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Autore: TimesNewMozzi    30/06/2012    1 recensioni
Davide è un solitario ragazzo fiorentino, non conosce il mondo, arde dal desiderio di esplorarlo e tuttavia non può conoscerlo. Ma grazie all'aiuto di un amica e di un piccolo dono, Davide riuscirà ad esplorare un po' di più di quel mondo tanto sconosciuto da cui si è sempre tenuto lontano.
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota introduttiva: Questo racconto ha partecipato al concorso "La scienza narrata" indetto dall'azienda farmaceutica Merk Serono ma è stato giudicato troppo poco scientifico per ambire ad uno dei premi in palio. Spero che dal punto di vista di lettori e non di scienziati questo possa acquisire un valore differente, se dal punto di vista scientifico si è rivelato carente spero non si riveli così anche dal punto di vista letterario. Buona lettura!




Il colore di un Respiro
 “A nera,  E bianca, I rossa, U verde, O blu”. Apriva  così Arthur Rimbaud la sua poesia “Vocali”, questi erano i colori che la sua mente associava ai cinque grafemi. Davide amava quei versi che così bene descrivevano la sua visione del mondo. Non erano i segni in se, non erano i grafemi ad interessarlo, quanto più i suoni e la percezione di essi,  anche se,  nella sua testa, essi avevano dei colori completamente differenti. La A, aperta e allegra e divertente, un suono che si espande con gioiosità, lui la associava al giallo. La E, effervescente ma priva di gioia, un eco che trema per pochi momenti prima di dissolversi,  lui la associava al verde. La I, acuta e minuta, stretta e stridente, lui la associava ad un azzurro talmente chiaro da dar fastidio alla vista. La U, profonda, misteriosa, un ululato notturno con un intrinseca nota intima, nella sua mente si colorava di un viola profondo. E infine la O, aperta, dolce, ma come una melodia sofferente. La O era rossa e s’espandeva nell’aria diventando sempre più scura fino a diventare nera spegnendosi completamente.
Queste erano le lettere di Davide, così nella sua mente, il suono delle vocali richiamava gli altri sensi, così nei suoi occhi apparivano le vocali, così le aveva sempre dipinte.
Davide abitava a Firenze, aveva due liquidi occhi chiari di un indefinito colore tra l’azzurro e il grigio. Un gheriglio di capelli castani e ispidi gli nascondeva il capo, mentre una leggera e incolta barba gli punzecchiava le guance e il mento. Abitava nella casa che era appartenuta ai suoi nonni materni: un piccolo appartamento al terzo piano di uno splendido palazzo degli inizi del novecento, l’unico posto al mondo ,esclusa la casa dei suoi genitori, in cui non si sentisse perso, smarrito, naufrago in un mondo a lui completamente sconosciuto. Agorafobia, la paura di viaggiare, la paura degli spazi aperti e sconosciuti, Davide conosceva bene questo suo irrazionale timore, lo conosceva, ma ammetterlo era tutta un’altra storia. Ammettere di aver paura significava ammettere di avere un problema, di aver bisogno di aiuto, e lui di aiuto non ne voleva, succube di una paura nella paura, della paura di aver paura. Così Davide nascondeva le sue angosce come un bambino nasconde le briciole sotto il tappeto. Così evitava di parlare o anche solo di pensare alle sue paure descrivendole solo come: “Un irrefrenabile e istintivo amore per la propria casa e la propria quotidianità” una frase tessuta ad arte, uno scudo fitto e resistente, di parole, un idea che però non stava in piedi nemmeno nella sua testa.
Davide era un disoccupato, o almeno, lo era agli occhi di chi, come quasi tutto il resto del mondo, non era mai entrato in quei metri quadrati che lui chiamava casa. Ciò che vi era un quel piccolo appartamento rifletteva la figura di una persona tutt’altro che disoccupata, una persona talmente occupata da non avere il tempo, il tempo materiale, per godersi un po’ d’ozio. Le pareti erano tappezzate da un ammasso di tele, cavalletti, strumenti per la pittura, così che tutta la casa assomigliava ad una galleria dalla forma indefinita, contorta, un’opprimente ammasso di colori, forme, linee, tele, pittura. In un angolo vi era un piccolo scrittoio occupato soltanto da un enorme pila di CD, tutti trattati come gioielli esattamente per il tempo necessario ad esplorarli, poi gettati alla rinfusa su quel vecchio mobiletto, ma tutti accomunati dalla solita scritta: “ Da Nicol, per Davide “ seguiva poi il nome di una città, di un luogo, di un posto in particolare.  Al centro della stanza una piccola sedia e una tela bianca, immacolata.  Poi, di fronte alla porta, alle prese con il postino, vi era Davide. Poche parole sbrigative, gesti pervasi dalla solita e incontenibile curiosità. Davide si chiuse la porta alle spalle stringendo le mani attorno ad un piccolo oggetto dall’aria fragile.
Come sempre il pacchetto di Nicol era arrivato, come sempre conteneva soltanto un CD e un bigliettino:
 
 
 “Ciao Davide! Questa volta sono a Londra, so quanto ti piace l’inglese quindi ho cercato di registrare qualche conversazione, anche se devono avermi presa per matta… Non so ancora dove andrò la prossima volta, ma credo che mi fermerò qui per un po’. Cercherò di mandarti altri CD il prima possibile.
                                                                                                    Stammi Bene, Nicol”
 
 
Un sorriso si dipinse sul volto del ragazzo, ma sfumò trasformandosi in curiosità in meno di un attimo, il tempo per dedicare a Nicol tutta la gratitudine possibile. Le mani si mossero ad afferrare il piccolo lettore CD, v’infilò il disco e, con cura, si sistemò gli auricolari. Il rituale stava per iniziare, quella serie di gesti che ripeteva da sempre prima di premere il tasto “play”.  Un profondo respiro, assaporava l’aria facendosi carezzare i polmoni. L’aria fresca, per nulla viziata della stanza gli riempì il corpo come una sferzata d’energia, la luce del sole primaverile lo avvolgeva come un tiepido lenzuolo. Posato il lettore le mani si mossero ad accarezzare una la tela, l’altra il pennello. Vicino a sé aveva la tavolozza dei colori, le tempere e una lunga serie di pennelli, strumenti più di decorazione che d’altro, a lui bastava un pennello e qualche tintura, di qualsiasi genere essa fosse, quel che gli piaceva dei suoi quadri era l’assoluta, naturale e sfacciata spontaneità, non c’era progettazione,  solo colori e solo forme, questi erano i protagonisti delle sue tele.
L’indice della mano sinistra, abbandonata la tela, indugiò sul lettore CD. Accarezzava il metallo cercando quel singolo tasto, mentre, nella mente, alcune immagini di Londra,  i ricordi di qualche frase in un inglese puramente scolastico, tornavano alla mente. Amava da sempre l’Inglese, amava quella lingua che suonava estremamente blu nella sua testa. La profondità, la freddezza e allo stesso tempo l’intimità dei suoni, l’Inglese era sicuramente tinto dei colori del blu, dal blu più profondo, quello degli abissi marini, a quello più acuto, come il cielo diurno.
Play. Finalmente i suoni iniziarono a diffondersi nella sua testa, finalmente la storia, la canzone di Londra iniziò ad essergli più familiare. Chiuse gli occhi e, per un attimo, gli parve di sprofondare nel vuoto. L’ansia lo attanagliò per un momento, come se improvvisamente fosse stato catapultato a Londra, in una città straniera, in un luogo che non conosceva. In un attimo tutto il suo corpo fu scosso da quell’ansia profondamente radicata nella sua mente. Il cuore accelerò il suo battito come stretto da schiacciato da un peso invisibile, dal cervello fu trasmesso un solo e istintivo messaggio: “scappa”.  L’istinto di ogni uomo, di ogni animale, quell’intelligenza intrinseca del nostro DNA gli stava dicendo di fuggire da quella sensazione di ansia, di mettere una fine a quei rumori tanto vividi da catapultarlo a migliaia di chilometri di distanza. Ma quella sensazione svanì quasi immediatamente: all’ansia e alla paura si sostituirono le forme e i colori. I rumori, le voci si trasformarono in linee, forme geometriche ed astratte, scie di colori tanto vividi da distogliere la mente dalla paura.. I segnali, i suoni che provenivano dall’orecchio si trasformarono in impulsi e, in un attimo, nel cervello di Davide migliaia di connessioni, microscopici ponti tra un senso e l’altro, si riattivarono. I suoni divennero giochi di luce, ogni impulso uditivo si collegò ad un corrispettivo visivo, e più i primi aumentavano più ponti tra udito e vista iniziarono a riattivarsi. Un medico l’avrebbe chiamata Sinestesia, per Davide era l’unico strumento per esplorare il mondo.
I passi erano neri,  neri poiché si spegnevano in un silenzio “di morte”,  neri poiché ogni passo era la fine, la “morte” di un viaggio. Le voci, tinte di ogni sfumatura del blu, si mischiavano con il rosso suono delle onde del Tamigi.  Il suono delle macchine e degli autobus era un  muro grigio, privo di vita, meccanico, metallico, che tintinnava nell’aria spegnendosi senza alterarsi, un rumore quasi innaturale. Il giallo vento spirava con forza, allegro, vivace, Davide lo sentiva insinuarsi negli anfratti più nascosti distorcendo le voci dei passanti, guidando il rosso delle onde e tingendolo di un più gioioso arancione. Tutti i suoni, le note di quella melodia chiamata Londra erano ben visibili, ben definiti nella mente del ragazzo. Il pennello veniva mosso con la dimestichezza con cui un maestro d’arme avrebbe maneggiato la sua spada al tempo in cui erano ancora i clangori delle armi in ferro a riempire i campi di battaglia.
Londra si dipingeva di fronte agli occhi di Davide come se lui fosse solo uno spettatore, la “musica” lo guidava, la musica composta dai rumori, ma anche dagli arpeggi di un chitarrista in una piazza, o dalle parole di una coppia o di una compagnia di amici. Ogni tanto la melodia andava scemando e l’indice della mano sinistra tornava a premere quel play, distrattamente, quasi istintivamente.
Quando il pennello venne infine riposto in un angolo e i rumori di Londra furono abbandonati, Davide si concesse un attimo per ammirare Londra, l’aveva ascoltata, aveva vissuto i minuti, le ore di alcuni dei suoi luoghi, ma ora, di fronte ai suoi occhi, su quella tela, i colori e le forme di Londra erano distinti, ben visibili e non più aloni sfocati di colori o forme indistinte.
Lo sguardo si volse poi al resto della stanza. In un angolo troneggiava la vivace, ed al contempo severa Mosca, in un altro la calda Madrid, in un altro ancora l’antica e colma di saggezza Roma, e molte altre ve  n’erano accatastate alle pareti. Così Davide viaggiava e viaggiava e viaggiava. Così esplorava il mondo: attraverso le orecchie di Nicol, e attraverso il suo pennello. Il mondo per lui non era altro che un enorme, infinita e impossibile canzone, una melodia che aspettava solo d’esser dipinta, e il suo compito, il suo più grande desiderio ed aspirazione era quello, era esattamente quello, di dipingere il mondo da parte a parte, dipingere ogni suo rumore, ogni sua musica, per quanto distante o irraggiungibile essa fosse.

  
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