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Autore: Franky F    30/06/2012    1 recensioni
Marocco, 1963. Una madre, un padre ed un bambino. Mani rosse su mura di fango.
3° classificata al contest Picture Fiction di Carla Volturi.
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mio padre suonava l’oud nell’unica stanza della nostra abitazione in mattoni e fango e sorseggiava il tè alla menta. Mia madre era più in là, appoggiata ad un’asse di legno e preparava l’harira. A volte voltava la testa verso mio padre, lo guardava e canticchiava qualche nota con disinvoltura. Le sue mani snelle carezzavano sfuggenti le verdure e le sistemavano ordinatamente nella scodella blu. Aveva gli occhi scuri che guizzavano alla finestra con insistenza. Chissà a cosa pensava. Il suo vestito lungo ondeggiava facendomi credere che i disegni si muovessero da soli, roteando sulla stoffa. Il mio baba invece aveva le mani grosse, calde e morbide, anche se il costante lavoro gli aveva inflitto tagli e striature su tutto il palmo. Mi piaceva quando mi carezzava sulla testa e mi dava pacche amichevoli sulla schiena. Suonava l’oud con una facilità incredibile e se la cavava anche con il qanun, nonostante fosse più complesso e richiedesse anni di studio. Pizzicava le corde e teneva il ritmo con un piede mentre io lo osservavo sgranando gli occhi e seguendo ogni suo più lieve movimento. Poi mi stancai e iniziai anche io a guardare fuori dalla finestra. Lo conoscevo a memoria, il paesaggio. Case e vicoli. Case rosse e gialle e verdi, case blu come la nostra e case di un arancione meraviglioso. E, in fondo in fondo, il deserto. Di qua si scorgeva solo una fessura, uno spiraglio del mare di sabbia.
 
- Khadija, cosa c’è? Non stai bene, mi sembra. E’per il caldo? -
- La*, baba, la. -
- Sei inquieta per qualcosa? -
- La, Nassor, sto bene -
- Non è vero. Guardi fuori dalla finestra e sei preoccupata. Dimmi cosa c’è, mama -
 
Mio padre insisteva.
 
- Anahita forse ha bisogno di aiuto con la casa e coi bambini. Posso andare? -
 
Stava mentendo. Non era preoccupata per Anahita, e mio padre lo sapeva, però la lasciò andare, non volendo accanirsi troppo.
 
- Na’am*, vai pure. Sarai più serena quando tornerai -
- Shukran*. -  disse la mamma, e sorrise.
 
La vidi scomparire fra i vicoli stretti.
 
- E ora divertiamoci, da veri uomini! Il 21 agosto è un giorno speciale e capita solo una volta l’anno! - mi confidò euforico baba. 
 
Il 21 agosto è festa della gioventù in tutto il Marocco. La sera si danza tutti insieme e di giorno si mangiano squisitezze come l’harira e il tajine. Adoro questo giorno.
Stavo per rispondere anche io con toni entusiastici, quando ci voltammo tutti e due di scatto sentendo un rumore.
Dallo spicchio del mare di sabbia che vedevamo venivano, vestite di rosso, un centinaio di piccole figure. Battevano tamburi e urlavano come bestie impazzite.
La mamma entrò in casa correndo. Ansimava. Erano gli algerini. Minacciavano di far strage. Avevano attraversato il confine con la forza ed erano venuti qui, da noi, per massacrarci.
Restammo impietriti per alcuni istanti, poi il mio baba baciò dolcemente mia madre. Io avevo paura e mi sdraiai avvolgendomi nella stuoia che fungeva da letto. Tremavo. Chi erano, chi erano? Perché stavano entrando in casa nostra? Perché facevano uscire i miei genitori e li minacciavano con delle lance appuntite? Avevano anche rotto la porta di legno.
Uscii anch’io, seguendoli, e vidi mio padre intingere una mano nella vernice rossa e stamparla sul muro esterno della casa prima di sparire per sempre. Mamma si voltò verso di me singhiozzando, urlò e si dimenò. Prima che la sua testa si staccasse dal corpo e rotolasse a terra fra la polvere, si toccò il grembo piangendo. Era incinta. Ricordo ancora la sua testa mozzata ai miei piedi, i suoi occhi grandi spalancati in un gemito destinato a durare per l’eternità.
Fu così per tutte le donne del villaggio, gli uomini furono catturati e condotti via per la strada. Ognuno si chinava e intingeva la propria mano nel colore, cercando disperatamente un modo per dire ai loro figli chi erano stati, per lasciargli un segno di loro. Scomparirono in silenzio ed il villaggio morì nel giro di pochi giorni, così come i suoi bambini più piccoli che non riuscivano a procurarsi del cibo.
Non dimenticai mai i volti dei miei genitori, quell’ultimo giorno insieme.
Quello che mi avevano lasciato, mani dipinte e sangue di mia madre sulla tunica bianca, non mi aiutò a crescere. Non mi aiutò a trovare il cibo e la forza per farcela. Coi miei anni aumentò l’impetuosità ed il desiderio di vendetta. Lasciai il villaggio e non vi ritornai mai più. Divenni un soldato bambino. Combattei fino alla morte contro gli algerini, convinto di essere nel giusto. Ma ero già morto da diversi anni, dal giorno in cui mi avevano separato dai miei genitori. Quando caddi riverso colpito da una raffica di colpi, avevo più o meno undici anni.
 
Dakarai (1956 – 1967), Guerra della sabbia, Marocco, 1963
 
 
 
 
 
Note:
La* = No
Na’am* = Si
Shukran* = Grazie

  
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