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Autore: Echoes of a VOice    06/07/2012    1 recensioni
Atto processuale n°71307.
Tribunale del Wizengamot contro Bellatrix Black in Lestrange.
Capi d’accusa: compartecipazione testimoniata al gruppo dei Mangiamorte di Colui-Che-Non-Deve-Essere Nominato; implicazione diretta in omicidi a danno di Babbani e di membri della Comunità Magica; responsabile di aver causato l'infermità mentale, perseguita mediante l'esercizio della Maledizione Cruciatus, degli Auror Frank e Alice Paciock.
Condanna: l’accusa richiede la reclusione a vita ad Azkaban.
Genere: Angst | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bartemius Crouch senior, Bellatrix Lestrange
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Urla, catene e ricordi inaspettati

 
Atto processuale n°71307.
Tribunale del Wizengamot contro Bellatrix Black in Lestrange.
Capi d’accusa: compartecipazione testimoniata al gruppo dei Mangiamorte di Colui-Che-Non-Deve-Essere Nominato; implicazione diretta in omicidi a danno di Babbani e di membri della Comunità Magica; responsabile di aver causato l'infermità mentale, perseguita mediante l'esercizio della Maledizione Cruciatus, degli Auror Frank e Alice Paciock.
Condanna:l’accusa richiede la reclusione a vita ad Azkaban.
 
 Le panche dell'aula del Wizengamot erano un mare di porpora: la fioca luce della stanza gettava un'ombra più scura, una tinta più fosca sulle vesti della giuria.
Era un mare piuttosto agitato: molti membri della giuria erano irrequieti, si muovevano colti da un fremito passando da una panca all'altra per scambiarsi pareri; tutti parlavano tra di loro in modo concitato: alcuni sembravano incerti sul da farsi, altri erano invece palesemente sicuri della decisione che avrebbero fatto da lì a poco. Qualunque altro suono in un tutta l'aula era sovrastato dal loro brusio incessante: sembrava più uno stadio durante l’intervallo di una partita di Quidditch piuttosto che un’aula di tribunale.
Altri tra i presenti, invece, si limitavano a fissare con pacato e freddo distacco -data la circostanza- dei sedili di legno poco più in basso al centro dell'arena, dai quali pendevano pesanti catene d'argento che scintillavano ai movimenti delle fiammelle che illuminavano la stanza.
 « Hai sentito, Alphonse? » domandò una delle giurate lì presenti a un collega sedutole affianco. Frugò come un segugio nella borsa e ne estrasse una copia della Gazzetta del Profeta: in prima pagina campeggiava l’immagine di una casa messa sottosopra, sovrastata dal titolo a caratteri cubitali. « Ecco, quella casa nel Sussex di cui tutti parlano questa mattina. Dicono che li abbiano trovati dilaniati, torturati, i proprietari. La casa è stata rivoltata come un calzino: guarda, sembra sia passato un uragano o qualcosa di peggio » sospirò la donna, scuotendo il capo da destra a sinistra. « E dire che erano Babbani...cosa ne potevano sapere? »
Il collega alzò lo sguardo dal quotidiano: stava pensando a quante notizie come quelle si erano susseguite negli ultimi mesi e a quante altre simili sarebbero ancora apparse sui giornali. « Già, Briseide. Hai ragione. Cosa ne potevano sapere? »
 
Qualche panca più in alto, un'altra conversazione aveva attirato l’attenzione di molti. « Dovessi essere io a giudicarli… ah! Altro che Dissennatori, altro che gettare via la chiave! ». Le parole, pronunciate con foga, risuonarono fragorosamente in tutta l’aula. Chi le aveva pronunciate sembrava un antico oratore molto infervorato. « Non li farei vivere neanche un secondo di più, quant'è vero Merlino! » esclamò costui, uno tra i giurati più anziani. Stava intrattenendo un comizio improvvisato, volto a far sì che tutti votassero per la condanna. « Se non avessi la certezza di essere sbattuto e rinchiuso definitivamente ad Azkaban se lo facessi, non ci penserei due volte a farli fuori una volta per tutte! »
Si potevano udire parole di sconcerto, di paura, d'angoscia, e parole che esprimevano odio, rabbia, irrazionalità che, in quel momento, parevano essere persino giustificate. Quello che, invece, non poteva trovare alcuna giustificazione erano gli orrori all’ordine del giorno: rimbalzavano di giornale in giornale per finire, nell’aula del Wizengamot, sulla bocca di tutti i giurati.
E poi, tra le parole gettate come un amo tra la folla, vi era il silenzio apatico e, in quel contesto, contrastante di chi meditava sulla decisione che sarebbe stato chiamato a prendere e di chi non aveva voglia nemmeno di parlare, pensando ai racconti inenarrabili che avrebbe dovuto udire da lì a poco.
Davvero poco.
 
Tutto a un tratto, le porte dell'aula si aprirono e una corrente d'aria gelida investì le fiaccole, che si estinsero in volute di fumo evanescenti.
Stava per accadere.
Sembrava di essere in un teatro, nei momenti che precedono l’inizio di uno spettacolo: si spengono le luci in sala, il brusio del pubblico si fa più sommesso e il sipario inizia ad aprirsi, dispiegando le proprie cortine di velluto.
Anche quello che il Wizengamot si stava preparando ad assistere, del resto, era una sorta di spettacolo. Gli ingredienti c’erano tutti. Nonostante tutto, però, stava per avere inizio una rappresentazione di orrori e crudeltà, recitata su di un palco che avrebbe intrappolato l’attrice che vi sarebbe salita a momenti. A quest’ultima non sarebbero spettati gli applausi del pubblico in visibilio, ma soltanto il giudizio di una giuria sconvolta e desiderosa di una giustizia.
Una giustizia, quella del Wizengamot, che sembrava avesse tutta l’aria di vendetta.
«Expecto Patronum!»
Qualcuno, tra i meno allarmati, al quale la procedura era ormai tristemente nota, evocò a gran voce il proprio Patronus a difesa dei giurati: l'atmosfera nella stanza, infatti, si era fatta insolitamente fredda e tagliente; tutta l’aula era stata pervasa da un gelo quasi palpabile, come se un velo di ghiaccio avesse avvolto tutti i presenti. Alcuni tra i più sensibili avvertirono che la propria felicità, la loro positività e le loro speranze, tutto ciò che di più bello possedessero nel cuore, erano state spazzate via proprio come il fuoco delle torce che prima li illuminava.
Al centro del sotterraneo, più cupo e tetro del solito, si fecero strada tre figure. Due di queste erano poco più che viventi, un residuo di vita che forse non può essere definita tale: fluttuavano sopra il pavimento di pietra fredda, a pochi centimetri da terra, le avide fauci e le vuote cavità orbitali celate da un cappuccio nero impalpabile, intessuto nel fumo. Entrambi trascinavano verso la sedia una donna - la prima tra coloro che quel giorno sarebbero stati processati -, il cui aspetto era ben nascosto dal buio calato poco prima. Ciò che di più strano vi era in quella lugubre processione era che quei due esseri – tutti i giurati capirono che doveva trattarsi di Dissennatori, le tanto famigerate guardie di Azkaban – emettevano un lamento cupo, un rantolo soffocato e disperato: erano desiderosi di poter infliggere la loro fatale condanna alla prigioniera, famelici più di un predatore vicino ad agguantare il suo bottino, ma per il momento erano impossibilitati a farlo. Qualcosa li tratteneva, ma la loro insofferenza e la loro voracità erano palesi.
A un tratto, però, le due guardie spettrali arrestarono il loro incedere fluttuante: qualcosa, infatti, sembrava impedire loro di proseguire. Si guardarono intorno, smarrite. Erano state istruite a seguire precisi comandi, e il doversi fermare davanti ad un ostacolo non era uno di quelli.
Ciò che andò a sbarrare loro il cammino era una barriera, composta di una decina di Patronus, che era stata creata subito dopo il loro arrivo nell’aula. Una schiera di animali argentei, avvolti da un alone luminoso, si era posta a guardia del luogo dove la prigioniera sarebbe stata di lì a poco condotta, per far sì che le due guardie spettrali non si avvicinassero. I Dissennatori, infatti, non fanno distinzione tra chi è loro nemico e chi, invece, cerca di evitarli: chiunque si venga a trovare sul loro cammino diventa come carne da macello, una potenziale preda, un serbatoio di ricordi felici cui attingere. Coloro che erano più vicini alla zona d’azione dei Patronus non risentivano degli effetti funerei e destabilizzanti dei Dissennatori: proprio per questo fu uno tra costoro che, con un gesto ampio della bacchetta, fece retrocedere gli spettri e li spedì fuori dalla sala. La prigioniera, naturalmente, era tenuta sotto controllo, le bacchette di una cinquantina di guardie-maghi puntate tutte su di lei: con una criminale del suo calibro, la sicurezza non era mai troppa.
La prigioniera, infine, fu affidata a due guardie umane che la deposero sulla sedia: subito, con un tintinnio, le catene si animarono e si chiusero sui polsi, immobilizzandola.
L'imputata iniziò allora ad urlare e a dimenarsi, come un cane al guinzaglio che cerca di liberarsi dalla presa del padrone, e scalciava con tutta la sua forza, tanto che fu necessario far apparire altre catene perché le immobilizzassero le caviglie.
Qualcuno cercò di Silenziarla, stizzito dalle urla furenti della donna, ma il regolamento del Wizengamot era preciso a riguardo: un articolo prevedeva che, in ogni caso, era nei diritti di ciascun imputato parlare, urlare, blaterare persino, senza che gli fosse imposto alcun limite.

La sala, piombata in un silenzio assoluto ad eccezione delle sfuriate isteriche della prigioniera, aveva assunto un’atmosfera spettrale per via della presenza dei bagliori luminescenti emanati dai Patronus. Tuttavia, anche questi furono allontanati dal centro della sala, visto che la loro presenza non era più necessaria.
Nessuno parlava, così che ognuno poteva sentire con esattezza il respiro del proprio vicino; tutti cercavano di intravedere nella penombra la prigioniera, trattenendo il fiato ogni qual volta parte del suo viso era investita dalla luce lattescente dei Patroni.
La prigioniera, le mani e le caviglie incatenate al suo torno di prigionia, se ne stava lì: immobile, fissa, imperturbabile come se quella situazione non la riguardasse e come se al suo posto, su quella sedia, ci fosse qualcun altro. E probabilmente, qualcun altro vi era davvero: la prigioniera, con la testa, era da tutt’altra parte.
Pensava al fatto che, molto presto, il suo Signore sarebbe stato abbandonato da tutti.
Tutti. Ma lei no.
Perché lei era Bellatrix Black, una Toujours Pur, fedelissima Mangiamorte al servizio di Lord Voldemort.
Era proprio lei, quella stessa Bellatrix Black Lestrange che, in trappola con le spalle al muro, come la più misera dei Babbani, sedeva ora impassibile davanti al suo destino a tinte funebri.
 
Quando le fiaccole furono riaccese, e tutti gli occhi dei giurati si rivolsero come lo sguardo di un unico individuo al centro dello spazio sotto di loro, una voce echeggiò in tutta l'aula dopo aver pronunciato un vibrante Sonorus.
« Bellatrix Black! » annunciò quindi il giudice del Wizengamot, tale Mr. Bartemius Crouch Senior. La sua figura spiccava dall’alto delle panche sopra suoi colleghi giurati perché, nel mare di tuniche color porpora, la sua era l'unica a essere nera; quell’uomo ricordava un vecchio ceppo di legno annerito dagli anni e dal sole nel bel mezzo di un campo di rossi papaveri: fuori luogo, benché li sovrastasse.
«Bellatrix Black!» ripeté nuovamente, poiché quest'ultima continuava imperterrita a fissare un punto imprecisato tra chi avrebbe stabilito la sua sorte, senza perciò prestare ascolto al suo nome che era chiamato.
Barty Crouch strinse le mani attorno alla propria bacchetta in un gesto di stizza e, prima che la furia avesse il sopravvento su di lui, fece un cenno d'intesa a una delle guardie che, con un tocco di bacchetta, colpì le catene della sedia. La Black iniziò di nuovo a dimenarsi, il corpo attraversato da un'improvvisa scarica elettrica.
« Bellatrix Black! » ripeté Crouch per la terza volta.
« Oh, vedo che il mio nome non ti è sconosciuto, tesoro! Bravo, hai fatto i compitini a dovere, caro Barty! Come ogni bravo bimbo che si rispetti dovrebbe fare... così come ogni bravo figlio dovrebbe fare! » proruppe Bellatrix con la sua vocina tagliente e sarcastica, ripresasi dalla scarica che l’aveva appena attraversata. Dopo una breve pausa, che riservò tutta a sfidare il giudice con lo sguardo senza però non riservandogli un sorriso sornione, ritornò all'attacco: « Forse non è quello che tuo figlio ha fatto, vero? Ha fatto arrabbiare tanto tanto paparuccio, sì, poverino! E' diventato proprio un cattivone, il piccolo Barty Junior ».
La stanza risuonò della gelida risata di Bellatrix, che si elevò fino al soffitto rimbombando sulle pareti della stanza: ma si spense subito perché Crouch la colpì con uno Schiantesimo. Questa pratica non era nella prassi ministeriale, ma il giudice decise che si sarebbe assunto la responsabilità del proprio gesto, confidando nella comprensione dei suoi superiori date le circostanze.
« Oh, caro Barty! Che male... fai piano! » fece la Black raddrizzandosi sullo schienale con una smorfia che tradiva il suo sarcasmo: l’incantesimo l’aveva colpita alla spalla e le fece cozzare la nuca contro lo schienale della sedia.
Crouch la fissò con rancore e disprezzo dall'alto della sua postazione, seppur compiaciuto della sua ottima mira e, dopo quel cedimento incitato da ciò che la strega aveva detto, iniziò a leggere i capi d'accusa. Solo in seguito sarebbe passato a formulare le domande vere e proprie dell’interrogatorio.
« Bellatrix Black, si ritiene lei responsabile della tortura e dell'uccisione di quattro Babbani, trovati morti nella loro proprietà nel Sussex? »
« Ah, ah… Aspetta, fammi ricordare » rispose con un'aria di sufficienza. « Ecco, sì, ora è tutto più chiaro. Non era poi nemmeno una così bella tenuta, a dire il vero, sapete, cari giurati? D'altronde... erano solo le quattro mura di luridi, sudici e indegni Babbani! »
Le urla si levarono dalle panche della giuria, che s’indignò alle offese pronunciate dalla Mangiamorte. Questa invece, per tutta risposta, si esibì ancora una volta in quella sua sciocca ma inquietante risatina, guardando tutti con occhi dilatati e invasati.
Crocuh, il viso contorto in una smorfia di rabbia e disappunto, levò la bacchetta verso il soffitto producendo una pioggia di scintille rosse per ristabilire l'ordine e il silenzio. Certe volte, pensava, sarebbe stato meglio incatenare anche alcuni tra i giurati più movimentati: in quelle condizioni, sarebbe stato difficile portare a termine il processo.
« Black, si ritiene lei altresì responsabile dell'utilizzo a scopo intimidatorio e vessatorio della Maledizione Cruciatus per torturare gli Auror Frank e Alice Paciock, inducendoli allo stato d’infermità mentale? ».
Nell'aula i giurati trattennero il respiro quasi contemporaneamente: alcune tra le donne più sensibili si portarono le mani alla bocca in segno di sgomento, gli uomini invece, dal canto loro, si limitarono a ricomporsi sul proprio sedile come se questo li avrebbe aiutati a seguire meglio la vicenda.
Tutta la loro attenzione era focalizzata sulla scena che si parava loro davanti e i loro sguardi si spostavano intrepidi da Crouch alla Mangiamorte, pronti a captare qualsiasi parola che sarebbe uscita dalla bocca di quest’ultima. La Black, però, si limitava a sorridere e, con i suoi occhi grandi circondati da due aloni violacei, percorreva tutta la giuria come se volesse deridere i suoi giustizieri uno a uno.
Il processo si era trasformato, senza accordo alcuno, in un gioco di sguardi ironici e diffamatori che nessuno accennava a voler terminare.
Infine, fu la voce di Bellatrix a interrompere il silenzio.
« Poverino, quel Frank... così giovane! E Alice, oh sì... Sì sì, erano due Auror proprio validi. Peccato che abbiano fatto una fine così dolorosa! Dicono che siano leggermente tocchi, al momento! » esclamò sogghignando come se stesse raccontando una barzelletta piuttosto divertente. « Per non parlare del loro piccolo pargolo. Lui, almeno, l’abbiamo risparmiato ».
« Non starò qui a raccontarti tutti i dettagli, però, Bartuccio adorato » riprese la donna cambiando discorso. « Ma sai, potrei farteli vedere. Così, anche i nostri cari amici che sono con noi quest’oggi potranno farsi un’idea di quanto io sia pazza, come tutti dicono, ». Bellatrix fece una pausa. Sembrava scegliesse le proprie parole con estrema cura, come se si fosse preparato un discorso, come il copione di una macabra commedia. Tuttavia, il suo spettacolo non era ancora terminato e, infatti, continuò dicendo: « Sono molto generosa, d’altronde. Non come Colui al quale appartengo, ma quasi ».
La Mangiamorte si picchiettò la fronte con un dito, un gesto che Crouch riconobbe immediatamente. Lì per lì costui rimase sconcertato, indeciso sul da farsi. A che gioco stava giocando la Black? Di quando in quando, infatti, un criminale incallito come quella Mangiamorte si offriva volontario per mostrare a una giuria i propri ricordi, proprio quelli che avrebbero potuto condannarla seduta stante al Bacio del Dissennatore? Era un'occasione da non perdere, dopotutto: probabilmente la Black era fuori di sé, e prima si sarebbe agito approfittando dell’occasione, meglio sarebbe stato.
«Bene, Black. Molto bene, vedo che cominci a collaborare: forse non sei del tutto pazza come ti credevo. Oppure cambierò idea, che dici? »
Mentre diceva questo, Crouch fece apparire al centro della sala, davanti alla Mangiamorte, un piedistallo sul quale poggiava un antico bacile di pietra: sembrava ripieno di una sostanza viscosa, traslucida che rifletteva la luce danzante delle fiaccole. In pochi secondi il giudice raggiunse quella postazione e, stando in piedi davanti alla Black, lo sguardo dei due che non tradiva i pensieri del proprietario, risfoderò la bacchetta e la puntò a una delle tempie di Bellatrix: ne fuoriuscì un filo di fumo nero che sembrava avesse vita propria.
Non era un ricordo qualunque, come tutti gli altri. Un ricordo, infatti, è' luminoso, argentato, mentre quello di Bellatrix era scuro e fumoso: era il ricordo di un'anima lacerata dalla colpa e macchiata dall'omicidio, insozzata dall'odio e dal risentimento, sporcata inevitabilmente da un male inestirpabile.
Quando Crouch lasciò cadere il ricordo nel Pensatoio - con una smorfia di disgusto al solo pensiero che vi si sarebbe dovuto immergere -, la sostanza liquida al suo interno si tinse di nero e s’increspò minacciosamente, la superficie invece iniziò a ribollire. Non sarebbe stato per nulla piacevole condividere quella terribile esperienza.
Era una memoria, quella, che raccontava dolore, crudeltà, pazzia; era l’ombra di un ricordo malvagio contaminato da un neo di efferatezza inestinguibile.
Nelle bolle simili al catrame che si ergevano dal Pensatoio si poteva percepire tutto l’odio di cui il ricordo di Bellatrix era pregno. Era odio del peggior tipo, di quello che scorre sotto pelle, che palpita e si fa sentire prepotente, che si espande irruento nell'animo come un morbo incurabile che distrugge ciò cui va incontro, senza pietà.
 
Questo era il ricordo di Bellatrix Black: il rimasuglio di un’anima che, non ancora lacerata per arrendersi a se stessa, riversava tutti i propri orridi sentimenti e li trasformava in immagini concrete. Era tutto questo ciò che pian piano emerse vorticando dalla superficie del Pensatoio: una pozza colma del vivo ricordo di una cruda atrocità, eppure svuotata da qualsiasi buona e pacifica sensazione.
Quando Barty Crouch si sporse oltre il bordo del bacile, ebbe l’impressione di affacciarsi sull’inferno: al suo interno, infatti, regnavano nient’altro che dolore, odio e crudeltà.


Spazio dell'Autore - NdA
Permettetemi di dirmi che parte di questa storia è già raccontata da J. K. Rowling, in Harry Potter e il Calice di Fuoco. Non vorrei che questo capitolo sembri troppo simile al processo già descritto nel libro, ma come vedrete nel prossimo capitolo la storia si discosterà dal processo vero e proprio (lo si capisce già alla fine di questo capitolo). Diciamo che, per correttezza e chiarezza, è giusto dire che questo processo si svolge prima di quello descritto dalla Rowling.
Leggete, per favore, e ditemi se questo espediente ha senso e se questo capitolo vi è piaciuto.
A presto!

Manuel aka Echoes.


   
 
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