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Autore: theStarbucksGirl    30/06/2012    3 recensioni
Raccolta di one-shots su personaggi e momenti più disparati, da Ron a Piton, da Regulus a Hagrid.
Filo conduttore: +, l'album di Ed Sheeran.
"Più Harry Potter": perché non ne abbiamo mai abbastanza del magico mondo creato da zia Jo.
#1: The A Team. Le disgrazie sono sempre dietro l'angolo, e con lei non avevano bisogno di incoraggiamento: le piombavano addosso gratuitamente.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Più contesti
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The A Team


Quando mi svegliai, quel 31 dicembre, Londra era bianca e grigia; la neve aveva azzerato tutti i colori, tanto che Piccadilly Circus sembrava uscita da un film degli anni '50. Sebbene avessi visto la neve innumerevoli volte nel corso della mia vita, la prima nevicata dell'anno non mancava mai di lasciarmi a bocca aperta, come una bambina. A pensarci adesso, il fatto che avesse nevicato proprio quel giorno, lo considero un segno, un suggerimento che sarebbe successo qualcosa di speciale.

Quella sera, combattendo stoicamente contro la bufera che imperversava, raggiunsi l'orfanotrofio St Margaret, dove lavoravo. Ero piuttosto contrariata: ero di turno la notte di Capodanno. Anche se non avevo nessuno con cui condividere quell'occasione (la mia famiglia e gli amici erano tutti nell'Hertfordshire), mi dispiaceva comunque non far parte dei folli festeggiamenti londinesi. Così, armata di pazienza e caffè nero, mi preparai a trascorrere l'inizio dell'anno nuovo tra quattro mura impersonali.

Erano le 22 quando il portone d'entrata si spalancò: sulla soglia si stagliava una giovane, avvolta in un consunto impermeabile da uomo; pallida, labbra livide, occhi sfiniti, si reggeva la pancia, la sua espressione di sperduta disperazione era curiosamente contornata da fiocchi di neve.

Meno di un'ora dopo, stava dando alla luce un figlio. Non pronunciò una sola parola; il suo sguardo velato e un po' strabico era rivolto al soffitto, sorda a qualsiasi nostra rassicurazione o incoraggiamento, ma la muta volontà con cui partecipava alla nascita del suo bambino era ben visibile.

Nel momento in cui suo figlio, un bel maschietto, aprì gli occhi sul mondo, lo degnò di uno sguardo veloce, gli regalò un minuscolo sorriso, poi si voltò dall'altra parte: “Si chiama Tom Orvoloson Riddle”, esalò. “Spero sia bello come il suo papà”. Dopodiché, chiuse gli occhi, con l'aria di chi ha compiuto il suo dovere e ora può finalmente riposare.

Sembrava tranquilla, ma gli scatti innaturali del petto, il colorito ben oltre il pallido, le ombre viola sotto agli occhi, e un'emorragia che non sembrava volersi fermare, ci dissero che quella sarebbe stata la sua ultima ora.

Mi offrii di tenerle compagnia nel tempo che le restava, forse impietosita dalla sua giovane età, o forse perché era la cosa giusta da fare, perché nessuno dovrebbe stare da solo, alla fine.

Mi accomodai accanto a lei; il silenzio era interrotto solo dai suoi respiri affaticati, la neve continuava a scendere imperterrita e indifferente.

Quella ragazza aveva pronunciato appena due frasi fino a quel momento, eppure, ciò che uscì dalle sue labbra bluastre nell'ultima ora della sua vita, era un fiume in piena, il torrente di parole di chi sa che ha poco tempo e vuole disfarsi il prima possibile degli avanzi.

La storia che mi narrò -la sua storia-, gli eventi assurdi e strazianti che presero vita quella notte, sono ancora, contro ogni logica, chiari nella mia mente, come quando li ascoltai per la prima volta (sebbene ne capissi solo in parte il senso), in una stanza asettica.

Per anni mi sono chiesta se quella ragazza fosse pazza, o se lo fossi io a credere al suo racconto. Una moltitudine di emozioni ragionevolissime si affollarono nella mia mente, ma ero come una mosca nella tela del ragno: imprigionata, senza via di uscita, fra i fili tessuti dalla sua voce.

Non seppi mai con esattezza se si fosse accorta della mia presenza, o se parlasse solo perché ne aveva bisogno. In ogni caso, questo fu ciò che udii.



C'era una volta una ragazza, sola e incinta, che viveva a Londra, ma solo di notte.

Lunghe notti l'attendevano, popolate da incubi e rimpianti che le aleggiavano attorno come fantasmi particolarmente fastidiosi. E da uomini. Strani uomini, melliflui o violenti, cortesi o indifferenti, a seconda della serata. Era così che si guadagnava da vivere, era così che cercava di rimanere a galla.

Era diventato sempre più difficile, però. Alcuni, non appena notavano il pancione, rimanevano interdetti, certi scappavano senza osare guardarla, ma, fortunatamente per lei, ad altri non interessava più di tanto. La ragazza aveva presto capito che non era difficile farli felici, e, cosa ancora più gradita, dopo, non amavano chiacchierare, non si interessavano alla sua vita privata. Per precauzione, però, si era inventata una storiella; perché di certo non poteva raccontare la verità, ovvero che proveniva da una famiglia di maghi purosangue, e che nella tasca interna del soprabito nascondeva una bacchetta magica.

Non sapeva neanche perché la conservasse ancora; quel bastoncino di legno era inutile, ormai: la magia se n'era andata per sempre da lei. Insieme a LUI.

Non sapeva se fosse possibile perdere i poteri. Non conosceva molto bene la teoria della magia (per non parlare della pratica). A Hogwarts, la Scuola di Magia e Stregoneria, era sempre stata una frana; ogni volta che impugnava la bacchetta, le urla e gli insulti di suo padre le risuonavano nelle orecchie (“Un Troll di Montagna è più intelligente di te!”, diceva sempre); il sogghigno del suo pazzo fratello le danzava davanti agli occhi, e finiva inevitabilmente per bloccarsi. Riusciva a formulare un incantesimo decente soltanto impegnandosi a non pensare alla sua famiglia, e questo succedeva raramente.

Per questo, Pozioni era la materia in cui se la cavava meglio: non aveva bisogno di formule magiche, c'erano solo lei, gli ingredienti, il calderone e il fuoco. La concentrazione la estraniava dalle vicende personali; bolle e vapori la facevano sentire libera. Le pozioni erano il rifugio in cui nascondersi quando veniva assalita dall'ansia; in quell'angolo tutto suo poteva permettersi di sognare ed essere un po' più sicura di sé stessa. In quei momenti, era Merope Gaunt, l'abile pozionista di classe A, non Merope, la stupida Maganò.

Per cui, quando suo padre aveva annunciato con noncuranza che non sarebbe tornata a Hogwarts per completare gli studi -”perché era uno spreco di Galeoni”-, Merope vide il suo sogno sbriciolarsi. Costretta a servire e riverire il padre e il fratello fino alla fine dei suoi giorni, si sbriciolava anche lei, affondava, si consumava, la sua magia si spegneva lentamente, come la fiamma di una candela esaurita.

Questo era successo tanto tempo prima (o almeno così le sembrava). Fu un periodo buio, disordinato, costellato da picchi di ansia e paura, finché, proprio quando si era rassegnata al suo infausto destino, le catene scomparvero. Era libera. Col senno di poi, avrebbe dovuto immaginare che il peggio doveva ancora arrivare; le disgrazie sono sempre dietro l'angolo, e con Merope Gaunt non avevano bisogno di incoraggiamento: le piombavano addosso gratuitamente.

L'errore che aveva commesso: aveva modellato la riacquistata libertà su un uomo. Eccone un altro: lo aveva fatto con la magia. Si incamminò su una strada lastricata di buone intenzioni, ma cattive decisioni, la cui meta era già segnata.

***

Tom Riddle era un giovane benestante, importante e bellissimo: un ottimo partito. Peccato che fosse privo di poteri magici, ossia feccia, nelle opinioni del padre di Merope. Si aggiunga anche che era già stato promesso a un'altra, e che Merope lo amasse a sua insaputa, segretamente, già da tempo, e risultava chiaro che non avrebbero mai avuto futuro. Tuttavia, Tom Riddle era il nuovo sogno di Merope Gaunt; non aveva sostituito il suo amore per le pozioni: ne era una piacevole aggiunta.

Merope non aveva subito pensato al filtro d'amore; l'idea aveva preso piede silenziosamente, giorno dopo giorno, finché si era convinta che era ciò che doveva fare. Come una pianta infestante, il seme dell'idea aveva attecchito e messo radici, dopo l'episodio al villaggio, quando era scesa a Little Hangleton per comprare un po' di viveri. Sulla strada del ritorno, la sua sporta si era rotta, sparpagliandone il contenuto sull'erba. Ed ecco arrivare in suo soccorso, Tom, cavaliere dall'armatura lucente, un perfetto gentiluomo. Furono dieci minuti di pura gioia, quelli trascorsi lungo la salita impervia che portava a casa Gaunt; un breve momento di euforia, spezzato troppo presto dalla bionda, promessa sposa di Tom. L'intrusa, con i suoi bei vestiti puliti, i capelli color del grano e i lineamenti perfetti, glielo aveva strappato via; il suo arrivo lo aveva riportato con i piedi per terra. Cosa ci faceva il rampollo del paese con una miserabile ragazza che viveva nei boschi? Questo dicevano i suoi occhi, ritornati freddi, mentre si allontanava dalla catapecchia, lasciando Merope con una borsa rotta e il cuore incrinato.

Da qui, l'idea del filtro d'amore. A Tom serviva solo un po' di incoraggiamento, e la giovane aveva gli strumenti per fornirglielo. Non fu una decisione facile: Merope era combattuta fra i sensi di colpa e il desiderio pressante di felicità. Alla fine si decise. Si mise al lavoro al calderone per preparare una pozione d'amore perfetta, da far bere all'assetato Tom durante una delle abituali cavalcate dalle sue parti.

Non se ne rese conto subito, ma non fu mai più felice di quelle settimane passate fra i bollenti vapori della pozione; neanche quando baciò Tom all'ombra di una quercia fu così felice. La differenza, naturalmente, stava tutta nella causa: la pozione era il frutto della sua abilità e dei suoi sforzi; l'amore che aveva creato era effetto della magia.

Non gliene importava niente, all'inizio: Tom l'amava, sorrideva solo per lei, la guardava con un'intensità da farla arrossire; la desiderava con tale ardore da far svanire ogni rimorso. La notte, però, quando giaceva addormentato accanto a lei, con le lunghe ciglia a coprirgli gli occhi come una coperta, il tarlo del senso di colpa veniva a insinuarsi nei suoi pensieri, per poi essere spazzato via non appena sorgeva il sole, e lo sguardo innamorato di Tom si posava su di lei.

Per un po' riuscì ad andare avanti, ma alla lunga, la vergogna divenne troppo assillante, e rischiava di perdere la testa.

Prendendo una decisione folle e coraggiosa allo stesso tempo, Merope non gli somministrò più la pozione: doveva per forza esserci un fondo di verità dietro al suo sguardo appassionato, oppure, l'amore con cui aveva preparato il filtro e che aveva riversato in lui in tutto quel tempo, doveva per forza aver lasciato qualche residuo nel suo animo.

***

Due mesi dopo, Merope se ne stava accovacciata in un angolino riparato di fronte alla National Gallery. Pioveva, a Londra, così come nel suo cuore.

Se suo padre l'avesse vista, l'avrebbe picchiata fino a farle perdere conoscenza. Sì, non aveva dubbi, l'avrebbe fatto anche con gioia crudele, poiché aveva abbandonato i suoi poteri magici e viveva da povera Babbana, una combinazione letale per lui. Suo padre avrebbe fatto di tutto per cancellarla dalla sua famiglia. E spesso lo desiderava anche lei: sperava che suo padre apparisse d'incanto Londra e la eliminasse, perché lei non aveva più la forza né il coraggio neanche per questo.

Cercava di non dormire; non avendo un posto dove vivere, era abbastanza semplice. Prima o dopo, tuttavia, cedeva al sonno, e allora piombava nel peggiore degli incubi, nel suo inferno personale.

Ogni volta che chiudeva gli occhi, riviveva la sua ultima, terribile giornata con Tom; rivedeva i suoi occhi che si allargavano increduli mentre apprendeva la verità; rivedeva il susseguirsi di emozioni dietro le iridi scure: paura, disgusto, odio. Non aveva ancora finito di chiarire la situazione quando lui se ne andò. Non fece domande, non la degnò di uno sguardo; semplicemente, alzò i tacchi.

Nei suoi incubi, Merope riviveva anche ciò che venne dopo, il confuso dolore, fatto di panico, lacrime e rabbia. Ma non verso Tom, bensì verso sé stessa e la magia. Merope si odiava per essere una strega, e per essere stata così ingenua da aver creduto che, per lei, gli incantesimi potessero produrre qualcosa di buono. Negli incubi, lottava contro la magia che aveva deciso di non utilizzare mai più, e che minacciava di schiacciarla sotto il suo invincibile peso.

Ogni volta che si svegliava da questo sonno agitato, costellato di pentimento e riflessioni, aveva i polmoni in fiamme, come se avesse appena smesso di piangere e urlare, e si sentiva uno strano sapore in bocca, come se avesse ingoiato qualcosa di amaro. Ogni volta che si svegliava, immancabilmente, il suo pensiero andava al suo bambino, il figlio di cui Tom non avrebbe mai saputo l'esistenza perché si era allontanato prima ancora che lei stessa lo scoprisse. Era per il bambino che resisteva, anche se voleva solo scomparire; solo per la creatura che doveva ancora nascere cercava ogni giorno il modo di sopravvivere.

Per fortuna, la Londra babbana offriva molte più possibilità di quella magica, in questo senso. Era stato semplice mischiarsi agli altri Babbani che vivevano per strada, trascinarsi da una parte all'altra della città, dove tirava il vento, consumarsi in sostanze che avevano più impatto della magia.

Come una foglia alla mercé del vento d'autunno, Merope vagava per Londra, una creatura spaurita, persa.



Questa è la storia di Merope Gaunt, così come la udii dalle sue labbra morenti; la storia di una ragazza che conobbe prigionia e libertà in due forme diverse. Prigioniera del sangue e dell'amore; libera grazie alla sorte e alla magia.

Non importa che alcune delle cose che aveva detto non avessero alcun senso per me, non importa che io, in realtà, pensassi che era matta; nonostante quel racconto paradossale, l'atmosfera nella stanza era così ultraterrena da non lasciarmi ombra di dubbio sulla sua veridicità. Se, come affermava Merope, la magia esisteva veramente, era sicuramente all'opera quella notte.

Sdraiata a letto, avvolta dalle lenzuola candide, i capelli bruni allargati a raggiera sul cuscino, gli occhi chiusi e un'espressione di pace sul viso (come se, ora che l'aveva riportata ad alta voce, quella vita non l'appartenesse più e potesse sperare in qualcosa di migliore), Merope sembrava davvero un angelo. “E per gli angeli fa troppo freddo per volare, stanotte”, mi venne da pensare guardando i fiocchi di neve che continuavano a fluttuare nell'oscurità.

Avrei dovuto tenere Merope l'Angelo con me, quella notte, perchè, fuori, il freddo era troppo intenso anche per morire.


***


La donna matura terminò il suo racconto; i suoi occhi erano ancora vacui, in attesa che lui sciogliesse l'incantesimo che l'aveva costretta a parlare. Nonostante la sua giovane età, non era la prima volta che il ragazzo praticava la Legilimanzia per carpire i più oscuri segreti di una persona; gli riusciva dannatamente bene, soprattutto con i Babbani.

Da quando aveva scoperto che il ramo magico della sua famiglia era quello della madre -e non del padre, come aveva sempre pensato-, ogni estate era dedicata alla ricerca delle sue origini.

La donna che aveva di fronte era un'eccellente fonte di notizie, perché aveva lavorato al St Margaret proprio il giorno in cui la madre vi giunse. Era piuttosto orgoglioso di averla scovata, nonostante da anni non operasse più all'orfanotrofio.

Ciò che aveva sentito, però, non gli era assolutamente piaciuto. Mai avrebbe pensato di udire un racconto così dettagliato, non solo della sua nascita, ma anche della vita passata di sua madre. Aveva ascoltato con crescente sgomento il resoconto del suo ultimo giorno di vita, e quando terminò, era giunto ad un'unica conclusione: suo padre, quel bastardo dal quale aveva preso il nome, doveva morire.

Se ne sarebbe occupato a tempo debito; nel frattempo, aveva un'altra faccenda da sbrigare: non poteva rischiare che qualcun altro venisse a conoscenza della patetica fine della madre (della quale, in cuor suo, si vergognava), quindi c'era un'unica cosa da fare.

La donna che aveva parlato fino a quel momento, sbatté le palpebre, come se uscisse da uno stato di trance.

Fece in tempo a vedere un paio di begli occhi scuri, poi un lampo di luce verde, e infine il buio.




It's too cold outside for angels to fly... or angels to die.




  
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