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Autore: itsraining    06/07/2012    28 recensioni
— E tu dov’eri, Horan? — dico, col fiato smorzato dai singhiozzi — Dov’eri quando avevo bisogno di te? Quando tutto è andato a puttane? —
Sento le sue braccia stringersi attorno alla mia schiena e mi ritrovo completamente aggrappata al suo petto. Respiro il suo profumo, è così buono, lo detesto. Lo detesto. Lo detesto.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Sam mi lancia una sigaretta, io l’afferro al volo e l’accendo.
Siamo sedute su un marciapiede protetto dalla pioggia, proprio accanto alla caffetteria dello zio di Josh. Il ragazzo ci raggiunge  dopo averci fatto aspettare qualche minuto, in mano ha due cappuccini caldi.   Io prendo il mio e lo accosto al viso in modo che il fumo possa riscaldarmi la faccia, Sam, invece, sorseggia il suo cappuccino senza aspettare che si raffreddi almeno un po’ e lo sputacchia da tutte le parti perché è troppo caldo per mandarlo giù. Josh sta rimettendo a posto le chiavi della caffetteria, le stesse chiavi di cui noi tutti dovremmo ignorare l’esistenza, sotto il posa ombrelli. E’ davvero un luogo stupido dove nascondere delle chiavi di riserva.
Io, Sam e Josh ci intrufoliamo sempre nella caffetteria quando vogliamo bere qualcosa e nessuno ce lo impedisce. Cartelli sparsi un po’ ovunque dicono che quella è un’area video sorvegliata, ma nessuno di noi ci crede davvero. Non c’è comunque da preoccuparsi, lo zio di Josh è troppo pigro per allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci se si mette a controllare centinaia di registrazioni.
—Che ore sono? —  chiede Sam quando ha finito di prendere boccate d’aria gelida come per cercare di rinfrescarsi la bocca ustionate.
Prendo il cellulare dalla tasca dei jeans.
— Quasi le quattro— dico a bassa voce. Mi accorgo solo dopo delle decine di chiamate perse, ma senza neanche controllare di chi siano, metto a posto il telefono.
Siamo soli in quella strada, comprensibile visto l’orario. Il buio della notte pesta ci tiene compagnia insieme alle insegne brillanti dei negozi chiusi. I proprietari, a quanto pare, amano sprecare elettricità. Ogni tanto passa una macchina con ragazzi ubriachi fradici al volante, musica ad alto volume e cose del genere.  Quando un camioncino bianco accosta proprio davanti a noi e delle ragazze mi abiti succinti scendono dal veicolo, capiamo che è ora di andarcene da lì. Nonostante tutto, Josh insiste per rimanere, in effetti riesce a concludere un affare : vende a quelle pazze ubriache un po’ d’erba. Poi è Sam ad insistere e ce la filiamo da lì.
Camminare sotto la pioggia novembrina a tarda notte, per le strade di Mullingar, con due amici idioti non è poi così male. Per lo più barcolliamo e ce ne stiamo in silenzio, è piacevole.
La cosa migliore della pioggia, però, è che farà staccare quei maledetti volantini. I marciapiedi sono praticamente ricoperti di i fogli zuppi e accartocciati dal vento, sarà un sollievo non doverne vedere di integri in giro. Ogni volta che ne incrocio uno che si è salvato alla furia della pioggia, provvedo a stracciarlo con le mie mani, assicurandomi di non fissarlo troppo a lungo prima. Sam sembra disapprovare quel comportamento, perché a lei non dispiacciono quei volantini, a lei non dispiacciono quei ragazzi.
—Li hai eliminati tutti—commenta ad un certo punto, passandosi le mani tra i corti capelli castani e fradici —adesso puoi anche smetterla di cercare superstiti in modo ossessivo—
Scuoto il capo e fisso l’asfalto. Prendo in pieno una pozzanghera e constato silenziosamente che  le mie converse di tela blu, già abbastanza rovinate, sono da buttare.
—Oh no, non smetterla. E’ divertente vederti così su di giri—dice Josh senza avere la premura di soffocare una fragorosa risata. Nel silenzio della notte c’è lui … che ride. Immagino le bestemmie di coloro che abitano nei palazzi circostanti e che stanno cercando di dormire, disturbati da quel baccano —Poi non sopporto di vedere quelle facce in giro. Sembra che mi fissino—allora si allontana da noi e stacca un volantino da un muro prima che possa farlo io. Lo avvicina ai nostri nasi ed inizia a muoverlo di qua e di là per  farci notare che è come se gli occhi di quei cinque ragazzi stampati sulla carta ci stiano seguendo. Continua con il suo ragionamento illogico, ma sono io a non seguirlo. Sono troppo impegnata a fissare Niall e a sentirmi come se un qualcosa di appuntito mi abbia appena lacerato la carne e mi si fosse infilato tra le costole.
—Basta, smettila. E’ assurdo—dico, sull’orlo dell’esasperazione. Gli strappo il volantino di mano. Lancio un’ultima occhiata al ragazzo al centro e ai suoi amici per poi ridurre il foglio di carta in mille pezzi. Subito una sensazione di compiacimento si fa prepotentemente strada nel mio torace. 
—Voi due siete pazzi—dice Sam, che è ancora più esasperata di quanto non sia io —Cosa vi hanno fatto di male quei cinque adoni? Io davvero non lo capisco— 
Josh scoppia in un’altra delle due risate isteriche ed anche io sollevo gli angoli della bocca in un qualcosa che è più simile ad una smorfia che ad un sorriso.
—Cinque adoni? Non credevo che trovassi quell’Horan un adone quando era ancora un ragazzo normale—disse Josh. Stringo i pugni e non riesco a capire il perché.
—Era alquanto sexy anche da sfigato. Ora smettila di fare il geloso, Joshua- ribatte Sam.
Gelosia. Io sento un misto di gelosia e rimpianto crescermi dentro, ma ormai sono abituata a soffocare le sensazioni che non amo provare.  Vedo Josh cingere le spalle di Sam con un braccio e sussurrarle una cosa del tipo —Sexy mai quanto te, Samantha—e mi viene da ridere, perché tutti sanno quanto lui sia completamente cotto di Sam. Quando il ragazzo cerca di abbracciare anche me in quel modo, schivo freddamente la sua presa e lascio cadere in una pozzanghera i brandelli di carta che mi sono rimasti tra le mani. Insieme a quel brandelli, sento scivolare via qualsiasi pensiero negativo. Poi mi getto tra le braccia di Josh.
Per tutto il tempo, barcolliamo a braccetto sotto la pioggia. Per tutto il tempo, non diciamo una parola. Siamo amici che non parlano mai. Forse neanche siamo amici. Bisognerebbe trovare qualcuno in grado di descrivere quello che c’è tra noi, complicità, forse, ma non amicizia.
Josh procura fumo e alcol.
Sam ci fa entrare alle feste e ci rende rispettati a scuola.
Io … non lo so, in realtà. Non so perché non mi hanno ancora scaricata. Di certo non sono utile a nessuno, se non per i compiti di letteratura. E’ una delle poche cose in cui mi impegno davvero, la letteratura, quindi studio per tre. Mi limito a fare questo. Oppure, semplicemente, sono ‘un’attrazione’. Il fatto che Niall Horan sia stato legato a me una volta, incuriosisce molta gente, ma non credo che sia una cosa utile. In realtà, la detesto. Come detesto tutte le persone che mi avvicinano per farmi domande su di lui. Come detesto lui.
—Parker, tutto okay? —mi chiede Sam, fermandosi all’improvviso. Mi accorgo che ho stretto i pugni così forte che le nocche sono diventate bianche. Rilasso e le mani ed annuisco con un timido sorriso sulle labbra. Abbiamo camminato per molto tempo, siamo davanti al viale alberato in cui sono disposte una trentina di villette a schiera, tutte uguali, con un piccolo cortile davanti ed un giardino più grande sul retro. Tra quelle case c’è la mia.
—Grazie per avermi accompagnata—dico ai ragazzi, sciogliendo a fatica la stretta di Josh. Loro sorridono di tutta risposta. Saluto Sam con un bacio sulla guancia, quando sto per darne uno al ragazzo, ecco che lui si gira e mi ritrovo con le labbra incollate alle sue.
—Il solito! —scherza Sam, io do uno schiaffo in pieno viso a Josh e lui scoppia a ridere, poi corro fino alla porta di casa.
Lancio un’occhiata alla villa accanto alla mia e mi accorgo che qualcuno è entrato nel giardino è che ha appeso agli alberi diversi manifesti, volantini, cartelloni, chi più ne ha più ne metta.
Sento la rabbia ribollirmi dentro e le guancie avvampare. Odio le bambine con gli ormoni a mille che continuano a violare quella proprietà privata per spargere in giro inutili segni della loro totale devozione. Una volta, ricordo, minacciai delle ragazze che avevo trovato a vagare per il giardino di casa Horan, dissi loro che se non fossero uscite immediatamente avrei chiamato la polizia. Alla fine andarono via, dopo aver creato un disastro tale a quello che adesso mi si ripresenta davanti agli occhi. Decido di smetterla di fissare le siepi del giardino e di entrare in casa.
Mi accorgo che le luci sono quasi tutte accese, Emma deve essere in casa.
Raccolgo le chiavi dalla borsa ed apro la porta senza far rumore, se mia zia ha cercato di rimanere sveglia ad aspettarmi, probabilmente, è crollata sul divano. In effetti è così.
Emma se ne sta distesa in una posizione innaturale, quasi mi fa pena. Le occhiaie violacee che ha sotto gli occhi indicano preziose ore di sonno perse, io spengo le luci e cerco di non fare rumore mentre salgo al piano di sopra.
Basta il solito scricchiolare del terzo gradino a far sobbalzare Emma da quello che mi era parso essere un sonno profondo.
—Oh mio Dio, Parker! —dice, con gli occhi strabuzzati. La sua voce da appena sveglia risulta tremendamente buffa. La guardo con aria scocciata mentre si stropiccia gli occhi, sbadiglia e si alza, pronta come sempre a farmi la predica —Ero talmente preoccupata per te! Tu non puoi ... —inizia a farfugliare, ma sembra che il sonno abbia la meglio sull’intenzione di sgridarmi. Mi accorgo che ha gli occhi lucidi ma continuo a stare zitta, con la solita espressione strafottente dipinta sul viso. Odio Emma. Odio il fatto che mi aspetti la sera. Odio che non si decida a lasciarmi in pace.
—Sì, d’accordo. Ci vediamo domani mattina—faccio, ma sarebbe più consono dire ‘ci vediamo tra un’ora’. Mi chiudo in camera, mi lascio cadere sul letto e cerco di dormire.
In realtà non ci riesco. Diverse immagini continuano a tornarmi in mente. Respiro forte nel cuscino per strozzare un inevitabile pianto, ma prima di cedere alla lacrime mi calmo e mi dico che va tutto bene. Sorseggio un po’ d’acqua, Emma me la lascia sul comodino ogni sera, mi è d’aiuto quando mi sveglio  urlando nel bel mezzo della notte, col viso imperlato di sudore e le coperte attorcigliate sul pavimento. Accade ogni notte da quando sono morti i miei genitori, è questo il motivo per cui accetto sempre gli inviti fuori orario di Josh e di Sam. Non mi importa se  tutto ciò manda Emma fuori di testa, anzi, è ancora più divertente se lei ci rimane male.
L’acqua non funziona, quindi stringo forte il cuscino e affronto la mia dose di abituali paranoie. Sono come incubi, anche se non sto dormendo. E’ difficile da spiegare.
Nella mia testa si formano delle immagini, sono costretta ad osservare me e la mia famiglia, tutti felici ed intenti a preparare un pranzo tipicamente irlandese. Rivedo Maura che mi cinge le spalle con un braccio e che mi canta antiche ballate, fisso Niall che mi minaccia di picchiarmi e che poi scappa via con la coda tra le gambe, tutto imbarazzato. Poi, come sempre, mi ritrovo in macchina, la sera dell’incidente.

“La luce era talmente abbagliante da farle lacrimare gli occhi. Li chiudeva, ma essa  si insidiava tra le palpebre ed, ancora più brillante, le provocava dolorose fitte alle tempie.
Il buio calava all’improvviso, alternandosi a quei flash dolorosi.
L’oscurità faceva però faceva paura. Era silenziosa, calma.  
La macchia sfrecciava veloce in autostrada, molto più veloce del consentito. Lei teneva le mani sulle orecchie, un po’ per il mal di testa, un po’ perché a breve si sarebbero schiantati e non voleva sentire il solito rumore assordante.  Non serviva e niente, in realtà : l’avrebbe sentito lo stesso.  Sarebbe rimbombato nella sua testa, oramai era un frastuono familiare.

« Papà, per favore, rallenta»  ripeteva tra sé, sapeva che lui non poteva ascoltarla. Lei non era materiale, non era davvero lì. O meglio, c’era, ma la vera lei se ne stava in silenzio, rannicchiata sul sediolino posteriore, senza sapere cosa sarebbe successo . Quando si schiantarono, la Parker reale gridò, per poi lasciare che altri rumori prendessero il sopravvento sui suoi lamenti. 
L’altra Parker, quella che tornava a far visita ogni notte, desiderò svegliarsi. Era così che andavano quegli incubi, lei era costretta a rivivere quegli attimi, prigioniera dei ricordi. Vedeva se stessa, inerme,   prima dell’incidente. Rivedeva i suoi genitori discutere ed il padre premere il piede sull’acceleratore con sempre più insistenza.  Poi, percepiva lo schianto in tutto il suo orrore. Le sembrava persino di sentire il dolore dei lividi e dei  tagli profondi causati dai finestrini in frantumi …”

—Parker, Parker! — la voce di Emma mi riporta alla realtà. Incubo, dovrei essere abituata, ma il mal di testa è persino più forte del solito —Hai gridato così forte, ti ho portato un’aspirina, per le tue fitte— dice, lasciando il pacco con il medicinale sul comodino. Sono così confusa e rintronata da non riuscire a mettere a fuoco il suo viso o qualsiasi altra cosa nella stanza. Ma so che non la voglio tra i piedi.
—Sto bene, Emma. Puoi andare— farfuglio e lei sgattaiola fuori. Mi strofino gli occhi e mi guardo allo specchio, il mio aspetto non è davvero quello di una persona che sta bene.
I capelli sono umidi, un po’ per il sudore, un po’ perché non mi sono preoccupata di asciugarli quando sono tornata a casa qualche ora fa. Almeno credo che sia passata qualche ora, se è così, devo aver dormito per trenta minuti. A suggerirlo sono anche le occhiaie violacee e il fatto che io miei occhi siano decisamente troppo gonfi, tutto ciò, non mi conferisce un’aria troppo sana. Ma io sto bene. Se non fosse per le fitte alla testa, starei bene. Devo afferrare il lavandino per non cadere, alla fine tutto smette di girare. Guardo, ancora, il volto pallido e troppo magro, le labbra di un rosso non naturale. Residui di rossetto resistente all’acqua.
Alla fine prendo tre aspirine insieme per farmi passare il mal di testa, so che non potrò uscire di casa fino a quando tutti i sintomi non saranno svaniti, non voglio rischiare di dovermi tenere agli armadietti per far dire alle persone che sono totalmente fatta.
Non mi va di alimentare le voci e, sinceramente, neanche ci andrei a scuola se ciò non significasse dover passare del tempo con Emma. Rimpiango i tempi in cui andava a lavoro in ufficio invece di lavorare ai suoi stupidi articoli in salotto.
Decido di entrare un’ora dopo, so che la mia adorabile zia non protesterà, anzi, avrà più tempo per prepararmi una sostanziosa colazione.
Quando mi accorgo che il dolore alla testa si sta affievolendo, mi faccio una doccia ed indosso un paio di jeans scoloriti e una t-shirt che l’anno scorso mi stava aderente, ma nel quale, adesso, potrebbero entrare due me.
—Eccoti, finalmente. Credevo non saresti più scesa. Sono andata a prendere delle brioche, ho spremuto qualche arancia e c’è anche una fetta di torta al cioccolato in frigo. Oh, dimenticavo, ti ho anche preparato il pranzo : sandwich al prosciutto o al pollo? Ero indecisa. Puoi portarli entrambi, ovviamente— inizia a blaterare Emma. Io non la degno di uno sguardo, mi avvicino alla cucina e mi verso del caffè. E’ tutto ciò di cui ho bisogno per tenermi sveglia. Non mi preoccupo di ringraziare mia zia, neanche tocco le cose che ha preparato. Afferro la borsa e faccio per uscire di casa senza salutarla.
— E il pranzo? — dice, non mi giro a guardarla, ma sono sicura che in faccia abbia dipinta la solita aria di rassegnazione-disperazione.
—Lo compro a scuola— faccio, poi mi chiudo la porta alle spalle e inizio a camminare più veloce che posso. Non m’importa di averla ferita. Spero di averlo fatto, così smetterà di trattarmi come se fossi la sua amata figlioletta. No, non lo sono. E’ una perfetta sconosciuta per me, come io lo ero per lei fino all’anno scorso, fino a quando i miei genitori non sono morti e lei è stata riconosciuta come mia unica tutrice.
Non capisco perché abbia accettato di prendersi cura di me se mi detesta.
Impiego un quarto d’ora di tempo per raggiungere la scuola a piedi. Gli studenti sono tutti in classe a quest’ora, devo aspettare che suoi la seconda ora per entrare in classe, ma approfitto del tempo che mi rimane per raggiungere l’armadietto e prendere i libri che mi servono per la lezione d’arte. Disegnare è l’unica cosa in cui, forse, sono brava. Quello della signora Collins è pertanto l’unico corso che seguo con piacere. Recupero il mio album da disegno e dei righelli prima di sentir suonare la campana.
— Hey dolcezza— Josh mi stampa un bacio sulla guancia e mi abbraccia da dietro. Io cerco di divincolarmi ma i miei tentativi non portano a nulla di buono.
—Smettila di importunare Parker, non vedi che potrebbe addormentarsi all’in piedi da un momento all’altro? — squittisce Sam divertita.
Io saluto entrambi con un cenno del capo, poi infilo il materiale nella borsa.
—Salterò l’ultima ora, devo andare alla stazione, ho un appuntamento con un tizio che mi ha portato della roba, insomma, devo valutare e decidere se investirci— dice Josh. E’ lui che si occupa di queste cose, io e Sam non vogliamo davvero immischiarci. Se mi importasse davvero, direi a Josh di non andare, ma sono sicura che non mi ascolterebbe.
—Scusate ragazzi, devo andare a lezione— mi congedo da entrambi ed entro in classe proprio insieme alla signora Collins, mi saluta con un sorriso ed io ricambio. Si è sempre battuta per me con gli altri insegnati, ha sempre sostenuto che io sia una dei suoi migliori allievi. Probabilmente è così, ma serve a poco, vista la situazione drammatica dei voti che ho nelle altre materie. Per non parlare della a quanto pare pessima condotta. Mi hanno già parlato di bocciatura, ma al momento questo è l’ultimo dei miei problemi.
—Perché la settimana scorsa non ti ho vista in classe, Parker? — mi chiede la Collins. Io mi sforzo di ricordare. La settimana scorsa sono rimasta fino alle sei di mattina in un pub, con Sam, Josh ed alcuni sconosciuti. Mentre il ragazzo sbrigava un po’ d’affari con i clienti del pub, cercando di vendere più erba possibile, io e Sam eravamo occupate a farci corteggiare da alcuni ventenni ubriachi.
—Una visita medica, professoressa— mento e non sono sicura che lei ci sia cascata, visto che ultimamente ho ‘visite mediche’ praticamente ogni giorno. Evita di fare domande, questo mi basta.
Mi siedo al solito posto, col solito cavalletto, i soliti pennelli.
Quando la Signora Collins inizia a parlare di dipingere noi stessi mi viene in mente che non riuscirò mai a fare un autoritratto. E’ impensabile, soprattutto perché disprezzo l’aspetto malaticcio che ho in questi giorni.
—Dipingere voi stessi : la vostra visione del mondo, la vostra più grande paura, il vostro momento migliore. Non è un lavoro che ha bisogno di molte spiegazioni, è strettamente personale— spiega la donna, leggermente troppo esaltata per i miei gusti. Sono contenta che non si tratti di un auto ritratto, ma, allo stesso tempo,  sono terrorizzata all’idea di mettere su tela ciò che è ben nascosto nella mia mente. Potrei disegnare i fari dell’auto che viene incontro a quella dei miei genitori, i pezzi di vetro che mi lacerano la pelle, il rosso del sangue dappertutto, ma non voglio. Non posso.
Decido di lavorare sul mio momento migliore. E’ difficile ricercarlo negli ultimi due anni, non sono stata protagonista di troppi fatti positivi, quindi scavo più a fondo nella mia testa e mi viene un’idea. Forse, dipingere della mia infanzia sarà ancora più doloroso di dipingere dell’incidente, ma lo faccio comunque.
La mano di Elizabeth Marshall scatta in alto —Quanto tempo abbiamo, signora Collins?
—Tre ore a partire da … mh, adesso— dice la donna mentre fissa il suo orologio da polso.
Sistemo il cavalletto davanti alla finestra, in modo che la luce al neon della stanza non mi dia una visione distorta dei colori, poi preparo questi ultimi, diluendoli e lasciandoli riposare. Schizzo a matita, sulla tela, ciò che ho in mente, ma ne viene fuori sono un’accozzaglia di linee confuse. L’importante è che io riesca a capirmi.
Le prime pennellate sono sempre critiche, ma alla fine riesco a schiarirmi le idee, il risultato mi pare buono : in tre ore di tempo riesco a finire tutto, l’uso dell’ombra è ottimo ed i colori sono miscelati alla perfezione.
Il dipinto mi vede bambina, mentre gioco con Niall nel piccolo bosco sul quale affaccia la grande villa di sua nonna. Ci andavamo spesso quando lui ancora era mio vicino di casa, la signora Horan era un donnina deliziosa, ci preparava sempre i biscotti alla cannella, Niall finiva col mangiarsi anche i miei. Nel dipinto sono su un albero non troppo alto, con le gambe a penzoloni, ho i codini ed una gonna rosa a scacchi, ma non indosso le scarpe. Niall, invece, è seduto sul prato, troppo fifone per arrampicarsi, mi sta chiedendo di scendere. Fu divertente all’epoca prendere in giro Niall perché non era capace di salire sull’albero. Alla fine, ricordo, caddi e mi sbucciai entrambe le ginocchia. Lui, piccolo com’era, tentò di prendermi in braccio e di trascinarmi fino a casa di sua nonna. Tutto finì per il meglio, ritrovammo le nostre scarpe e  potemmo rimpinzarci di biscotti  alla cannella davanti ad un camino acceso, mentre la signora Horan, da brava donna irlandese tradizionalista, ci raccontava storie sulle fate e sui folletti, sul fatto che il bosco ne era pieno zeppo. Dovette incollarci a letto per non permetterci di sgattaiolare ed andare a curiosare in giro di notte. In realtà io capii che nessuno ci avrebbe visto se fossimo usciti dalla finestra, ma Niall, anche in quel caso, fu troppo fifone per darmi corda.
La voce della signora Collins mi riporta bruscamente alla realtà. Mi sento stupida nel pensare che ho davvero lasciato che quei ricordi mi invadessero la mente, li reprimo più che posso, cercando di concentrarmi sulle parole dell’insegnante. Dice che il tempo è scaduto e che è il momento di valutare i lavori. Io cerco di prestare attenzione a quelli dei miei compagni perché non voglio più guardare il mio, mi fa star male.
Elizabeth Marshall ha dipinto un grosso cane nero, con i denti digrignati. La professoressa le dice che l’idea è carina, ma che non apprezza l’effetto annacquato. La Marshall mette su un muso lungo, la sua ostinazione a voler essere perfetta mi fa venir voglia di ridere. Sembra che tutti abbiano disegnato qualcosa che abbia a che fare con degli incubi o con dei brutti ricordi. La Collins sembra essere stupida nel vedere i colori scintillanti del mio disegno, probabilmente io ero l’unica da cui si aspettasse qualcosa di cupo e tetro.
—E’ meraviglioso Parker— dice la donna, aggiustandosi gli occhiali rosa shocking sul naso dritto —Non riesco a capire come tu abbia fatto in sole tre ore. Davvero sorprendente— continua, io non faccio altro che tenere gli occhi fissi sul pavimento sporco di pittura —Ti andrebbe di condividere con la classe informazioni sulla tecnica che hai usato? — chiede speranzosa. Io alzo la testa e fisso i miei compagni, le loro espressioni annoiate, quella invidiosa di Elizabeth, tutto mi suggerisce di restarmene in silenzio. E lo faccio.
Poi guardo il dipinto, fisso Niall, i capelli dalle sfumature verosimili, che ho ricreato con tanta cura. Credo che lui avesse dieci anni in quel momento, sì, io ne avevo nove. Ed eravamo felici, anche il solo infastidirlo fino alla noia poteva rendermi felice. Ma non è più così e non lo sarà mai più.
Sento una sensazione di rabbia crescermi dentro, è incontrollabile. Afferro un pennello sporco di nero e traccio due linee doppie e scure sul dipinto. Il colore troppo annacquato scorre da ogni parte, macchiando la sagoma dell’albero e coprendo quasi completamente sia me che Niall. E’ rovinato e non potrei esserne più felice.
Mi volto a guardare la Collins e lei sta fissando il dipinto, sbalordita. Credo che stia per sfuriare, ma poi respira a fondo, si calma e passa all’alunno successivo. Non dice niente e le sono grata per questo, ma non posso dire lo stesso dei miei compagni, che stanno sussurrando tra loro, ridacchiando, parlando di me.
—Posso uscire? — dico bruscamente ad un tratto, interrompendo la spiegazione della Collins. La donna mi guarda, ancora una volta, senza proferir parola.
Lo sguardo dei miei compagni è così irritante che afferro la borsa ed esco dall’aula, preoccupandomi di sbattere la porta più forte che posso, poi corro nel bagno delle ragazze.

C’è sempre puzza di fumo nel bagno delle ragazze. E di vomito. E di salsa di pomodoro. Quest’ultimo rivoltante odore non sono mai riuscita a spiegarmelo, ma c’è e mi fa girare lo stomaco, il che giustifica la puzza di vomito. Sto impazzendo.
Questa volta c’è anche un ragazzo nel bagno delle ragazze, il che non è poi così strano o, perlomeno, non strano come la salsa di pomodoro.
Sta fumando, ovviamente. Appena si accorge della mia presenza si irrigidisce ed è come se si chiedesse ‘devo filarmela oppure no?’ Vorrei dirgli che ormai nessuno fa più attenzione alla porta del bagno in cui entra, ma mi lascio semplicemente scivolare contro il muro di mattonelle luride e mi ritrovo seduta sul pavimento accanto a lui. Si rilassa. Scommetto che sta pensando ‘potremmo scopare’ e forse lo sto pensando pure io. O forse no, voglio che mi dia la sua sigaretta ed inizio a fissarla. Ho dimenticato il mio pacchetto nell’armadietto e non ho la minima voglia di alzarmi, in più, non sono cerca che ci riuscirei.
Lui si accorge che lo fisso e mi passa la sigaretta, quindi mi accorgo che non è una sigaretta. Ma, ‘fanculo, inizio a fumarla comunque e mi sento subito meglio. Quattro tiri, poi gliela ripasso, non sono una totale incosciente.
—Perché sei qua e non in classe? — mi chiede. Mi rendo conto, guardandolo, che è davvero carino. Ha i capelli rossi e le lentiggini : adorabile.
—Ho fatto un dipinto meraviglioso, alla mia insegnante è piaciuto. Poi la mia mente malata mi ha imposto di rovinarlo con della pittura nera, quindi ho mandato a quel paese tutto e sono uscita sbattendo la porta, facile— dico tutto d’un fiato. E’ strano come per me l’unico modo di sfogarsi sia con perfetti estranei. Non ho paura di parlare con persone che non conosco e che sono più sfigate di me —Tu, invece?
—Volevo solo fumare un po’, odio la matematica— dice, ancora pensieroso sul mio discorso flash. Anch’io odio la matematica, l’ho sempre odiata.
Alla fine decido di liberare la mia mente da ciò che è appena successo. Mi metto a fissare il ragazzo e lui mi guarda di rimando con un sorriso sexy sulle labbra. Alla fine, le mie, di labbra, finiscono per essere incollate alle sue.
Quando le cose si intensificano sento il telefono squillarmi nella tasca, interrompo il bacio per leggere il messaggio. E’ di Emma.
“Tesoro, volevo ricordarti che alle due hai il colloquio con il Dottor Greene. Ti prego di andarci questa volta, Emma xx”
Sono tentata di lanciare il telefono il più lontano possibile, ma lo rimetto in tasca. Il rosso cerca nuovamente le mie labbra, ma io mi allontano —Scusa, devo andare— scatto all’in piedi e mi avvicino alla porta, neanche mi degno di rispondergli quando mi chiede il numero di telefono. 



Fine Capitolo I 


Personaggi : 

Parker - Kaya Scodelario                                            Josh - Logan Lerman

                                        

Sam - Emma Watson                                                     Emma - Amber Heard 
                                                    

Tizio dai capelli rossi - Ed Sheeran 

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Vi prego, vi prego, vi prego. Leggete questa piccola nota infondo. 
Voglio soltanto dire che è la prima FF che scrivo, prima esperienza su efp e sinceramente non so se questa storia può piacere. Vi prego vivamente di lasciare recensioni, se sono negative è anche meglio, così cerco di migliorarmi.  Sapete, sono il tipo di persona che scrive solo per se stessa, non ho idea di quello che la gente può pensare del mio modo alquanto contorto di esprimermi. Un’altra cosa, spero che qualcuno, leggendo, abbia iniziato ad intuire com’è il personaggio di Parker. Fatto sta che lei, con Niall, c’entra qualcosa.
Per qualsiasi domanda mi farebbe molto piacere se mi seguiste su twitter, sono  @heavenhoran_ 

  
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