Capitolo 11
“Accettazione”
Che cos’era la felicità?
Se l’era chiesto parecchie volte, ma non aveva mai saputo
trovare una risposta.
La felicità era qualcosa con cui non aveva a che fare da
tanti, troppi anni. Gli unici ricordi capaci di scaldargli il cuore
riguardavano i suoi veri genitori e il bene che gli volevano; ma, per
quanti sforzi avesse fatto per conservare gelosamente quelle memorie
nello scrigno del proprio cuore, anch’esse si erano ormai
ridotte a delle macchie vaghe e confuse, travolte da ondate incessanti
di sofferenza e di stenti, di soprusi e di dispetti.
La matrigna e le sorellastre avevano reso la sua vita un inferno e,
poco per volta, Konatsu si era convinto che le cose dovessero andare
in questo modo, che lui se lo fosse meritato per qualche motivo,
probabilmente per essersi comportato male. D’altronde mamma e
papà se n’erano andati, lo avevano abbandonato e,
se davvero almeno loro gli avevano voluto bene, doveva per forza essere
colpa sua: era lui a non essersi meritato quell’amore.
Pertanto come poteva definirla, se non in negativo? La
felicità, semplicemente, era qualcosa a cui Konatsu non era
destinato.
O almeno di questo era stato fermamente convinto fino a qualche tempo
fa, quando aveva conosciuto la signorina Ukyo. Lei lo aveva strappato
dalla terribile prigione familiare, dalle angherie della matrigna e
dalle cattiverie di Koume e Koeda. Lei gli aveva offerto una nuova
prospettiva di vita, una
possibilità. E poi…
Poi, anche quel mondo era andato in frantumi, senza preavviso. Era
stato tutto così veloce: la visita del padre del signor
Ranma, la reazione sconvolta della signorina Ukyo. Ogni speranza di
felicità si era dissolta, di nuovo.
Tuttavia Konatsu ne aveva avuto un assaggio e il sapore non era
sbiadito, stavolta, ma vivo e pungente: così adesso
rinunciarvi era perfino più doloroso.
“Solo tu. Dipende da te. Pensi veramente di essere disposta a
tutto?”
“Non lo penso. Lo sono.”
“Ebbene, affinché Akane possa tornare in
vita… tu, Ukyo Kuonji, dovrai morire.”
A quelle parole il cuore gli si era spezzato in due.
Quando aveva accettato la proposta della signorina Nabiki,
l’aveva fatto abbandonando ogni esitazione, convinto che non
rimanesse nulla da perdere, senza la minima idea che la situazione
potesse addirittura peggiorare: ora non poteva fare a meno di dirsi
di aver contribuito in prima persona a quel disastro.
Però… Non era di certo sua intenzione, eppure un
pensiero, ormai ricorrente in quei giorni e sicuramente il
più egoistico e arrogante che avesse mai elaborato, che il
cielo avesse pietà di lui per questo, si fece di nuovo
strada. Konatsu, diversamente dal solito, lasciò la sua
mente libera di scandire ogni singola parola.
Non voglio perdere tutto un’altra volta.
“Non lo faccia!” Gridò, scoprendo solo
allora di aver già brandito da diversi secondi il proprio kunai,
l’unica arma che era riuscito a disimpegnare nelle ultime
settimane con lo stipendio guadagnato all’Ucchan, e
avvertendo un inedito sentimento di rabbia scorrere nelle proprie vene.
Ranma non poteva quasi credere ai propri occhi.
“Konatsu…” Si limitò a
mormorare Ucchan, sorpresa almeno quanto lui.
Il kunoichi aveva puntato un pugnale in direzione della vecchia e
assunto la posizione di combattimento, badando nel contempo a fare
scudo alla padroncina con il proprio corpo. “Mi
perdoni… perdonatemi tutti, ma io non posso permetterlo! Chi
vorrà anche solo avvicinarsi alla signorina Ukyo
dovrà passare sul mio cadavere!”
Questa frase lo spiazzò ancora di più, portandolo
quasi a dimenticare le parole precedenti dell’amazzone. Non
ebbe nemmeno il tempo di considerare la reale portata degli ultimi
eventi, che scorse Obaba avvicinarsi ai due, incurante e minacciosa al
tempo stesso.
“Interessante… saresti disposto a tanto, pur
sapendo che potrei prenderti alla lettera?” Con un giro del
bastone, tanto rapido che Ranma stesso fu appena in grado di
intravedere il movimento, la vecchia colpì la mano di
Konatsu, disarmandolo. “Kunoichi di grande talento o no, con
me non avresti alcuna speranza.” Sibilò.
Il legno si spostò ancora, arrestandosi a uno spazio
infinitesimale dal collo del ragazzo, teso come una lama affilata. E
forse altrettanto pericoloso, nelle mani di Obaba.
Il kunoichi però non si mosse di un muscolo, lasciandosi
fissare negli occhi senza distogliere lo sguardo nemmeno per un
momento. Se la vecchia non intendeva fare sul serio, cosa di cui Ranma
non era nemmeno troppo sicuro, non nutriva invece alcun dubbio che
Konatsu non stesse scherzando affatto e che all’occorrenza
sarebbe stato capace perfino di immolarsi.
E gli altri? Nessuno diceva qualcosa? Nabiki? Tofu? Mousse? Si stavano
limitando a fissare la scena, come impietriti. Come lui. Non andava
affatto bene.
La tensione crescente spinse Ranma a scuotersi e a pararsi lui stesso
davanti alla vecchia. Le gambe gli vacillarono appena, ricordandogli la
stanchezza che aveva in corpo, ma provò a non darlo a vedere
esibendo un tono aggressivo.
“Basta, Obaba! Si può sapere che ti passa per la
zucca?! Cosa diamine vorresti fare?” La domanda era meno
articolata di quanto intendesse, ma non era casuale. Non aveva creduto
nemmeno per un istante a quella specie di minaccia di morte rivolta a
Ucchan, ma voleva assolutamente comprendere quale fosse, ora, il nuovo
gioco di quella cariatide pluricentenaria.
La vecchia non s’indispettì, come si aspettava. Al
contrario, abbassò finalmente il bastone e
indietreggiò addirittura di qualche passo.
“Io nulla.” Borbottò, ridacchiando con
un tono che non aveva nulla di divertito. “La scelta
è di Ukyo, solo lei può decidere se salvare
Akane… e pagarne il prezzo.”
Ancora con questa storia? Il fatto stesso che Obaba prospettasse un
modo per salvare Akane, quando fino a cinque minuti prima non scorgeva
alcuna speranza, infondeva a Ranma un nuovo vigore, ma gli
bastò udire la parola ‘prezzo’ per
ricordare il resto e lasciare che un brivido gli percorresse la spina
dorsale.
“Spiegati con parole comprensibili.”
Sibilò.
L’interlocutrice annuì, senza mutare la propria
espressione.
“È per via dell’Akanenichuan.
Vi ho detto che la sorgente ha attirato a sé la tamashii,
ovvero la parte senziente dell’anima di Akane: pertanto,
quando Ukyo si è versata quell’acqua, il liquido
ha fatto da tramite e la tamashii è
ora nel suo corpo.”
“Un… un momento, non capisco.”
S’intromise una nuova voce. Era quella di Nabiki, priva
però della saccenza di qualche minuto prima. Anzi gli parve
che avesse perfino fissato per un attimo Kasumi, prima di proseguire,
ma doveva aver visto male. “Se è come dici,
ciò varrebbe anche per tutte le altre persone che cadranno
nella sorgente. Anzi, quella Kima di cui parlavate poco fa non vi si era già immersa?
Non avevate detto proprio così? E dunque perché a
lei non è successa una cosa simile?”
“Questo lo posso spiegare io.” Fu Mousse a prendere
la parola. “Kima ha usato le sembianze di Akane Tendo prima che la
vera Akane fosse ridotta in fin di vita e bagnata con l’acqua
miracolosa di Jusendo. Non ha fatto uso della trasformazione durante la
battaglia finale, né vedo perché avrebbe dovuto
farlo dopo.”
“Tra l’altro”, puntualizzò
Obaba, “la guida delle Sorgenti Maledette mi ha raccontato al
telefono che la stessa Kima, successivamente alla partenza del consorte
e degli altri, è tornata a Jusenkyo e si è
bagnata di nuovo nella Niannichuan neutralizzando
gli effetti della fonte di Akane. Chiaramente non aveva più
interesse a ottenere quell’aspetto, terminate le
ostilità. Inoltre…”
La vecchia esitò, come imbarazzata. Ranma la
invitò con lo sguardo a proseguire. “Diciamo che
ho… chiesto alla guida di fare una
prova… usare l’acqua della fonte su una
cavia a sua scelta. Lui ha preso un coniglietto che apparteneva a sua
figlia, dopodiché vi ha versato con un mestolo
l’acqua dell’Akanenichuan. Da
quel che mi ha riferito nemmeno un paio d’ore fa, il coniglio
è rimasto un semplice coniglio.”
“L’acqua di quella sorgente è diventata
semplice acqua.” Disse Tofu, più riflettendo a
voce alta che rivolto a qualcuno in particolare.
“Perciò è confermato”,
concluse la vecchia, “adesso l’anima di Akane
dimora nel corpo di Ukyo.”
Nabiki alzò un sopracciglio. “E il riferimento
all’alba? Cosa c’è di speciale in questa
notte?”
“Si tratta di una notte di novilunio. È trascorso
un ciclo lunare esatto dall’utilizzo dell’acqua di
Jusendo, che finora ha preservato il corpo di Akane. La guida mi ha
spiegato che all’alba perderà il suo effetto, e
l’idratazione si arresterà: in quel momento il
corpo diverrà inservibile e l’anima non
avrà più la possibilità, nemmeno
teorica, di farvi ritorno… e perciò, a quel
punto, la sua dimora attuale diventerà definitiva.”
La vecchia tornò a dirigere lo sguardo verso Ucchan,
spingendolo a fare altrettanto.
Konatsu non si era mosso di un millimetro dalla sua posizione, come se
non avesse udito alcuna parola, e probabilmente doveva essere proprio
così. Nei suoi occhi Ranma poteva leggere una determinazione
che una sola volta vi aveva scorto, molto tempo prima, quando il
kunoichi era stato drogato dalla matrigna e dalle sorellastre
affinché combattesse contro di lui al livello estremo del
suo spirito combattivo.
In questo momento, gli parve che fosse altrettanto estraniato dalla
realtà.
“Fammi passare, Konatsu.”
Ukyo pose una mano sulla spalla del ninja, che sussultò,
lasciando cadere la propria maschera e rivelando la consueta
espressione gentile e preoccupata. Senza dare l’impressione
di essersene accorta, lo superò e domandò a
Obaba: “Se all’alba l’anima di Akane
sarà ancora dentro di me… io morirò?
Intendevi dire questo, prima?”
“Signorina Ukyo…” Iniziò
Konatsu.
“Va tutto bene”, lo zittì lei,
accennando un sorriso, “stiamo solo parlando.”
Obaba annuì. “Scommetto che inizialmente non avevi
la minima idea di cosa avvenisse quando tu eri trasformata in Akane,
ciò poiché la sua tamashii prendeva
il sopravvento, facendoti perdere la coscienza di te stessa. Quando ti
bagnavi con l’acqua fredda, rimaneva solo Akane. Ma ti sarai
sicuramente accorta che questo avviene sempre meno, che cominciate a
percepire le vostre presenze a vicenda: ciò
perché le vostre anime sono in conflitto. Perciò,
se al sorgere del sole tu avrai le sue sembianze…
l’anima di Akane non potrà più fare
ritorno nel suo corpo e occuperà definitivamente il tuo. In
poche parole la trasformazione sarà irreversibile,
l’acqua fredda e l’acqua calda non potranno mutare
la situazione. Resterà soltanto lei, mentre tu non potrai
mai più riprendere coscienza. Akane sarà salva,
ma tu…”
La frase non continuò e la sala si riempì di
silenzio.
Tutto ciò che Ranma avvertiva era il battito accelerato del
proprio cuore.
Aveva sempre avuto ragione, il proprio istinto non si era sbagliato.
L’Akane che aveva visto e sentito, con cui aveva parlato, era
la vera Akane, il suo maschiaccio violento. E una maniera per salvarla
esisteva, doveva esistere, eppure… come poteva essere questa l’unica
soluzione? Come si sarebbe potuto chiedere a Ucchan… a
qualunque persona, perfino… perfino al vecchiaccio, un
sacrificio del genere?
Alzò lo sguardo verso di lei, solo per scoprire che lo stava
fissando a sua volta in modo ansioso. Quasi implorante. Non poteva
sbagliarsi, Ucchan stava guardando proprio lui. Come mai? Aveva forse
paura che le avrebbe chiesto di sacrificarsi, lo credeva esaurito fino
a questo punto? No, piuttosto… lei per caso voleva che
glielo chiedesse?
Ucchan sospirò rumorosamente, interrompendo il contatto
visivo, poi chiese alla vecchia: “Se invece
rimarrò me stessa, cosa succederà ad
Akane?”
“In quel caso”, rispose, “sarà
la tua tamashii a
prevalere, una volta per sempre, e nemmeno in questo caso
l’acqua fredda servirà più a qualcosa.
Non c’è una terza scelta.” Obaba scosse
lentamente il capo e scese dal tavolo, inerpicandosi sul suo bastone.
“L’alba è vicina, ma hai ancora,
pressappoco, un paio d’ore di tempo per decidere. Quel che
avevo da dire l’ho detto, adesso conviene a tutti voi
rifletterci sopra. Torno subito.”
Si avviò verso la cucina, a rapidi balzi. Improvvisamente si
arrestò, si voltò e scorse con lo sguardo i
presenti, come alla ricerca di qualcuno. Ranma stava già
facendosi avanti quando, con sua sorpresa, la vecchia chiamò
a sé Kasumi.
Sebbene avesse preannunciato chiaramente il suo attacco, scagliandosi
contro di lui con un affondo in corsa, Genma sembrò non aver
intuito le sue intenzioni fino all’ultimo momento, tanto che
schivò il colpo per un soffio. Soun si girò di
nuovo, le spalle rivolte alla parete posteriore del Nekohanten, accanto
alla porta di servizio, così da potergli almeno chiudere la
via di fuga e incrociare il suo sguardo.
“Te… Tendo! Si può sapere che ti salta
in mente?!” Gridò l’altro, tra
l’incredulo e lo spaventato.
“Te l’ho detto prima, Saotome. Stiamo
combattendo.”
Attaccò ancora con un calcio volante, che questa volta Genma
scansò con maggiore prontezza per poi pararsi di fronte a
lui e tentare una contromossa. Soun si portò indietro con
una capriola e aumentò la distanza, coprendo il fianco.
Genma ridacchiò sgraziatamente. “Suvvia, non hai
cuore… non sono nemmeno nelle condizioni di difendermi,
senza i miei occhiali non vedo un tubo!”
Soun scosse il capo. “La tua miopia non è così acuta.
Ricordo il giorno in cui cominciasti a portare le lenti,
così come ricordo la tua aria tronfia mentre mi spiegavi che
nessun artista marziale avrebbe osato attaccare al massimo delle
proprie forze un avversario che indossava gli occhiali… Una
delle tue prime e innumerevoli ‘tecniche’, no?
Com’è che l’avevi chiamata? Mossa
della pietà della talpa?”
“Ah ah ah! Era andata così?”
Domandò quello stupido, grattandosi il capo.
“Proprio non capisci… non c’è
niente da ridere!” Soun si riportò in avanti,
convogliando rapidamente tutta l’ansia, la preoccupazione e
il dolore che aveva provato nelle ultime ore. Un paio di secondi furono
sufficienti a convergere e rilasciare attorno al proprio corpo una
discreta quantità di aura combattiva. Il pugno che ne
scaturì mancò quel disonorato per una frazione di
secondo, andando invece a spaccare in due parti uno dei numerosi secchi
dell’immondizia.
Il fracasso che ne conseguì confuse per qualche secondo i
suoi sensi. Improvvisamente Soun vide tutto nero, e non si trattava
dello scenario notturno. Avvertiva la frustrazione premere da ogni
viscera del suo corpo, e si sentiva sporco almeno quanto il compagno di
gioventù. Non poteva permettere che tutto finisse
così, doveva perseverare, ripulirsi.
Ma Saotome che fine aveva fatto?
Guardò davanti a lui, poi a sinistra e a destra. Niente.
“Prova qui in alto, Tendo.”
Alzò lo sguardo, per avvistare Genma che planava a
mezz’aria, pronto al contrattacco. Cercò di
elaborare una qualche strategia, prima che gli fosse addosso, ma il
colpo arrivò prima che riuscisse a disporsi diligentemente
in posizione difensiva. Crollò a terra e rotolò
immediatamente su se stesso, cercando di ignorare il dolore, per
ammortizzare lo svantaggio. Recuperò una posizione eretta
nel più breve tempo che gli fosse stato possibile, sperando
di cogliere di sorpresa quel farabutto, ma il nuovo pugno smosse
solamente una manciata d’aria, mentre un paio di costole lo
informarono nuovamente, e con maggiore convinzione, dei danni che aveva
ricevuto.
Strinse i denti e s’impose di concentrarsi. Questa volta
sapeva dove guardare e, infatti, non fu sorpreso di avvistare Saotome
appollaiato come una scimmia sopra il muretto che dava alla strada.
“Certe cose”, disse ad alta voce, non nascondendo
una punta di disgusto, “non cambiano mai.”
“Dovresti saperlo che il combattimento volante è
la specialità della scuola Saotome.” Gli rispose
l’altro, come se fosse stato appena inorgoglito da un
complimento.
“L’unica tua specialità, dal primo
giorno che ricordo, è la codardia.”
Genma bofonchiò, finalmente irritato.
“Anche tu sei rimasto lo stesso di un tempo, quando ti lasci
trascinare dall’ira è fin troppo facile
affrontarti.” Replicò. “Sei tale e quale
a quello sbarbatello di buona famiglia, pieno di sé,
convintissimo che sarebbe diventato il più forte artista
marziale del mondo solo perché, a suo dire, incarnava i
più alti valori di rettitudine,
probità… e altre fesserie che non finivi di
decantare un solo istante. A quell’epoca, i tuoi avversari li
sconfiggevi a forza di sbadigli.”
“Non hai tutti i torti.” Ammise Soun.
“Effettivamente agli inizi ero un po’
ingenuo… poi, però, sono cambiato. Ho smesso di
credere a quelle cose, ho dovuto, dopo averti incontrato.”
“Sembra che tu me ne faccia una colpa. Dovresti ringraziarmi,
ti serviva qualcuno che ti mostrasse come va davvero il mondo. Lo sai a
cosa mi riferisco, no? Niente ideali, nessuna
pietà.”
“Ricordo bene il tuo motto.” In rapida successione,
diverse immagini del passato ripresero vita davanti a Soun.
Sentì su di sé il peso degli allenamenti e dei
digiuni, le immani fatiche affrontate per conquistarsi
l’attenzione dei suoi primi maestri. La superbia che gli
aveva ottenebrato la mente, mentre si accingeva a combattere per la
prima volta contro uno degli altri pretendenti, un ragazzotto dagli
abiti trasandati che non dava affatto l’aria di un grosso
ostacolo. La sorpresa e la frustrazione della prima sconfitta, per mano
di quello stesso straccione. L’indignazione, nella
consapevolezza di essere stato battuto con mezzi poco ortodossi. La
rivalità, la competizione. L’infinità
di scontri e di confronti che ne era seguita.
E poi il lento mutare di quei sentimenti, il loro sfociare, poco a
poco, nel reciproco rispetto, nella mutua considerazione del proprio
rispettivo valore. Nell’amicizia.
No, oggi non era ‘tale e quale a quello
sbarbatello’. Era cambiato, profondamente, e non sempre in
meglio. Se avesse potuto, sarebbe tornato indietro per non fare certe
scelte? Fino a quella notte pensava di no, che nulla potesse valere
ciò che aveva ricevuto, in cambio dell’essere
sceso a qualche compromesso con i valori in cui credeva.
Ma ora…
Un moto di rabbia s’impadronì nuovamente di lui,
facendo vacillare l’autocontrollo che si era imposto. Soun ne
fu subito cosciente, ma assecondò il proprio corpo ed
espanse l’aura, lasciandosi guidare dalla propria
indignazione e decidendo che, per una volta, non si sarebbe preoccupato
delle conseguenze.
Genma era ancora accovacciato nella posizione di prima, con aria
visibilmente scossa. Pallido come uno strofinaccio, sembrava come
paralizzato e impossibilitato alla fuga. Forse finalmente aveva
compreso.
Ma ora è troppo tardi.
Nabiki porse alla sorella anche l’ultima tazza e si
voltò ancora in direzione della porta che dava sul retro,
domandandosi se avessero fatto bene a seguire il consiglio della
vecchia.
“Lasciate pure che si sfoghino.” Aveva detto loro
con aria disinteressata, nonostante il fracasso che avevano appena
sentito provenire dall’esterno. “Quei due devono
chiaramente risolvere delle questioni personali… e le loro
faccende private, adesso, non ci riguardano.” Piuttosto si
era rivolta di nuovo a Kasumi, chiedendole di preparare del
tè per tutti: la notte non era finita e bisognava mantenersi
lucidi, in un momento simile.
Infine aveva additato lei stessa, e per un momento Nabiki credette di
aver contraddetto Cologne di Joketsuzoku almeno una volta di troppo,
negli ultimi minuti, salvo sentirsi poi domandare con fare del tutto
innocuo se potesse dare una mano alla sorella maggiore, mentre la
vecchia tornava nella sala grande con gli altri. “Di
là c’è ancora bisogno di me”,
si era quasi scusata,
“e l’assenza della mia bisnipote si fa sentire.
Chiedere a quell’imbranato di Mousse di preparare del
tè, poi, è del tutto fuori discussione.”
Nabiki l’aveva lasciata fare. Chiaramente Obaba non la voleva
più tra i piedi e, in un certo senso, poteva anche
comprenderla. Ma non per questo era ancora incline a fidarsi delle
ultime rivelazioni.
L’Akane incontrata due volte da Ranma non era altri che Ukyo
trasformata dall’acqua della sorgente di Jusenkyo, e fin qui
bene. Però, nel corpo di Ucchan sotto la trasformazione, a
detta di Obaba, risiedeva l’anima della vera Akane. Se
davvero fosse stato così, in questo momento la sua sorellina
sarebbe stata viva e vegeta, e nella stanza accanto. Le sarebbe bastato
aprire la porta, versare su Ukyo dell’acqua, niente di
più.
“…me li puoi prendere?”
“Come?” Replicò confusa.
Kasumi non alterò minimamente il tono della voce.
“Ti ho chiesto se puoi passarmi i tovaglioli, dovrebbero
essere in una di quelle credenze.” Concluse, indicandole la
direzione.
“Certamente.” Nabiki non seppe nemmeno dire se
avesse davvero parlato, o soltanto pensato tra sé la
risposta. Provò a nascondere il proprio fastidio e si mise
alla ricerca, senza troppa fretta. Anche in casa, si era sempre tenuta
per quanto possibile alla larga dalla cucina, limitando il proprio
contributo a cose semplici come scaldare l’acqua. Forse Obaba
aveva incaricato lei, e non la signora Nodoka, di assistere Kasumi in
cucina semplicemente per farle dispetto.
Tutto sommato, considerò che un po’ di
tè avrebbe fatto piacere pure a lei, anche se avrebbe
preferito qualcosa di più forte. L’adrenalina da
cui si era sentita pervadere fino a pochi minuti prima era un pallido
ricordo e aveva lasciato il posto a un poco di emicrania,
così stava faticando perfino a pensare coerentemente.
Ma dove diamine si erano cacciati quegli stupidi tovaglioli?
Aprì l’ennesimo scomparto, ancora senza successo.
Scostò con malagrazia diversi barattoli di spezie, nella
speranza di vederli uscire allo scoperto, ma, fallito anche questo
tentativo, accennò a sbattere con violenza lo sportello.
Una mano la afferrò per il polso, fermandola.
“Le cose devono andare esattamente come vuoi tu, vero?
È difficile che non sia così. Però,
quando eccezionalmente ciò avviene, non sai più
come affrontare l’ostacolo.”
Non c’era rimprovero, nella voce. E nessuna
ostilità. Eppure, Nabiki si sentì come un ladro
colto in flagrante.
“Kasumi…”
E di colpo tutto assunse una chiarezza disarmante. Cosa le stava
succedendo? Come aveva potuto permettere a se stessa di lasciarsi
dominare dalle emozioni fino a questo punto? Non era lei quella, non la
persona che si era imposta di essere.
La prolungata mancanza di sonno doveva averle giocato davvero un brutto
scherzo, per averle fatto perdere così facilmente la propria
freddezza, la propria lucidità, e ciò ormai da
diverse ore. Questa notte si era comportata in modo più
incosciente di Ranma e Akane messi insieme, e doveva proprio
ringraziare i kami se
Obaba non l’aveva ancora scaraventata dall’altra
parte di Nerima per la sua sfacciataggine…
Nabiki recuperò la propria compostezza e sorrise alla
sorella. “Grazie. Non so cosa mi sia preso.
Dev’essere uno shock, per te, vedermi in questo
stato.”
Kasumi ricambiò il sorriso.
“Non proprio. Sai… mi ricordo un’altra
volta come questa.”
Non si aspettava una risposta simile. Nabiki alzò un
sopracciglio e la invitò, con lo sguardo, a proseguire.
“Fu quando la mamma ci lasciò.” Kasumi
poggiò delicatamente una mano sulla sua spalla.
“Papà non ebbe la forza di darci la triste notizia
e ci raccontò che era dovuta andare in un luogo lontano. Io
avevo capito, ma tu e Akane eravate ancora troppo piccole, o almeno
così pensavo.”
S’irrigidì leggermente, e Kasumi dovette averlo
notato, perché a sua volta accentuò un poco la
stretta.
“Akane si era intestardita ad aspettare il ritorno della
mamma, perfino attendendola fino a sera davanti la porta di casa. E
tu… avevi fatto altrettanto, almeno fin quando, un giorno,
credo che la verità fosse divenuta chiara anche a te. E non
lo sopportasti. Non sopportasti il fatto che la morte di nostra madre
ti fosse stata tenuta nascosta, che ti fosse stata fatta credere una
menzogna. Soffristi, non solo per la perdita, ma anche per tutta la
speranza che avevi riposto inutilmente per tanto tempo. Mi dispiacque
tantissimo, allora, di averti ingannato anch’io, ma non
sapevo come scusarmi… e non ti dissi assolutamente niente, e
ancora oggi non so perdonarmelo... Scusami, sorellina.” Le
ultime parole furono pronunciate con la voce rotta
dall’emozione. Kasumi la abbracciò forte e lei si
lasciò abbracciare, avvertendo il calore della sorella e
qualcos’altro.
Quante altre volte sarebbe stata colta alla sprovvista quella notte?
Dal punto di vista di Nabiki, uno sfogo simile da parte della sorella
maggiore era più inatteso perfino delle parole della
vecchia. Ma sapeva anche cosa Kasumi avesse davvero sottinteso, con
quel discorso. Forse… adesso lei era nella stessa situazione
di allora. Aveva paura di credere in un possibile miracolo, non voleva
illudersi riguardo una persona cara e rimanere delusa di nuovo.
Era così chiaro, ora. Se non aveva ancora varcato la soglia
e bagnato Ukyo con dell’acqua fredda, era solo
perché ne aveva paura. Non fidarsi era più
facile, molto più facile, e le permetteva di mantenere il
controllo della situazione. Ma finalmente comprendeva cosa fosse giusto
e, anche se ciò l’avrebbe resa vulnerabile per la
prima volta dopo tanti anni, decise che avrebbe corso il rischio.
Dopotutto non aveva mai perso una scommessa.
“Va tutto bene.” Disse, ricambiando la stretta di
Kasumi. Poi pensò che fosse ormai il caso di scoprire le
carte. “A proposito, i tovaglioli che mi avevi chiesto di
cercare non sono per caso quelli che stai tenendo in mano? Non ti
facevo così distratta… a meno che tu non sia
più simile a me di quanto credessi.” Due
a zero per te, sorellina. Aggiunse tra sé,
divertita, ripensando all’altra notte.
“Oh cielo.” Kasumi si asciugò una
lacrima e si lasciò sfuggire un lieve sorriso.