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Autore: moni93    03/07/2012    2 recensioni
Ho atteso così tanto a postare, perchè mi vergognavo profondamente di quanto scritto. E me ne vergogno ancora, a essere sincera. Tanto.
Però, al diavolo! Oggi è il compleanno della mia amica del cuore (alias gemellina), perciò, Miky, per te e solo per te posto questo mio obbrobio.
Non aspettatevi granché, è semplicemente un elogio alle mie amiche, passate e presenti.
Se non avete spaccato il pc alla fine della lettura (complice un raptus di schifo acuto), sarei felice di ricevere qualche commento.
Buona lettura! ^^
Ps: TANTI AUGURI MIA POLLON!!!!!
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UN AMICO TI TENDE LA MANO E RAGGIUNGE IL TUO CUORE

 

Fin da piccola ti fanno credere che la vita è bella, semplice e, ovviamente, ricca di persone meravigliose e pronte ad aiutarti. Insomma, che il lieto fine non solo è a disposizione di tutti, ma è un tuo sacrosanto diritto. Le favole sui libri zeppi di immagini colorate, la televisione chiassosa e stimolante e persino i tuoi genitori, cercano di illuderti che andrà sempre tutto bene.

Ovvio, non sono da incolpare per questo. Cercano solo di proteggerti, di farti vivere un’infanzia felice e spensierata. Ma non sempre questa è l’età più bella e indimenticabile o, almeno, non lo è per i motivi che si credono di solito.

Il ricordo più nitido che ho di me stessa, è quello di una bambina birbante e curiosa, che non sta ferma un attimo e che corre a destra e a manca, desiderosa di scoprire, esplorare e, soprattutto, divertirsi.

Il secondo pensiero che mi affiora alla mente è, però, ben diverso. Una camera semibuia, dai colori spenti, nonostante sia zeppa di colori e poster. Freddo, tanto freddo, non solo per i brividi della febbre, ma anche per il vuoto che sento dentro.

“Mamma, perchè non posso uscire fuori a giocare?”

Questa era probabilmente la domanda più gettonata, che fuori nevicasse o splendesse il caldo sole estivo.

Non ricordo cosa mi rispondesse mia madre, ma ricordo il suo sguardo triste e rammaricato, le sue labbra che tentavano, inutilmente, di allargarsi in un sorriso spento e privo di convinzione.

E le urla degli altri bambini che, lontani dalle mura della mia bella prigione, giocavano e si comportavano come solo la loro età può permettergli di fare.

Questa era una delle tante ragioni per cui non sono mai andata all’asilo. Già mi ammalavo spesso restando a casa, figuriamoci uscire! E poi, io stavo bene: avevo i miei giochi, i cartoni mattutini, i miei fratelli e, cosa più rilevante, la mia adorata mamma.

Quando compii sei anni, i miei genitori erano felici come non mai, anche se ancora non ne sapevo il motivo. Lo scoprii mesi dopo, qualche settimana prima dell’inevitabile.

“Puccia, vieni qui.” mi chiamò mia madre, trepidante di attesa e speranzosa.

Quando raggiunsi la sala, mi ritrovai di fronte a un gran guazzabuglio di libri con copertine colorate, quaderni variopinti e una strana borsa rosa, del mio colore preferito. Era davvero strana, notai; mio padre me la fece provare e notai divertita che i manici andavano infilati dentro le braccia, fino alle spalle, e che poi quella strana sacca ricadeva sul mio dorso.

“Mamma, guarda! Sono una tartaruga!” feci divertita, pronunciando il nome degli strani animaletti che tenevamo in soggiorno, dentro una vaschetta piena d’acqua.

Mamma rise, mentre mio padre mi sfilò la cartella e mi guardò serio, come faceva sempre. Non capivo il perchè, ma da che ne ho memoria papà era sempre corrucciato e serio, anche quando me ne stavo zitta o non facevo nulla di male. Quella volta, però, come innumerevoli altre volte, tentò in un primo momento di apparire tranquillo e rilassato.

“Monica, sai che cos’è la scuola?”

Io inclinai la testa e lo guardai incuriosita.

“È qualcosa che si mangia?” chiesi di rimando.

Lui aggrottò le sopracciglia, mentre mamma ridacchiava, tenendosi una mano sulla bocca e cercando di non dar troppo a vedere quanto si stava divertendo.

Risposta sbaglia, dedussi.

“No, lo so! È quell’animale strano che ho visto ieri in tv?”

Un sospiro e una risata più forte.

“No, Moni, è un posto dove vanno i bambini per imparare tante cose e fare amicizia con altri bambini. A te piace imparare, vero?”

In quel mentre mi tornarono alla memoria tutte le volte in cui avevo chiesto spiegazioni e posto domande e, soprattutto, il modo in cui mi avevano risposto papà o altri adulti, come dottori o conoscenti. Mi rammentai, in particolar modo, delle innumerevoli occasioni in cui papà mi aveva costretto ad ascoltare alla televisione tediosi e noiosissimi documentari.

“No, per niente.” risposi franca.

Mio padre alzò gli occhi al cielo e io feci altrettanto, peccato che non ricordo di aver visto nulla di poi tanto interessante.

“Ascoltami bene, settimana prossima inizia la scuola e tu ci andrai.”

Chiuso, fine delle programmazioni.

Almeno, così sperava mio padre, peccato che io fossi di parere contrario.

“Dov’è? Quando ci devo andare? La mamma può venire? E Rex?”

Quelle furono solo alcune delle centinaia di domande che posi, ma non rammento alcuna risposta. Ricordo solo che, qualche tempo dopo, mi ritrovai mano nella mano con mia madre, diretta verso uno strano edificio pieno zeppo di gente, bambini e chiasso, soprattutto chiasso.

Mia mamma afferrò a fatica un cerchietto legato ad un nastro dorato, sopra cui era inciso il mio nome e me lo mise al collo.

“Adesso devo andare, ricordati: fai la brava, non sudare e se ti senti male, dillo alla maestra, capito?”

Io annuii.

La sera prima mi era venuto un febbrone da cavalli e mamma e papà avevano urlato per un sacco di tempo sul fatto che io andassi o meno a scuola. Dato che in quel mentre stavo meglio, mia madre mi concesse di andare, desiderosa di farmi conoscere dagli altri almeno il primo giorno di scuola, così da poter fare amicizia.

Mi ritrovai in un banco enorme, grande almeno tre volte me, e con una sedia talmente alta da non farmi toccare i piedi a terra. Era la scelta migliore, perchè le altre erano troppo basse per me. Vicino a me c’era seduta una bambina della mia stessa età, notai, dai capelli corti e biondi e con uno zaino rosso fuoco.

“Ciao.” dissi.

“Ciao.” rispose.

“Io mi chiamo Monica.”

“Io no.”

La conversazione morì lì.

Io per un po’ continuai a fissarla, ma dato che quella non mi degnava nemmeno di uno sguardo, mi concentrai su quanto stava dicendo una donna. Era alta, truccatissima, coi capelli cortissimi e tinti di biondo grano; la pelle era scura, molto abbronzata, e il completo nero che indossava mi mise subito in soggezione. Sembrava molto severa e, infatti, ci avevo visto giusto.

Quella sarebbe stata una delle mie peggiori nemiche: la maestra di italiano, colei che mi avrebbe sgridato e messo in imbarazzo di fronte a tutta la classe ogni qual volta che non avessi saputo fare correttamente l’analisi logica della frase o che non avessi saputo coniugare entro tre secondi netti i suoi improbabili verbi.

Francamente, tutt’oggi non ho la minima idea di come si faccia.

La ricreazione arrivò come una manna dal cielo e tutti ci precipitammo nell’enorme giardino sul retro.

Tutti i bambini giocavano, parlavano e si rincorrevano, come se si conoscessero da una vita.

Possibile che fossi l’unica a non avere ancora un’amica?

Tentai invano di giocare ad acchiapparella con un gruppetto di due maschi e tre femmine della mia classe, ma dopo cinque minuti in cui io ero l’unica a cui nessuno prestava la benché minima attenzione, se non per prendermi e correre verso la “tana” (uno dei tanti alberelli che crescevano lì vicino), mi stufai e vagai per il prato.

Non mi piaceva, non mi piaceva per niente quel posto.

Mentre pensavo ciò, notai una bambina che mi somigliava molto. Non mi riferisco ai suoi capelli incredibilmente ricci e lunghi (molto più dei miei) o ai suoi occhiali esageratamente grandi e tondi che facevano sembrare il suo viso ancora più paffuto, ma al fatto che anche lei, esattamente come me, era sola. Stava giocando con qualche rametto raccolto da terra, credo, ma non ne ero certa poiché ero ancora troppo distante.

Fortuna volle che all’epoca ci volesse molto impegno per demoralizzarmi, ma ben poco tempo per riprendere il sorriso e la vivacità. Mi avvicinai di corsa a lei e, senza tanti preamboli, mi accucciai lì vicino.

“Ciao, io sono Monica, tu chi sei? Cosa stai facendo?”

Quella posò gli occhi (identici per colore e vivacità ai miei) su di me e subito quelli iniziarono a brillare e un sorriso le si dipinse sul volto.

“Ciao, io mi chiamo Michela. Dò la caccia ai vermi.”

Guardai a terra e notai che, effettivamente, un piccolo salsicciotto rossastro e terroso si muoveva con aria goffa sul ramoscello che Michela teneva in mano.

Risi.

“Com’è buffo!”

Restammo lì, in silenzio per qualche attimo, poi urlammo in perfetta sincronia.

“Ti va di giocare ad acchiapparella?”

Ridemmo e ci mettemmo subito a correre, anche se mamma mi aveva tassativamente proibito di farlo. Quando fummo abbastanza stanche, la campanella suonò e tornammo in classe, notando con gioia che eravamo entrambe nella stessa sezione, la I A.

Inutile dire che rompemmo non poco le scatole, affinché la mia compagna di banco cedesse il suo posto a Michela e, dopo non poche urla e minacce, riuscimmo nel nostro intento.

Per tutto il resto della mattinata parlottammo, indifferenti ai continui richiami della maestra.

“Senti.” mi chiese Michela alla fine delle lezioni “Ti va di essere la mia amica del cuore?”

Io la guardai titubante e incuriosita.

“Che cosa significa?”

“Significa che ci teniamo sempre la mano quando dobbiamo entrare o uscire dall’aula, che giochiamo sempre insieme, che non ci prendiamo mai in giro, che se qualcuno ti prende in giro io lo picchio e poi...” ci rifletté un attimo “Ah, giusto! Che non ci lasciamo mai, mai, mai più e che resteremo per sempre amiche.”

Io sorrisi. Mi sembrava la cosa più bella del mondo e poi ero talmente ingenua. Ero convinta che “per sempre” fosse un tempo estremamente breve.

Il giorno seguente, imparai la prima importante e maledettissima lezione sulla vita. Ovvero, per chi ancora non lo sapesse, “quando ti succede una bella cosa, stai pur certo che l’Universo intero farà di tutto (ma proprio tutto) affinché l’equilibrio si ricrei”.

Tradotto: se sei felice, guardati le spalle, perchè presto ti capiterà una cosa orribile, che ti farà ripiombare al punto di partenza.

Non ci credete?

Allora, provate a indovinare chi venne estratto, tra una classe di ventun bambini, affinché andasse nella I B?

Uno a caso, forza.

Ecco, io, appunto.

Il motivo per cui decisero di spostarmi, mi è tutt’ora ignoto.

Fatto sta che da allora iniziò l’Inferno.

Non guardatemi male, per una volta non sto affatto esagerando. Chi ha letto “Il signore delle mosche” di William Golding, dovrebbe sapere più che bene quanto i bambini possano essere pestiferi e maligni.

Ora, mi rivolgo a quelle persone.

Voi non avete la più pallida idea di quanto quel libro sia lontano dalla realtà. Certo, i protagonisti del romanzo fanno cose terribili, ma mai quanto i miei compagni di scuola. Giorno, dopo giorno, ora, dopo ora, i minuti scorrevano interminabili, per me. Scherzi, battutine e altro erano all’ordine del giorno.

Non entrerò nel dettaglio, non voglio certo traumatizzarvi o fare la figura della martire. Pensate solo che il mio desiderio quotidiano era di passare completamente inosservata e, badate, non è bello quando diventi Mrs. Invisible. Mai. Per nessuno.

L’unica cosa che mi faceva sorridere la mattina, era la consapevolezza che avrei rivisto la mia amica del cuore durante la ricreazione.

La prima volta che la rividi, quasi non ci credetti.

“Perchè sei qui? Siamo in classi diverse, adesso!” ricordo di averle detto e, altrettanto nitidamente, rammento il suo sorriso dolce e birichino.

“E allora? Sei la mia amica del cuore, per sempre.”

Per cinque anni ebbi una marea di migliori amiche, che mi promettevano un legame eterno e che, tempo due secondi, si era già rotto e consumato.

Tra una bronchite e l’altra, arrivai in prima media, con voti eccellenti.

Non era certo merito mio, sia chiaro. Il pagellino di prima elementare era stato una catastrofe, un vero orrore e per forza: con tutte le ore di assenza che avevo accumulato, era già un miracolo che non mi avessero bocciata.

Fu mia madre che si rimboccò le maniche e, ogni pomeriggio, ripeté con me le lezioni, anche cinque o sei volte, finché non capivo.

Mio papà era troppo impegnato col lavoro per badare a me, mentre i miei fratelli... beh, loro svolgevano tutt’altro ruolo. Erano i miei angeli custodi che, non solo minacciavano i bulletti, ma giocavano alla lotta con me, mi permettevano di usare le loro macchinine solitamente “intoccabili” per una furia distruttrice quale ero io e, udite udite, si prestavano persino a giocare con le barbie. Questo era un evento più unico che raro, tuttavia rammenterò sempre con un sorriso il giorno in cui, triste per la giornataccia trascorsa a scuola, mio fratello Michele (deve essere destino che le due persone più importanti della mia vita abbiano lo stesso nome) si sedette sul tappeto vicino a me e afferrò una bambola, chiedendomi.

“Che devo fare?”

In qualche modo, non solo mi fece tornare il buon umore, ma inventammo persino un nuovo gioco, in cui Barbie, per qualche astruso motivo, era la cattiva che voleva dominare il mondo, e i Transformers avevano il compito di fermarla.

Credo che non esista al mondo gioco più bello e spassoso.

Le medie furono tre anni “medi”, per l’appunto.

Cioè che in media non mi prendevano troppo in giro i compagni.

Per tutti quelli che sperano che io e Michela fossimo in classe insieme, beh, spiacente deludervi, ma non andò così.

Ovviamente, questo rafforzò ancora di più la nostra amicizia. Anzi, riuscimmo persino a creare un gruppetto tutto nostro, composto da altre due compagne della mia classe: Michela e Sonila.

Alla faccia di quelli che ci davano delle asociali!

Anche quegli anni, purtroppo, raggiunsero la fine.

Di Sonila non ebbi più notizie, sebbene tentai per alcuni di anni di rimanere in contatto. La chiamavo sempre per le feste e anche d’estate, tentando di invitarla a casa mia, al cinema, a Gardaland... insomma, da qualsiasi parte.

Fu inutile. Ogni tanto mi capita di rivederla per le vie del mio paesino, e nonostante provi un’immensa gioia nel constare che non sia cambiata di una virgola, provo altresì una profonda fitta di dolore, sapendo che non avremo mai più quel legame speciale che ci univa.

Perchè è finita così?

Buona domanda, me lo sto ancora chiedendo. Se qualcuno lo sa, potrebbe farmi uno squillo e spiegarmelo, per cortesia?

Signori miei, la mia conclusione è che a volte le cose vanno in un modo che non vorremmo, senza un motivo preciso. Succede e basta.

Un giorno ridi e scambi promesse di amicizia eterna e quello dopo ti ritrovi con un pugno di mosche, se ti va bene. Perchè, a volte, non ti restano nemmeno le mosche.

Con Michela, quella che conobbi alle medie, per un po’ filò tutto liscio.

Poi, l’anno scorso, qualcosa si ruppe.

Non intendo spiegare nel dettaglio cosa avvenne, perchè non sarebbe giusto divulgare cose che sono nostre o, quanto meno, farlo senza l’approvazione delle protagoniste. Diciamo solo che lei compì il grave errore di ferire l’unica persona al mondo che non avrebbe dovuto sfiorare nemmeno con una margherita.

Da quel giorno, sebbene la diretta interessata l’abbia perdonata, io non ce la feci. Non le rivolgo la parola da, quanto? Sei mesi? Non ricordo bene nemmeno l’ultima volta che l’ho vista. So che abbiamo riso e scherzato, per non far sentire a disagio la mia amica, ma dentro di me sentivo che qualcosa era morto, e, cavoli, se mi dispiaceva.

Non posso dire di essere stata molto corretta anch’io, onestamente. Non le ho mai detto apertamente “Tra noi è finita” o “Non ti voglio più vedere”. Semplicemente, sono sparita.

Puf, come una nuvoletta che avvolge il prestigiatore nel suo ultimo numero.

A mia difesa posso dire di essere una codarda e un’illusa. Già, codarda perchè non oso affrontarla; illusa, perchè in fondo al cuore, spero ancora che tutto questo sia solo un brutto sogno.

Le superiori non sono state così male. I primi due anni li ho vissuti nell’anonimato, circondata da sorrisi falsi e facce di bronzo che solo ora sono riuscita a smascherare. Ma qualcosa di positivo quell’istituto me l’ha portato: due splendide amiche.

Elena è un po’ cocciuta e a volte è davvero insopportabile per come riesce sempre a far passare per spazzatura tutto quello che amo.

Flavia ha le sue stesse qualità, ma in ambiti diversi: riesce spesso a farmi capire quanto gli altri (lei in primis) mi trovino strana e quando è in compagnia del suo ragazzo, apriti cielo! Credo che potrei anche sprofondare in una botola o andare a fuoco, che non se ne accorgerebbe minimamente.

Perchè sono miei amiche, se non abbiamo praticamente nulla in comune?

Innanzitutto, non è assolutamente vero che non abbiamo niente in comune. Tra i miei difetti principali spiccano cocciutaggine, imbranataggine, avere la testa fra le nuvole, non ricordarmi mai nessuna data importante (compleanni, onomastici e altro) e essere sempre, categoricamente e inesorabilmente, in ritardo. Ah già, e poi sono anche troppo sincera e non penso mai alle conseguenze di quello che dico.

Ora, direi che in confronto a loro, sono un demonio!

Ma non è solo quello. Loro sono speciali, sono sincere, anche quando gli altri hanno paura di esserlo, sono leali, in quanto piuttosto che parlarmi alle spalle si staccherebbero la lingua a morsi, e, cosa essenziale, sono semplicemente loro stesse.

Non mi servono altre ragioni per adorarle.

E poi, mi ascoltano sempre, anche quando sparo idiozie o racconto aneddoti che a loro interessano come le cause della guerra di secessione.

Come non citare le amiche che vedo talmente raramente, che mi sembra quasi eccessivo definirle tali: Diletta e suo fratello Filippo (il mio primo amico maschio!) e Jessica. Perdonatemi se non mi vedete spesso ma, dovete credermi, siete sempre nei mei pensieri.

Sono conscia del fatto che molti di voi non leggeranno mai queste mie righe, ma spero comunque che il mio pensiero vi raggiunga.

Infine, ultima, ma non certo per importanza, la mia amica di penna virtuale.

Claudia è, beh, come definirla?

È intelligente, simpatica, pazza da legare, ha i miei stessi interessi, è dolcissima e mi apprezza per quella che sono, tant’è vero che ascolta qualsiasi canzone le suggerisca, anche se non è di suo gusto.

E vive a circa 600 km di distanza da me. Non male, vero?

Devo ammettere che è piuttosto strano il nostro legame: non ci siamo mai viste, non abbiamo la benché minima idea di come sia fatta l’altra, eppure ci vogliamo un bene dell’anima. Davvero, è semplicemente incredibile.

Cara Claudia, non riesco ancora a trovare le parole per definirti, figurati per ringraziarti per l’opportunità che mi hai dato di conoscerti! Grazie, grazie di cuore.

A questo punto, vi starete chiedendo il senso di questo racconto e, soprattutto, perchè mi sono messa a parlare della mia vita.

Non l’ho certo fatto per smanie auto-celebrative, credetemi, la mia vita è quanto di più noioso e prevedibile ci si possa aspettare.

Se non fosse stato per le persone citate fino ad ora.

Ecco, il motivo di questa mia pazza storia, è semplicemente quello di far comprendere alle dirette interessate quanto sia profondamente grata ad ognuna di loro.

Grazie per avermi incontrata, anche se è stata una scelta del destino.

Grazie, per avermi rivolto la parola, non una, ma venti, trenta, mille volte, finché la mia sciocca vergogna si è sciolta e ha ceduto il posto alla vera me: quella bambina birbante e imprevedibile che non chiude mai il becco, anche sotto minaccia di morte.

Grazie, per avermi accompagnata in un tratto, più o meno lungo, della mia vita.

Grazie, per avermi fatto ridere, piangere, arrabbiare, insomma, grazie per avermi fatta sentire viva!

Grazie, per le ore passate al telefono, su msn, tra i banchi di scuola (durante la ricreazione e, soprattutto, durante le tediose ore di lezione), al parco, ovunque, parlando del più e del meno, ma anche del per e del diviso, dei ragazzi, delle nostre paure, oppure, semplicemente, facendo a gara a chi la sparava più grossa (e scusate se vinco sempre io, alla fine!).

Grazie, per avermi consolata quando piangevo come un’ebete per ragioni talmente importanti, che ora non rammento nemmeno.

Grazie, per avermi fatto capire quanto sono pazza, svitata, chiassosa, rompiscatole e chi più ne ha più ne metta, ma che alla fine, dopo avermi presa in giro per una buona mezz’ora, concludete sempre dicendomi che proprio per questo mi volete un bene dell’anima e che non mia abbandonereste mai.

Grazie, per essere state voi stesse, per avermi donato una parte di voi (anche piccina picciò) e per aver accettato me stessa e la mia amicizia.

Grazie, per essere state, essere ancora e credere di continuare a essere per sempre mie amiche.

Perchè la vita non finisce sempre con un lieto fine come nelle favole, ma può essere allietata dalla luce dell’amicizia.

 

 

ANGOLO DELL’AUTRICE:

Non c’è molto da aggiungere a quanto già detto.

I motivi per cui ho scritto ciò, li sapete. Se volete lasciare un commento, per dirmi che sono una demente, un’inguaribile sentimentale o che so io, sarò ben felice di leggerli e rispondervi (quando non lo so, avete letto anche voi che sono una ritardataria, no?).

Per le mie care amiche, ho solo un’ultima cosa da dire: spero che non vi sia dispiaciuto di essere state citate e se qualcosa dovesse avervi infastidito, fatemelo sapere, che provvederò subito a modificare. Inoltre, spero che non mi ammazzerete per tutti complimenti e non che vi ho fatto. In fondo, l’ho fatto a fin di bene.

Ah, se qualcuno se lo chiede, “Puccia” è il mio nomignolo, che solo la mia famiglia può permettersi di usare. Cosa significhi, lo ignoro, forse “cosa carina”, come “cosa insopportabile”. Più probabile la seconda.

Non per ultimo, chiedo scusa alle mie amiche se dovessero notare incongruenze o altro: alcuni miei ricordi sono ben nitidi, altri meno e altri ancora un misto di realtà e finzione. Perciò non prendetevela troppo, un po’ mi sono dovuta arrangiare, ma la sostanza è vera ed è quello che conta.

Un ciao a tutti e un bacio alle mie carissime amiche,

 

Moni =)

 

P.S.: L’idea di scrivere una cosa del genere ce l’avevo da un po’, ma l’illuminazione mi è giunta ascoltando “Stronger (What doesn’t kill you)” della grande Kelly Clarkson. Che ci crediate o no, l’ho ascoltata dalle 3 alle 5 del pomeriggio, finché non ho terminato di scrivere la fanfic. Sono pazza, lo so.

   
 
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