la graffiante sofferenza delle
mie trasformazioni, e nonostante tutto mi accorgevo, ormai alla soglia dei miei
dodici anni, che quella vita ancora non mi rendeva felice.
Il problema principale era la mia congenita mancanza di amicizie. Tutti i miei
compagni di classe sembravano nutrire una considerazione mediamente positiva
della mia persona, per il semplice fatto che apparivo come il classico ragazzo
tranquillo e studioso che sputa l’anima sui libri per ottenere buoni risultati
a scuola, che ha la maturità sufficiente per non farsi coinvolgere nei discorsi
infantili dei suoi coetanei, che ha sempre un sorriso gentile per tutti anche
nei momenti peggiori e si mostra sempre disponibile ad offrire un aiuto o un
suggerimento dall’alto della sua umile conoscenza.
Tutti mi trattavano con gentile e distaccato rispetto, con una formalità e una
neutralità di intonazione che non mancavano mai di bruciarmi le viscere, e io
avevo finito per essere di nuovo distante dal resto del mondo e privato della
possibilità di vivere pienamente, nonostante avessi ottenuto l’immane
privilegio di poter frequentare una scuola per maghi come tutti gli altri.
Così, il mio doveroso senso di gratitudine aveva finito per spegnersi all’alba
del sesto mese di scuola. Soffocavo quella patetica malinconia immergendomi
continuamente in libri di qualsiasi genere, cercando di ignorare le occhiate di
compassione e i sorrisi di circostanza dicendomi che in fondo non sarei mai
riuscito ad integrarmi in un qualsiasi gruppo, perché in fin dei conti io non
ero come loro, e questo era un dato di fatto invalicabile. I miei coetanei
erano esattamente ciò che avrebbero dovuto essere, dei ragazzini che
cominciavano a crescere sguazzando nel riverbero della loro infanzia felice. Io
invece mi sentivo vecchio. Passavo la maggior parte del mio tempo a riflettere
invece che a divertirmi in maniera insensata e per il puro gusto di sfogare le
mie energie, e benché ascoltassi non di rado le loro conversazioni, mi rendevo
immediatamente conto che non avrei mai saputo come intervenire adeguatamente.
Le poche volte che venivo interpellato direttamente da qualcuno, l’argomento
era o una qualsiasi materia scolastica o gli orari della biblioteca. Spesso mi
sentivo terribilmente invisibile, riconosciuto come essere umano solo in virtù
dei miei meriti scolastici, relegato ai margini di un gruppo compatto che non
sapeva come rapportarsi con un elemento come me. Mi facevo pena, a dire la
verità. Detestavo l’autocommiserazione e avevo sempre fatto di tutto per
evitare di piangermi addosso, anche quando ero stato morso e avevo cominciato a
perdere completamente la mia ingenuità di bambino, ma ogni volta che mi
capitava l’occasione mi soffermavo a rimuginare con amarezza su quanto fosse
ingiusto il modo in cui tutti mi trattavano. Io non volevo essere il ragazzino
perfetto che tutti gli insegnanti additano a modello comportamentale, innalzato
su un piedistallo a cui nessuno osava o desiderava avvicinarsi, soddisfatto di
essere il classico bravo ragazzo. Non che per questo avessi intenzione di
smettere di studiare e di cominciare a comportarmi da ribelle, no di certo.
Possedevo dei sensi di colpa troppo acuti per pensare di poter gettare via con
totale irresponsabilità la preziosissima occasione che Silente mi aveva donato,
i risultati che mi ero guadagnato con fatica e silenzio, i principi a cui ero
stato educato e che avevo reso miei, l’avversione naturale per i comportamenti
immaturi e sconsiderati. Non volevo che anche la mia parte umana si
trasformasse in un mostro. Perciò mi limitavo a chinare la testa e ad impormi
di sopportare senza un lamento, senza prendere mai in considerazione l’ipotesi
di andare a elemosinare un po’ di compagnia e affetto da persone che con me non
volevano avere niente a che fare e con cui io non avevo niente in comune,
dicendomi che avrei dovuto essere in grado di accontentarmi del grande dono che
avevo già ricevuto.
Dopotutto, considerati quali erano i miei compagni di Casa, non potevo certo
pensare seriamente di poter essere amico di gente del genere.
Non è che li disprezzassi; è che, semplicemente, erano quanto di più lontano e
alieno ci potesse essere dal mio carattere. Uno di loro era nientemeno che un
Black, famiglia fin troppo conosciuta nel mondo dei maghi per il suo fanatismo
purosangue. Il ragazzo, tuttavia, sembrava essere perfettamente estraneo a
questo spirito estremista; semplicemente non gliene importava nulla, così come
di tutto il resto. Credo fosse l’unico della sua stirpe ad essere finito a
Grifondoro, e facendo un paio di collegamenti logici ne avevo dedotto che la
famiglia non doveva essere affatto fiera di lui, considerato che razza di Strillettera gli era stata recapitata giusto il secondo
giorno di scuola. Lui era rimasto ad osservarla sgolarsi con voce stridula con
aria completamente impassibile, e un lieve accenno di un sorriso beffardo sulle
labbra. Era un tipo strano, dotato di una bellezza sinistra che lo rendeva una
figura cupa ed enigmatica, uno che rispondeva ai professori con un’arroganza
infantile davvero irritante, che aveva combinato almeno il doppio dei danni
rispetto alle punizioni che gli erano state inflitte, e che nonostante fosse
dotato di un’intelligenza considerevole non si dava cruccio di sprecarla
macchinando passatempi futili e impegnandosi il meno possibile a scuola. Per me
che passavo ore sui libri impegnandomi al massimo delle mie forze, vedere che
quel piccolo sbruffoncello riusciva ad ottenere un
voto alto in una materia qualsiasi pur disturbando costantemente durante ogni
singola lezione e girovagando per la scuola giorno e notte senza sicuramente
fare niente di scolastico, era come minimo fastidioso. E il bello è che non era
il solo. Un altro che condivideva questa sua stessa caratteristica era James
Potter, che nel dormitorio occupava il letto sotto a quello di Black. Anche i
Potter erano una famiglia conosciuta, ma di certo estranea allo spirito
demoniaco dei Black. Il ragazzo in questione era un tipo sveglio, vivace,
vitale, un po’ meno arrogante e strafottente di Black ma sicuramente
altrettanto portato per combinare disastri. I due erano diventati migliori
amici da circa un mese dopo l’inizio della scuola, e ora erano praticamente
inseparabili: dove c’era uno, c’era anche l’altro. E si poteva star certi che
non stessero combinando nulla di buono, in qualsiasi luogo si trovassero.
Potter era un tipo molto socievole ed esuberante, forse fin troppo, ma in
coppia con Black diventava assolutamente incontenibile. Sfacciato fino
all’inverosimile, in maniera del tutto candida e bambinesca ma sempre con quel
sorrisetto obliquo lievemente accennato sul volto, fiero della sua aria
trascurata e dei suoi capelli perennemente spettinati che gli avevano fatto già
guadagnare i sospiri incantati di diverse ragazze della nostra età, si agitava
per qualsiasi cosa, non rimaneva mai fermo sulla sedia per più di un minuto, e
sembrava vivere in funzione dell’obiettivo di entrare a far parte della squadra
di Quidditch l’anno seguente, quando l’età gliel’avrebbe permesso. La McGranitt
per colpa loro era già sull’orlo di una crisi di nervi, diversi tra i ragazzi
più grandi nutrivano nei loro confronti un rispetto che era abitualmente negato
a ciascuno dei primini per puro principio, una
ragazza di Grifondoro del nostro anno strillava ormai ogni giorno contro di
loro sfoggiando una gamma di insulti davvero notevole per i suoi undici anni e
ricevendo in risposta soltanto le loro risate divertite, e io mi limitavo ad
esibire un’aria perplessa di fronte ai loro ghigni sadici e a girarmi verso il
muro premendomi il cuscino sulla testa quando a mezzanotte passata ancora non
ne avevano abbastanza di chiacchierare delle loro idiozie.
Tuttavia, certe volte mi accorgevo di invidiarli, in parte.
Non desideravo essere come loro, né li idolatravo come faceva il ragazzino di
Grifondoro che dormiva sotto di me. Però entrambi erano costantemente sotto i
miei occhi, e io non potevo fare a meno di osservarli e di riflettere. C’era
qualcosa che mi impediva di detestarli con tutte le mie forze, ed era il fatto
che nonostante fossero insopportabili il rapporto che condividevano era
qualcosa di veramente straordinario, qualcosa che io non avrei mai spartito con
nessuno al mondo. Non solo si dicevano tutto, ma si capivano a vicenda in
maniera del tutto spontanea, Black con il suo atteggiamento criptico e Potter
con la sua immediatezza fanciullesca. Erano uniti in modo totale e sempre
pronti a correre in difesa l’uno dell’altro, senza che ci fosse bisogno di
giustificazioni. Inoltre scherzavano con un’ilarità così contagiosa che più di
una volta aveva fatto sorridere segretamente anche me, facendomi nascere
contemporaneamente il desiderio nascosto di poter essere parte anch’io di un
divertimento di quel genere. Erano totalmente infantili ed immaturi, ma almeno
per certi aspetti provavo anch’io il desiderio di poter vivere la mia vita con
la loro spensieratezza, senza sentirmi gravato dal peso di una solitudine amara
e tagliente. Ma non è che condividessimo quel gran rapporto, dopotutto. Per
loro probabilmente ero soltanto un ragazzino insignificante e straccione da
sfruttare nel momento in cui non avevano fatto i compiti e la necessità di
salvarsi la reputazione incombeva minacciosa su di loro, o più semplicemente il
compagno di stanza che si esprime a monosillabi e non ha mai niente di meglio
da fare che chinare la testa su un libro logorandosi la vista. In più io, che
vivevo questo mio stato di isolamento con un’insofferenza che ormai aveva
raggiunto ogni limite, ferito perché non venivo mai considerato un essere umano
con cui poter fare amicizia, avevo cominciato anche a rispondere con aria
gelida e lievemente seccata a chiunque mi rivolgesse la parola, e nel loro caso
non facevo certo un’eccezione. Certe volte devo ammettere che provavo anche
un’insana soddisfazione nel metterli a tacere con poche parole dall’intonazione
infastidita, perché ad ogni modo mi permetteva di gridare silenziosamente al
mondo che io non ero il tipo che si faceva tranquillamente mettere i piedi in
testa. Era una sorta di riaffermazione di me stesso che per qualche breve
attimo riusciva a darmi conforto, e a farmi dormire tranquillo dimenticandomi
per una volta di tenere il conto dei giorni mancanti alla prossima Luna piena.