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Autore: Mary P_Stark    02/07/2012    6 recensioni
Tutto si sarebbe aspetta, Elizabeth, tranne che di rischiare la vita durante un semplice campeggio nei bei boschi dell'Oregon. Ma tutto può succedere, a una creatura mannara, quando di mezzo ci sono rancore e odio. Scampata alle bocche dei fucili puntati contro di lei per ucciderla, Elizabeth troverà inaspettatamente aiuto e conforto in un dottore fuori dal comune, che non solo la salverà da coloro che intendono farle del male, ma le mostrerà che, di certi esseri umani ci si può fidare. E lei ridarà speranza a un uomo che pensava di non poter più aprire il proprio cuore a nessuno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cosa le aveva detto il cervello, quando aveva accettato di andare a fare una gita nel camping di Frank?

L’avrebbe ammazzato, la prossima volta che le avesse proposto una vacanza del genere. Ammesso e non concesso che fosse sopravvissuta a quella vacanza.

Sul momento non sembrava una cosa fattibile, almeno a giudicare dalla ferita alla gamba che ne limitava i movimenti, e dal nutrito gruppo di cacciatori che la stavano inseguendo per i boschi con tanto di molossi al seguito.

E dire che si era fidata delle parole di Frank! Stai tranquilla, qui la legge è passata e la popolazione è ben disposta verso di voi!

Ben disposta un corno!

Non appena si era registrata al campeggio, mostrando ovviamente i suoi documenti d’identità, non le era occorso molto prima di ritrovarsi con un gruppo di cacciatori alle calcagna e una minaccia di morte appesa al collo.

Giusto il tempo di uscire da sola a fare una passeggiata nel bosco per raccogliere fragole selvatiche e zack!, se li era ritrovati alle spalle come una muta di leoni in caccia.

Il primo colpo di fucile era arrivato subito dopo e, con la sua solita fortuna, l’aveva ferita seriamente. Il che non deponeva certo a loro favore. Se fossero stati lì per selvaggina da penna o da pelo, non avrebbero potuto di certo fare un danno simile.

Invece, la gamba zampillava che era un piacere, le faceva un male del diavolo e lei cominciava a perdere terreno sui suoi inseguitori, tanto le sue forze iniziavano a vacillare.

Entro breve, si sarebbe ritrovata dissanguata e a far da spuntino ai cani o, peggio ancora, caricata sui pick-up dei cacciatori e portata in qualche baita sperduta tra i boschi dell’Oregon come trofeo.

Non avrebbero comunque ottenuto granché dalla sua morte, ma questo nessuno di loro l’aveva ancora capito.

Come se non vi fossero stati altri esempi chiarificatori, in passato!

Inciampò in una radice di abete sitka proprio nel bel mezzo di un’imprecazione, rischiando di finire nel vicino torrente montano prima di illuminarsi in viso ed esclamare tra sé: «Beh, tanto vale rischiare il tutto e per tutto!»

Dopo aver formulato quel pensiero, Elizabeth si lanciò nel flusso d’acqua gorgogliante e freddo come il peccato, e lasciò che la corrente la conducesse a tutta velocità verso la vicina cascata.

Se anche i cani avessero seguito le sue tracce fino al torrente, i cacciatori avrebbero dedotto che era caduta in acqua, finendo con il morire a causa della caduta dalla cascata. 

Forse, l’acqua avrebbe confuso le sue tracce, cancellando il suo odore persistente. E forse, non si sarebbe sfracellata sui massi come invece voleva soltanto far credere ai suoi inseguitori.

Prendendo dei gran respiri a pieni polmoni, la giovane mosse un poco braccia e gambe per posizionarsi nel centro del flusso, non sapendo bene cosa aspettarsi. Gettarsi dalle cascate non era il suo sport abituale.

Fu con occhi sgranati per la paura e il battito tachicardico del suo cuore a rimbombarle nelle orecchie, che infine scivolò per la cascata lanciando involontariamente un grido.

L’ultima cosa che il suo cervello registrò fu il tremendo impatto con l’acqua. Poi fu tutto buio. Forse, dopotutto, era stata una pessima idea.

 
₪₪₪

Ogni muscolo del suo corpo stava gridandole nelle orecchie il proprio disappunto mentre, con lentezza esasperante e una fatica quasi insopportabile, sollevava una palpebra nel risvegliarsi.

Le sembrava di essere stata calpestata da una mandria di bisonti, passata nel tritacarne e, infine, cotta alla brace.
Avrebbe voluto urlare anche lei, al pari dei suoi muscoli dolenti, ma aveva il forte dubbio che, se solo ci avesse provato, anche la sua gola avrebbe protestato, impedendoglielo.

Fece perciò l’unica cosa che, in quel momento, le sembrava fattibile. Scrutò quel poco che riusciva a scorgere dall’unico occhio che aveva osato lasciare libero dalla gabbia imposta dalla palpebra abbassata.

Senza muovere minimamente il capo, che stava eseguendo al suo interno tutta la discografia dei Linkin Park senza lasciare indietro neppure un brano, scrutò il soffitto ligneo che si trovava sopra la sua testa.
Una piccola lanterna a olio illuminava fiocamente la stanza dove si trovava, mentre il rumore della legna intenta a bruciare la incuriosì, portandola a chiedersi se vi fosse un camino, in quel luogo.
Arrischiandosi ad aprire anche l’altro occhio, completò il suo arco visivo di circa centosessantacinque gradi e ammirò sorpresa l’ambientazione tipicamente montana in cui si trovava.

Era evidente che, chiunque l’avesse tirata fuori dalle acque e, apparentemente, salvata dalla morte, l’aveva trasportata in quella che aveva tutta l’aria di essere una baita.

Restava da capire chi fosse il suo misterioso salvatore e, soprattutto, se lo fosse realmente.

Pur trovando inaccettabile l’idea di procurarsi ulteriore dolore, Elizabeth mosse un poco il capo di biondi capelli – sparsi su un cuscino di piume, da quel poco che poté capire – e lanciò un’occhiata alla sua destra.

Scorse una porta chiusa, alcuni utensili da cucina appesi al muro di sassi, una piccola finestrella dalle imposte serrate e un angolo cottura in ghisa.

«A quanto pare, ti sei ripresa.»

La voce giunse dalla sua sinistra e la donna, istintivamente quanto stupidamente, si volse rapida dall’altra parte solo per sentirsi esplodere la parete frontale del cranio.

Ora, il suo cervello non suonava solo i Linkin Park, ma anche la banda della scuola dove aveva studiato e il fratello minore con la batteria nuova di zecca. Un vero supplizio.

Portandosi immediatamente le mani al viso per tamponarsi gli occhi, così che la luce fioca non peggiorasse il suo mal di capo, Elizabeth si lagnò per il dolore che provava.

La voce che l’aveva attirata in errore, gentilmente, le ordinò: «Non puoi ancora muoverti. E’ troppo presto. Riposa e resta il più ferma possibile, se riesci.»

Elizabeth biascicò un ‘sì’ stentato, sputato quasi tra i denti serrati, prima di imporre ai suoi muscoli di rilassarsi. Non che ne avessero granché voglia, di ubbidire, ma alla fine lo fecero.

Una pezzuola fresca le inumidì la fronte bollente mentre la voce, ancora una volta, le parlò con gentilezza, mormorandole: «Non hai nulla da temere, da me.»

Non ebbe modo di decidere se credergli o meno. Il torpore la prese nuovamente, facendola sprofondare in un sonno agitato, privo di sogni.

 
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Il suo secondo risveglio andò meglio, molto meglio. La testa era silenziosa, i muscoli molto più ben disposti a collaborare e l’unico forte dolore che avvertiva proveniva dalla gamba ferita dal colpo di fucile.

Arrischiandosi perciò a mettersi a sedere, Elizabeth si guardò intorno per avere una più ampia visione del luogo in cui si trovava, e fu a quel punto che si rese conto di non avere più addosso i pantaloni e la camicia.

Al suo posto, portava una pesante camicia da uomo in flanella, a quadrettoni rossi con righe blu e marroni. Sotto di essa, reggiseno e mutandine erano spariti.

Non che la nudità le desse dei problemi, ma…

Prima ancora di lagnarsi per l’intraprendenza del suo misterioso soccorritore, Elizabeth si rese conto dei bendaggi che la ricoprivano in più punti e della pesante garza imbottita di cotone idrofilo che le copriva la coscia ferita.

A giudicare da come era stata curata, colui che si era preso cura di lei doveva conoscere molto bene i rudimenti del primo soccorso, ma la cosa non le permise di stare più tranquilla.

Fino a pochi anni prima, aveva avuto un terrore folle dei dottori e di tutti i loro simili, e per più che validi motivi.

Da quando la legge sull’ufficializzazione delle razze mannare era passata in quasi tutti gli Stati Uniti, con l’eccezione del Texas e dell’Arizona, le cose erano migliorate. Ciò che le era successo, però, confermava appieno quanto ancora molte persone non si fidassero di loro.

I dottori, più di tutti, si erano interessati a che nessuno di loro venisse lasciato a marcire lontano dai loro affilati bisturi.

Rabbrividì al ricordo di quello che era successo a una sua amica. Scuotendo il capo per il fastidio, cercò di cancellare dalla mente le urla dei genitori che avevano dovuto riconoscere i suoi resti umani, perché il corpo era stato smembrato per essere studiato.

Non aveva voluto lasciar andare da soli di Sue, la sua migliore amica, così aveva accompagnato Jennifer e Richard perché non dovessero affrontare quell’oscenità in solitudine. Era stato comunque uno strazio intravedere quel che era rimasto della loro figlia e, soprattutto, sapere che le erano stati asportati cuore e fegato prima di ridurla a pezzetti.

Era stata trattata come in un trofeo di caccia, quasi lei fosse stata solo un animale.

Oh, certo, i cacciatori e coloro che li odiavano li credevano tali, ma c’era molto di più in loro, non solo pelliccia da appendere al muro o sopra un pavimento laccato. Cosa che, per altro, non avrebbe mai potuto accadere, visto che i loro corpi recuperavano la forma umana, in caso di morte.

Disgustata dalla piega dei suoi pensieri, Elizabeth sibilò tra i denti prima di scostare appena il lenzuolo che la copriva per permettere ai suoi piedi di poggiare in terra, pur se per farlo dovette muovere la gamba ferita.

Una scarica di dolore riverberò nei suoi muscoli, rimbalzando da un recettore all’altro fino a giungere al suo cervello in un tempo inferiore a un battito di ciglia.

Nel piegare la bocca in una smorfia, si accorse di avere le labbra dolenti.

Se le tastò, guardinga, prima di ritirare la mano e imprecare. Sì, la bocca era ancora un po’ gonfia e, sul labbro inferiore, percepiva un taglio in via di guarigione.

Dopo aver appurato ciò, lasciò che il suo sguardo tornasse a vagare tutt’intorno a sé e, con una certa sorpresa, si accorse di trovarsi su un pagliericcio improvvisato.

A ben guardare, quella stanza doveva fungere sia da cucina che da stanza da pranzo, almeno a giudicare dal tavolo sistemato contro il muro assieme alle sedie di legno e paglia intrecciata.

«Ho pensato che tenerti al caldo sarebbe stato meglio, nelle tue condizioni, e questa stanza è la più calda della casa» intervenne una voce alle sue spalle, portandola a voltarsi di scatto.

Sgranando gli occhi cerulei, li fissò su un uomo alto e dalle ampie spalle e che, bloccato a metà di un passo sulla porta che dava sulla stanza accanto.

Immobile e guardingo, la stava fissando con aria il più possibile cordiale e mansueta.

Non che i lunghi capelli scuri e la barba lunga l’aiutassero ad apparire docile.

I suoi occhi grigio ghiaccio si assottigliarono un poco nel fissarla in viso prima di rischiararsi e la sua voce, profonda e roca, gorgogliò fuori dalla sua bocca con tono rilassato, mormorando: «Hai una capacità rigenerativa eccezionale, non c’è che dire. Il livido in viso è quasi del tutto scomparso. La gamba come sta?»

Elizabeth lanciò uno sguardo veloce all’arto ferito prima di tornare a fissare il suo strano salvatore, un miscuglio tra Wolverine e il Dottor Ross di E.R., e domandargli cautamente: «Sai cosa sono?»

Un arcuato sopracciglio bruno si sollevò, muovendo piccole arcate di pelle bronzea sulla fronte mentre la sua voce, in un mormorio divertito, scaturiva dalla sua bocca morbida, ironizzando sulla sua domanda.

«E io che pensavo fossi una donna. Non mi ero accorto di aver ripescato un comodino!»

Quella battuta portò Elizabeth a sorridere divertita e l’uomo, più tranquillo di fronte al suo parziale rilassamento, si appoggiò allo stipite della porta e, intrecciate le possenti braccia, continuò dicendo: «Vista la tua singolare, quanto veloce riabilitazione fisica, ho dato per scontato che tu fossi una mannara, ma non so la razza.»

«E mi hai salvata ugualmente?» mormorò basita lei, sgranando ancor di più gli occhi azzurro cielo.

«Giuramento di Ippocrate» scrollò le spalle lui, non curante.

Inaspettatamente, però, l’uomo la vide irrigidirsi al suono delle sue parole e, vagamente confuso, le domandò: «Avresti preferito un altro tipo di giuramento?»

Non potendo esimersi dal sorridere di fronte al suo tono irriverente, Elizabeth diede una spallucciata, ammettendo: «Non ho grande amore per i dottori, come potrai immaginare.»
La fronte dell’uomo tornò a corrugarsi, ma stavolta per il malumore. Annuendo gravemente, mormorò spiacente: «So cosa hanno fatto certi miei colleghi, e non ne vado certo fiero ma, con me, sei al sicuro, credimi. Non sono uno dal bisturi facile.»

«I miei vestiti?» chiese allora lei, tirando leggermente la stoffa morbida della camicia. Profumava di muschio e di uomo. Un buon aroma davvero.

«Erano a brandelli. Ho dovuto buttare via tutto e ripiegare su una delle mie camicie» le spiegò, la voce pacata e tranquilla. Da vero dottore.

«Beh… grazie, allora» sospirò Elizabeth, riuscendo finalmente a rilassare i muscoli delle spalle che, fino a quel momento, erano stati tesi come corde di violino.

«Di nulla. Ora, posso entrare del tutto senza che tu scappi via come un cerbiatto impaurito?» chiese lui, ammiccando comicamente nella sua direzione.

Lei annuì, sorridendo maggiormente e l’uomo, avvicinatosi a lei, allungò una mano dalle dita lunghe e diritte e disse: «Tanto piacere di conoscerti, sono Derek Willstar.»

«Piacere mio. Sono Elizabeth Becker» sorrise lei, stringendo quella mano forte e calda.

Sogghignando, Derek ammise: «E’ la prima volta in assoluto che conosco una donna a questo modo.»

«Lo immagino» ridacchiò lei, illuminando il suo viso d’alabastro.

«Sarai affamata. Hai delle preferenze?» le domandò lui, indicando con un cenno del capo il cucinotto nell’angolo e le credenze appese al muro.

Elizabeth annusò un momento l’aria, satura di spezie, carne in salamoia e formaggi freschi prima di sorridere e, indicando il piccolo frigorifero, dire: «Un po’ di carne alla piastra andrebbe benissimo.»

Derek si toccò il naso con aria comica, ammiccando. «Naso sopraffino.»

«Sì» annuì lei, sentendosi stranamente a suo agio con quel perfetto sconosciuto.

Seguendo le sue movenze attraverso la stanza, Elizabeth notò i suoi piedi scalzi sulle assi di legno grezzo del pavimento. Non sapendo bene perché, li osservò con aria interessata, come se quel particolare lo rendesse meno pericoloso ai suoi occhi.

Non che non fosse in grado di prevaricarlo fisicamente – era abbastanza in forze per abbatterlo con un pugno – ma, in un certo qual modo, la sua possanza fisica la metteva a disagio.

Anche se non ne sapeva bene il motivo.

Intento ad armeggiare con padella e bistecche con l’osso, Derek si volse a mezzo per guardarla da sopra una spalla e, sorridendole cordiale, le domandò: «Posso sapere come sei finita nel fiume e perché avevi la gamba ferita da un colpo d’arma da fuoco?»

Avvicinandosi a lui in punta di piedi, le mani strette dietro la schiena, Elizabeth sbirciò oltre il suo corpo maestoso per osservare le bistecche sfrigolare sulla superficie di teflon della padella, prima di spiegargli ciò che le era successo.

«Ero nel bosco per una passeggiata quando, di colpo, mi sono trovata braccata da un branco di cacciatori… con munizioni ad argento. Mi hanno ferita alla gamba mentre fuggivo e, per non farmi prendere, mi sono gettata nel fiume.»

«Scelta coraggiosa» mormorò lui, sollevando le sopracciglia con evidente ammirazione. «Sono rimasto indietro coi tempi, o è illegale darvi la caccia, in Oregon?»

«Evidentemente, quelli non ne erano a conoscenza» brontolò Elizabeth, guardandosi intorno prima di chiedergli: «Dove hai i piatti? Preparo la tavola, se vuoi.»

«Sei ancora convalescente e…» cominciò col dire lui prima di notare la disinvoltura con cui Elizabeth era poggiata sulla gamba ferita. «Oookay. Lascia stare. I piatti sono in quella credenza accanto alla porta.»

«Bene» ridacchiò lei, saltellando verso il mobile in legno scuro come se nulla fosse.

Derek la fissò strabiliato, e non solo per gli effetti incredibili della sua guarigione fulminante. Era la prima volta in assoluto che una donna metteva piede nella sua baita dispersa nei boschi e, in assoluto, la prima donna con cui parlava dal suo burrascoso quanto atroce divorzio.

Melanie aveva spremuto ogni stilla della sua pazienza, riducendolo a un uomo stanco, disgustato dalle donne e con un’idiosincrasia totale nei confronti del mondo civilizzato.

Tutto ciò che lui aveva amato, la medicina, i suoi cavalli, i suoi cani, lei li aveva triturati sotto i suoi tacchi a spillo facendoglieli odiare fin nel midollo.

Melanie aveva desiderato splendere di luce riflessa grazie al suo nome, e lui gliel’aveva concesso. Aveva voluto veder correre i suoi purosangue nelle migliori gare a ostacoli della West Coast, e lui l’aveva accontentata. Aveva messo in mostra i suoi pregiati Golden Retriever a ogni fiera possibile e immaginabile, finendo per farli diventare solo meri trofei, e lui aveva acconsentito.

Alla fine, tutto era diventato vuoto interesse, nulla aveva più avuto un senso, il suo amore per le cose che più aveva apprezzato era stato sostituito dalla noia e dal disinteresse. Quando lui infine glielo aveva fatto notare, Melanie era impazzita di rabbia.

Lo aveva accusato di non voler dividere con lei i suoi interessi – e i suoi guadagni – e di volerla relegare in un angolo della sua vita come uno stupido manufatto, e niente di quello che aveva detto, o fatto, per chetarla era servito.

Sei mesi dopo quel litigio, Melanie aveva inoltrato le pratiche per il divorzio e, grazie alla sua avvocatessa senza scrupoli, era riuscito a spillargli un assegno di mantenimento più che generoso.

I loro amici si erano schierati dalla parte di Melanie, accusandolo di non averle dato quanto meritasse e lui, non sopportando oltre quel vuoto e gretto mondo dove aveva vissuto per troppo tempo, se ne era andato da Boston.

Venduta la villa di famiglia – l’unica cosa che la ex moglie non aveva potuto toccare – aveva affidato i soldi al suo banchiere di fiducia perché li investisse in fondi fiduciari sicuri.
Con gli interessi maturati, sopravviveva più che bene nel suo piccolo rifugio dell’Oregon, lontano da tutto e da tutti.

In meno di un mese aveva abbandonato il prestigioso lavoro all’ospedale, le sue amicizie altolocate e i vernissage a cui era solito andare e, presi i pochi abiti che gli sarebbero serviti nella sua nuova vita, era partito per non tornare mai più.

E ora si ritrovava con una mannara in casa, una gran bella mannara, osò pensare tra sé, e non sapeva che pesci prendere.

Quando l’aveva spogliata in fretta e furia, aveva badato solo a curarle le ferite lacero contuse e a coprirla con abiti puliti. Non appena l’urgenza era scemata, però, i suoi occhi erano rimasti fissi per ore a osservare quel viso che, lentamente, tornava alla sua condizione originaria.

Sotto le ecchimosi violacee era sorta pelle bianco latte e qualche efelide sul naso diritto e sottile mentre lunghe, pallide ciglia ombreggiavano gote dagli zigomi alti e nobili.

L’aveva accudita nelle lunghe ore in cui aveva delirato in preda alla febbre, chetandone i tremiti con panni di lana o asciugandone la fronte quando la febbre saliva.

Solo quando i deliri erano scomparsi si era preso il tempo di riposare un po’ e, quando lei si era svegliata, avrebbe tanto voluto parlarle, chiederle chi fosse, perché l’avessero ferita. Ma nulla. Lei era svenuta nuovamente, e lui aveva dovuto aspettare.

Ora sapeva e, quel poco che conosceva di lei, sapeva di paura, di ansia ma anche di vitalità e di un tocco di candore che lo sorpresero.

Poteva ben immaginare quanto fosse preoccupata per tutta quella situazione, pur se lui era più che certo che, se avesse voluto, avrebbe potuto stordirlo con un semplice pugno.

Non sapeva molto dei mannari, ma una cosa la conosceva. La loro forza.

Non dubitava neppure per un attimo che quello scricciolo di donna, per quanto esile e apparentemente fragile, avrebbe potuto sbatterlo a terra con un sol colpo, se si fosse sentita minacciata.

Per questo non era entrato subito nella stanza, specialmente dopo averla vista così in allarme. Non aveva bisogno di finire a terra con una commozione celebrale, e solo perché non era stato attento.

Distogliendo lo sguardo non appena Elizabeth ebbe preso tutto il necessario per apparecchiare, Derek tornò a controllare le loro bistecche.

Dopo aver aggiunto un po’ di aneto e di timo, le rigirò con la pinza da carne e fece sfrigolare il lato meno cotto sulla piastra nero carbone.

Il tintinnio di piatti e bicchieri fece sorgere a Derek un lento sorriso e, quando la sentì tornare al suo fianco, le disse: «Grazie per la cortesia.»

«E’ il minimo, visto che mi hai salvata e mi stai preparando il pranzo» scrollò le spalle lei, sorridendogli timidamente.

Due fossette comparvero sulle gote rosee, e Derek non poté che trovarle adorabili. Dio, sembrava un folletto, anche se era alta quasi quanto lui! Tutta esile, sottile e aggraziata, dai colori algidi ed eterei, … così deliziosa!

Dandosi dell’idiota, si disse che la mancanza di una donna gli stava facendo davvero strani scherzi, se iniziava a fantasticare sulla ragazza che aveva appena salvato da una gran brutta fine.

Con aria divertita, le sorrise di rimando, mormorando: «C’è dell’insalata fresca, nel frigorifero. Puoi metterla sul tavolo.»

«Lo faccio subito» annuì lei, aggirandolo e sfiorandolo con il suo corpo caldo e profumato di gelsomino.

Mio caro, devi scendere in città e trovarti una donna. Sei davvero messo male!, pensò tra sé Derek, dandosi mentalmente una mazzata sulle dita per tenerle lontane dalla sua ospite a sorpresa.

Ospite a sorpresa che, dopo essersi accomodata a tavola, brontolò: «Ammazzerò Frank, la prima volta che lo becco. Mi aveva assicurato che in quel campeggio sarei stata al sicuro…»
Visto, ha un uomo! Toglitela dalla testa!, si ammonì mentalmente Derek, poggiando la bistecca perfettamente cotta sul piatto di porcellana bianca.

«Rimarrai vedova, se ammazzerai tuo marito» ridacchiò Derek, servendosi prima di sedersi a sua volta.

Elizabeth sgranò lentamente gli occhi, fissandolo senza parole, prima di scoppiare in un’allegra risata ed esalare: «Oh… no! Frank non è mio marito! E’ un amico… di famiglia…oddio! Non ci penserei mai a sposarlo. Ha settant’anni suonati e vedovo da due. E’ buono come il pane ma, certe volte, ha delle idee balzane. E questa si è dimostrata la peggiore di tutte.»

Stranamente confortato da quella notizia, Derek infilzò la carne con la forchetta e, dopo averla tagliata in vari pezzi, ne addentò una parte dopo averle detto: «Se non fosse stato per i cacciatori, non sarebbe stato così male, no? Il posto merita.»

«Oh, certo. Io adoro questa parte dell’Oregon» cominciò col dire Elizabeth, addentando un pezzo di carne e mangiandolo con gusto. «Mmmh, divina!»

Derek ridacchiò nel sentirla mugolare di piacere e, offertole un po’ di vino rosso, le chiese: «Cosa fai di solito, a parte scappare e buttarti nei fiumi?»

Sogghignando, Elizabeth sorseggiò il buon vino dal bouquet profumato di cannella e lampone e, pensosa, gli spiegò: «Vedi, io sono una geologa e mi occupo di studiare i mutamenti geologici della spianata dei geyser a Yellowstone. Sono lì con una borsa di studio dell’Università di Berkeley, dove lavoro, e conto di trasferirmi là in pianta stabile per lavorare nel parco come guida. Potrei unire le due cose e guadagnare un po’ di più per mantenermi visto che, come ricercatrice, non è che gli stipendi siano spettacolari.»

«Ne so qualcosa» ammise Derek.

«Tu, invece, dottore, che ci fai qui, disperso nei boschi? Aiuti tutti i naufraghi come me?» gli domandò lei, ammiccando divertita.

La paura iniziale sembrava essere del tutto scomparsa e, a giudicare dal suo colorito sano e dal labbro inferiore ora completamente guarito, mangiare carne la stava aiutando a recuperare con ancor più velocità di quanta lui stesso non avesse immaginato.

Era un processo davvero incredibile da vedere coi propri occhi.

Rispondendo alla sua domanda così da avere una buona scusa per distogliere lo sguardo da quelle labbra a bocciolo di rosa, Derek le spiegò succintamente: «Mi ero stancato della città e dei suoi conformismi assurdi, così ho mollato tutto e sono venuto qui a vivere a contatto con la natura.»

«E tua moglie?» aggiunse lei, indirizzando uno sguardo significativo alla linea chiara sull’anulare sinistro, dove un tempo si era trovata la sua fede nuziale.

Era passato diverso tempo, ma era chiaro che i suoi occhi potevano ancora scorgere il segno residuo della fede che, quasi sdegnato, aveva gettato in un cassetto senza più cercarla.

Con un mesto sospiro, Derek fece spallucce borbottando: «Divorziato da quattordici mesi.»

«Oh. Mi spiace» esalò lei, apparendo sinceramente dispiaciuta per lui. «Era una strega tremenda, eh?»

«Come fai a dirlo?» ironizzò lui. «Magari lo stronzo di turno ero io.»

Scettica, lei lo fissò con i suoi penetranti occhi limpidi come laghetti di montagna e replicò: «Una persona che salva una perfetta sconosciuta… mannara… e la cura, la riveste e la sfama non può essere una cattiva persona o, come dici tu, uno stronzo di turno. Quindi, ne deduco che sia lei la megera.»

Lui si limitò a fare spallucce ed Elizabeth, ingollando un altro pezzo di carne, infiocchettato da alcune foglie di insalata, borbottò: «So di aver ragione.»

«Te lo dice il tuo fiuto?» ammiccò lui, ghignando.

«Anche» ammise lei, arrossendo suo malgrado.

Derek se ne stupì e, più gentilmente, le chiese: «Ti turba sentirmi accennare al tuo lato animale?»

Lei annuì dopo un momento di riflessione, ammettendo candidamente: «Sei il primo umano, non appartenente alla mia famiglia, con cui ne parlo senza dovermi sentire addosso gli occhi incuriositi o spaventati del mio interlocutore. Di solito, la prima cosa che mi chiedono, quando lo sanno, è se posso mutare per mostrare loro come sono. Come se fosse divertente! Altri, invece, si scostano a distanza di sicurezza e ridacchiano come scemi. Un supplizio. Perciò, il più delle volte, non lo dico e basta.»

«Può essere asfissiante, in effetti» assentì Derek, sorridendole gentilmente.

«Con te è diverso. Non ti comporti in modo strano ed è… piacevole» sussurrò Elizabeth, tornando a far affiorare le fossette sulle sue gote di pesca.

«Sei prima di tutto una donna. Il tuo animale è un…di più, diciamo» cercò di spiegarsi lui, ridacchiando di fronte al suo modo impacciato di esporre i suoi pensieri.

Lei rise sommessamente, replicando: «Molti uomini lo troverebbero un neo, un’anomalia. Non un di più.»

«Menti limitate, le loro» chiosò tronfio Derek.

Elizabeth rise ancora più forte e, per Derek, fu come essere in paradiso. Lo scampanellio prodotto dalla sua voce aveva un che di rinfrescante, di rasserenante. Nulla di quanto aveva finora visto nel bosco lo aveva rallegrato come quella risata spontanea e sincera. C’era un che di magico, in Elizabeth Becker.

«Sono un puma» disse lei all’improvviso, sorprendendolo.

Derek sbatté le palpebre una, due volte, poi sorrise e, sollevando il bicchiere colmo di vino nella sua direzione, declamò: «Ebbene, Elizabeth Becker, puma mannara di…»

«Monterey, California» mormorò lei, con un risolino a fior di labbra.

«…bello! Beh, puma mannara di Monterey, California, benvenuta alla baita del Dottor Orso, come tanto gentilmente mi chiama lo sceriffo di Lincoln City, mio caro amico e, tra le altre cose, lupo mannaro e Alfa del branco locale, se non sono cambiate le cose negli ultimi tre mesi.»

Elizabeth lo fissò sorpresa per alcuni secondi prima di esalare: «E’ un poliziotto e lupo mannaro proclamato?»

«Da almeno sei anni, da quel che so io. All’inizio hanno fatto un po’ di storie ma, visto che col suo fiuto riusciva a scovare più criminali di qualsiasi altro, dopo qualche tempo hanno smesso di rompergli le scatole» le spiegò Derek, con un mezzo sorriso.

«Perché ti chiama Dottor Orso? Perché vivi relegato qui in isolamento?» si informò Elizabeth, guardandosi intorno con aria compiaciuta, come se quella baita spoglia e priva di fronzoli le piacesse.

«Qualcosa del genere. E poi, per la barba. Me la sono fatta crescere da quando sono arrivato qui e, solo di rado, la spunto. Ha sicuramente a che fare con un atto di ribellione nei confronti del mio precedente stile di vita… o così direbbero gli strizzacervelli» ridacchiò Derek, dandosi una grattata alla guancia, dove una ricca peluria scura copriva le gote abbronzate.

«Me l’immagino. Tirato a lucido come un penny nuovo di zecca, profumato con essenze costosissime e con niente di meno che un Dior Homme tagliato su misura» commentò divertita Elizabeth, terminando la sua bistecca.

«Qualcosa di simile» ammise Derek. «Gradisci qualcos’altro? Non so bene cosa serve a un mannaro per riprendersi da simili ferite, anche se mi sembra che tu stia reagendo molto bene.»

Guardandosi le braccia, già quasi completamente guarite, Elizabeth annuì e gli spiegò: «Se non sono ferite ad argento, guariscono alla svelta. Quella pericolosa era sulla coscia, perché il proiettile era argentato, anche se devo supporre, visto che sono viva, che l’ogiva non si sia rotta, vero?»

«Non era un proiettile con ogiva cava, era interamente in argento. Quindi, niente nitrato d’argento liquido che potesse finire nel sangue» la informò Derek, rammentando più che bene la paura provata nell’incidere la carne di Elizabeth.

Il terrore era serpeggiato dentro di lui, all'idea di rompere la potenziale ogiva dove, solitamente, i cacciatori di mannari inserivano alcuni grammi di nitrato d’argento liquido perché avvelenasse le loro prede.

«Oh, vecchi proiettili, quindi» asserì Elizabeth, prima di scuotere il capo, disgustata e commentare aspra: «Non vogliono proprio capire che, in qualsiasi forma ci uccidono, il nostro corpo rimarrà umano, e non animale. Non avranno mai dei trofei da appendere al muro.»

«Temo che lo facciano indipendentemente dalla ricompensa, per così dire» sospirò Derek, accigliandosi. Non gli piaceva parlare di cose simili, specialmente con lei.

«Già, temo tu abbia ragione» ammise Elizabeth, sorridendo imbarazzata un attimo dopo quando chiese a Derek: «C’è un bagno, qui? Vorrei…insomma…»

Sorridendo comprensivo, Derek indicò una piccola porta in legno e disse: «E’ piccolo, ma funzionale. Troverai tutto quello che ti serve.»

«Grazie» sussurrò lei, scostando la sedia per avviarsi verso il bagno. Dopo aver appoggiato la mano sul pomolo della maniglia, si volse a mezzo e, indirizzando uno sguardo alla tavola ingombra, gli intimò: «Non osare sparecchiare. Tu hai cucinato, io pulisco.»

«Come comandi» ridacchiò Derek, sollevando le mani in segno di resa incondizionata. «Non sia mai che io faccia irritare un puma.»

«Bene» sentenziò lei con un sorriso, sparendo dietro la porta un attimo dopo.

 
  
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