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Autore: Taranim    01/07/2012    5 recensioni
Prima che potesse elaborare un qualunque pensiero coerente, un secondo urlo si levò dal budello di stradine che si dipanavano davanti a lei. Un brivido le corse lungo la schiena ammantata di nero, quando riconobbe una voce familiare tra le note del grido. La morsa puramente mentale, ma non illusoria, attorno alla sua gola si fece più stretta, ed un lieve sussurro rotolò dalle sue labbra rosse come il sangue:
"No." La sua voce, pura poesia arrochita dall’inquietudine, "Lui non può essere qui".
(Estratto del I capitolo)
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Questa è una long-fic, temporalmente collocata all'inizio dell'Ordine della Spada, scritta da un punti di vista esterno ai personaggi direttamente coinvolti: potrebbe sorprendervi la scelta del personaggio narrante.
Genere: Dark, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

 
Walpurgisnacht

 




Un rombo.
Un tuono così forte che sembrò tagliare le nubi e squarciare il cielo con tanta foga da riuscire a ferire la terra sottostante, e le vibrazioni fecero tremare il corpo  sopra di lei.
L’improvvisa consapevolezza di esistere, di stare in essere, le fece spalancare  la bocca, alla ricerca di ossigeno: un peso insopportabile le opprimeva il petto e il ventre, impedendole la respirazione; boccheggiò e fece leva sui gomiti per alzarsi. Il peso si mosse, rotolando di lato, permettendole di sollevarsi. Schiuse gli occhi, ma l’oscuro scenario che si trovò di fronte le fece pentire di non aver tenuto gli occhi chiusi: si trovava in un luogo familiare e al tempo stesso conosciuto. Riconosceva la piazza, alla luce del giorno era sempre stata affollata di mercanti, ma quella che aveva davanti agli occhi era una piazza cosparsa di marmi e cornicioni, alcuni dei palazzi circostanti erano stati sventrati. L’aria era densa di zolfo e il puzzo di oscurità era soffocante. Una morsa le serrò le viscere, il panico le strisciò sulla pelle, impadronendosi di lei; le mani cominciarono a tremarle quando realizzò che ciò che aveva avuto addosso era un corpo umano.
Il suo corpo.
Gli occhi le bruciarono d’un tratto, e le braccia circondarono quel petto, quelle spalle, che conosceva così bene da poterne tracciare i contorni e dettaglia a memoria;  orribilmente immobili.

Un lampo illuminò due figure che si stagliavano contro il cielo notturno, plumbeo.
Poteva  osservarle di profilo, se solo i suoi occhi non stessero annegando nelle lacrime. Con un gesto imperioso e nervoso le portò via, la manica della divisa era ormai ridotta a brandelli, e si costrinse a guardare: tutto ciò che avevano fatto li aveva condotti fino a quel momento, ed ora doveva assistere. Assistere alla fine, a tutte quelle vite stroncate, sacrificate, in nome di qualcosa di più grande della comprensione umana: le Forze coinvolte erano al di là di qualsiasi concetto realizzabile. Ingoiò l’amaro sapore del senso di colpa e del rimpianto: non avrebbe dovuto immischiarsi.
Gli occhi scuri scivolarono sul viso del giovane, abbandonato sulle sue gambe, un lieve sorriso vittorioso avrebbe per sempre segnato le labbra morbide: no, in realtà non era dovuto a quello il suo rammarico; bensì alla propria incapacità di proteggerlo.
La giovane donna alzò nuovamente lo sguardo, un bagliore della determinazione che l’aveva da sempre distinta attraversò le iridi buie: c’era ancora una speranza, ed essa era proprio lassù, eretta sulla cima di un palazzo ancora intatto. Fronteggiava con fierezza la sua nemesi, il cui volto pallido era incorniciato da lunghi capelli del colore della notte.
I capelli bruni dell’altra si arricciavano nel vento impetuoso, e le gonne si gonfiavano attorno alle gambe lunghe e flessuose; nella mano stringeva una spada sottile, forse un fioretto. I contorni della figura la facevano sembrare umana, ma quella era pura apparenza: potere primordiale in un involucro di carne e sangue.
Ella balzò in avanti,  sembrò sostare nell’aria per  qualche istante –le gambe tese nello slancio, il braccio armato  piegato sotto il mento, un’immagine terribile e incantevole al tempo stesso- ma un lampo bianco fendette la notte: il bagliore di una lama più grande, e la ragazzina venne scagliata lontano con forza. Precipitò per parecchi metri e cadde brutalmente al suolo, sollevando nuvole di polvere e cenere. Lo schianto della carne e delle ossa contro la dura pietra della strada le tolse il fiato; l’altra figura, più alta e più virile, si gettò dal cornicione con un movimento fluido, con la violenta eleganza di un delfino  e la spada sguainata. La lama era protesa di taglio, mirando alla carne molla del ventre sottile di lei; non poteva pararlo, l’avrebbe sicuramente schiacciata!
Agilmente, la piccola scartò di lato, rotolando sulla pietra, e scattò in piedi per tentare un fendente laterale con il fioretto affilato. 
Uno spruzzo di goccioline infinitesimali si disegnò nell’aria, ed un urlo raccapricciante si levò al cielo,  che rispose con una pioggia di tuoni e lampi.  Le finestre delle case circostanti sembravano assistere alla scena con muta severità, volti di pietra austeri che partecipavano passivamente alla battaglia, anche loro feriti, tagliati, monchi.
L’agile e snella ragazzina caricò un affondo, ma lui lo schivò e fece ruotare la lama che sibilò nell’aria ma non trovò il suo obiettivo: si era abbassata fino quasi ad inginocchiarsi al suolo e, con un guizzo soddisfatto negli occhi  celesti, si spinse in avanti rialzandosi e caricando una gamba all’indietro; il suo ginocchio ossuto affondò nel ventre scoperto dell’avversario. Il cavaliere dalla lucente armatura si piegò, spuntando un fiotto di sangue e saliva. Indietreggiò, ma non per un attimo perdette la presa sull’arma. I riflessi pronti captarono il movimento di lei che, fulminea, cercò di ritrarsi e le afferrò le lunghe ciocche sbattute dal vento. La tirò verso sé, e questa, con il volto spruzzato di efelidi e sangue, si trovò a lottare per opporsi. Sentì ciocche di capelli separarsi dalla sua testa e gridò; ad uno strattone più forte,  inciampò nei propri piedi e tentando disperatamente di recuperare l’equilibrio, non vide lui preparare un colpo, che la colpì al ventre con il piatto della lama.
La potenza del colpo le rubò il respiro e scivolò lungo lo spadone, che la spinse con violenza contro il muro di un palazzo diroccato. La sua schiena urtò una finestra, rompendola in una pioggia di frammenti e schegge di vetro: il rumore stridulo si accompagnò al tonfo di un corpo che cadeva pesantemente, come morto.

 

*  *  *

 
Lento, si avvicinava inesorabilmente. Seppur zoppicante, la sua andatura procedeva con la calma di un predatore consapevole del panico della preda, ormai intrappolata. Ella ringraziò che non le fosse concesso di vedere i suoi occhi, sapeva cosa vi avrebbe letto; gli artigli con cui il panico aveva stretto fino a quel momento le sue viscere si rilassarono a quella vista svuotandola completamente.
Il gelo che avvertiva dentro faceva da contrasto al corpo ancora caldo che teneva strenuamente tra le braccia.
Abbassò il capo, tuffando il naso nella testa arruffata che giaceva incosciente sul suo grembo: il vago odore dolce le bagnò l’olfatto, risvegliando il ricordo di un sapore zuccheroso sulla lingua. Le bastò quello per ingannare, anche se per pochi minuti, la realtà. Le lacrime secche rigavano le guance arrossate e sporche, il loro sale le pizzicava la pelle; non percepiva più le gambe, il peso morto del corpo sopra di esse aveva inibito i suoi nervi, ma a lei tutto quello non importava. Annaspò nei ricordi di giorni ormai lontani, spazzati via dal tempo e dalla tragedia imminente.
Piccoli ciottoli spostati, fogli di musica calpestati. La realtà era quella, e avrebbe dovuto affrontarla così come le avevano insegnato. Alzò il viso a quella notte buia, il cielo era un turbinio di nubi grigie e violacee, ed i tuoni sovrastavano i boati dei cannoni e dei colpi di fucile che rimbombavano nelle strade abbandonate.
Quando giunse a pochi metri da lei, ella lasciò il corpo, le braccia le caddero flosce lungo i fianchi feriti, eppure emise un sospiro, lieta che l’attesa interminabile fosse finita.
La luce saltuaria dei lampi saettò sulla lunga e larga spada che la figura reggeva con una mano, accanto a sé. Ormai era vicino. Abbastanza vicino perché notasse il denso liquido scuro che attraversava la lama: uno dei grumi di materia nerastra di cui era imbrattata scivolò lungo una delle punte della lama laterale.  La traccia sanguinosa che si lasciò dietro, sul metallo perlaceo, le ricordò vagamente lo strisciare lento di una lumaca, tanto era densa. Non era sangue, non del tutto. Sangue Nero.

“…con l'amore disordinato che abbiamo per il nostro corpo, perdiamo il giusto discernimento! Che altro divorerà quel fuoco, se non i tuoi peccati? Quanto più, ora, sei indulgente con te stesso ed accontenti il corpo, tanto più dura sconterai, poi, la pena, e più materia da ardere accumulerai”.

Le parole proferite dalla memoria di lui non sortivano alcun effetto su di lei; un tempo si sarebbe indignata e si sarebbe messa a urlare pur di non sentirle. Era fin troppo consapevole che non avrebbe cambiato nulla: anche riuscendo a rimettersi in piedi, non aveva modo di sfuggirgli, l’avrebbe raggiunta comunque.

Là, dove l'uomo più ha peccato, sarà anche più gravemente punito. Là, gli accidiosi saranno pungolati con sproni di fiamma, ed i golosi saranno tormentati da sete e fame insaziabili”.

Un lungo sospiro rotolò dalle sue labbra rosse. Non avrebbe mai detto che, di fronte alla morte imminente, si sarebbe rassegnata senza combattere, senza tentare, ma c’era qualcuno che doveva proteggere, e giaceva su di lei. Aveva sentito il suo lento e flebile respiro tra le dita lorde, poco prima. Le aveva fatto da scudo con il suo corpo, salvandola: non avrebbe sprecato la sua vita lasciandosi ammazzare così,  anche se ormai era tutto perduto. L’aria crepitava ai suoi delle battaglie dislocate nella città, l’odore di quel temporale che non aveva nulla di naturale le impregnava il respiro. Era il puzzo dell’Inferno.
“Non puoi ucciderlo, è umano!” la sua stessa voce le parve estranea quando parlò: era più simile ad un rantolo che un’affermazione.  Le parole non arrivarono allo spadaccino, che continuava con la sua liturgia, con un tono sempre più alto, fino quasi a gridare. Spostò il giovane dalle sue gambe e cercò di tirarsi in piedi, il cuore le batteva in gola, i nervi tesi e sensibili acuivano i suoi sensi: era il suo corpo che rifiutava l’arrendevolezza della mente alla morte.  Una mano grande e brusca le afferrò la testa e la trascinò al suolo brutalmente; un singhiozzo spezzato le rotolò dalla bocca, il suo respiro divenne ansioso, e la paura la spinse a evitare di incrociare gli occhi di lui. La obbligò a inclinare il capo, facendole esporre la gola nivea alla luce lunare.

Il grumo aveva raggiunto l’estremità inferiore della lama, mentre il suo cavaliere stringeva la presa sulla sua testa. Si fermò. Tremolò un poco e si gonfiò. La giovane torse il viso in una smorfia disgustata: quel grumo continuava ad avere l’aspetto di un mollusco grasso e strisciante. Una lumaca che esita prima del salto. Quando diventò troppo pesante perché l’adesione riuscisse a contrastare la gravità, il grumo cadde e andò ad aggiungersi a quelli che l’avevano preceduto.
Una chiazza andava allargandosi sulla pietra viscida, una chiazza di un limo nerastro simile a inchiostro denso. Lei sapeva di stare guardando qualcosa, che fino a pochi minuti prima era dentro al torace della ragazzina, diventare parte della strada.

 “Là, i lussuriosi e gli amanti dei piaceri saranno immersi in pece ardente e in fetido zolfo, e gli invidiosi urleranno di dolore come cani arrabbiati…”.


“Oh no. Non ho dato la mia anima per vederti morire, ancora”.

 
   
 
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