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Autore: Alaska__    06/07/2012    7 recensioni
Quante volte sentiamo parlare di morte?
Quante volte sentiamo parlare della morte di alcuni giovani?
Il mondo è ingiusto, il mondo è crudele.
E toglierà tutto anche alla protagonista di questa storia.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Uccisa dall'uomo nero

 

La vita può essere rovinata in un istante. Un solo istante in cui tutto il male di questo mondo ti si spalanca davanti agli occhi. Non c'è un perché, succede e basta. Spesso, però, mi sono trovata a chiedermi perché tutto ciò fosse successo a me. Perché io, un semplice puntino in un grande foglio qual è il mondo? Cos'ho fatto in tutta la mia vita per meritarmi tutto questo? Ho pianto fino a svuotarmi i dotti lacrimali, mentre mi ponevo queste domande. Domande senza risposta, nessuno poteva darmi una spiegazione logica. Semplicemente, il mio corpo aveva deciso di essere debole, così, la mia vita è andata a farsi friggere.

Iniziò tutto pochi anni fa. Ero ancora piccola, quasi bambina, a ben pensarci. Ma i bambini non devono vivere la loro vita senza preoccupazioni e pensieri? Un bambino deve piangere perché si è sbucciato le ginocchia, non perché le sue cellule si rifiutano di lavorare come si deve.

Ero ad una festa quando mi sentii male. Precisamente, la mia festa di compleanno. Volevo festeggiare a casa, con le mie amiche. Avrei scartato i regali, alcuni sarebbero stati belli, altri brutti. Tutti mi avrebbero cantato la famosa canzoncina “Tanti auguri a te” e io avrei abbassato il volto, rossa di vergogna e imbarazzata. Avrei soffiato sulle candeline poste sulla torta e, sicuramente, il mio papà, per accenderle, si sarebbe quasi bruciato il dito con la fiamma dell'accendino. Io sarei scoppiata a ridere nel vederlo trattenersi dal dire parolacce davanti a tante bambine.

Non risi e non scartai i regali quel giorno. Mentre ero in piedi a parlare, la testa aveva iniziato a girarmi e vedevo il paesaggio scorrere davanti ai miei occhi. D'un tratto il bicchiere di coca-cola che tenevo in mano cadde al suolo, rovesciando il suo contenuto. Caddi anche io, senza coscienza. Davanti a me c'erano solo ombre.

Quando mi risvegliai la prima cosa che mi colpì fu il bianco accecante che c'era. Ero circondata dal bianco, come se fossi in una nuvola. Sentivo qualcosa che mi entrava nelle narici e qualcos'altro che pungeva il mio braccio. Nelle condizioni in cui mi trovavo, il dolorino che sentivo mi sembrava enorme. Volevo staccarlo e sentirmi meglio. Volevo correre via da tutto quel bianco e tornare dalle mie amiche, alla mia festa di compleanno. Cercavo mentalmente di convincermi che era solo un sogno, un incubo per la precisione. Di lì a pochi minuti mi sarei svegliata, ma non alzata perché volevo aspettare la mia mamma, che sarebbe  venuta in camera mia. Mi avrebbe dato un affettuoso bacio sulla fronte e mi avrebbe fatto gli auguri, con la sua voce calda e dolce.

Invece, la voce che sentii poco dopo era dura, maschile e inespressiva.

«Tumore» disse con tono piatto la voce maschile. Una semplice parola che racchiudeva una disgrazia. Tumore, o meglio, come lo definì l'oncologo R.A. Willis: “Una massa abnorme di tessuto che cresce in eccesso e in modo scoordinato rispetto ai tessuti normali, e persiste in questo stato dopo la cessazione degli stimoli che hanno indotto il processo”.

Quindi, nel mio corpo c'era una massa abnorme di tessuto. Perché si era formata? Io non avevo fatto nulla di male. Ho sempre vissuto una vita sana ed equilibrata. Ero solo una bambina, un esserino quasi insignificante, se vogliamo metterla così.

Ricordo che quando la voce maschile - che apparteneva ad un dottore alto e magro, con i capelli grigi- disse cosa mi stava succedendo, la mia mamma si irrigidì e poi scoppiò a piangere, portandosi le mani al volto.

«Perché la mia bambina? Perché proprio lei?», diceva, e la sua voce era accompagnata da sonori singhiozzi. Era quello che mi chiedevo anche io.

Iniziai subito la cura. “Chemioterapia”, così l'avevano chiamata i medici. Era un nome che mi dava strane emozioni. Sentivo che quella cura dal nome strano era una specie di supereroe. Un po' come Superman. Mi poteva salvare da quella “cosa” chi mi mangiava via la vita. La chiamavo “cosa” perché non riuscivo neanche a dire cosa avevo. “Tumore”, per me, era una parola paurosa e mi immaginavo quella “massa di tessuto abnorme” come l'uomo nero, quello che i miei genitori mi nominavano spesso quando ero piccola.

«Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do? Lo daremo all'Uomo Nero che lo tiene un anno intero», recita la famosa Ninna Nanna. A me, invece, l'Uomo Nero mi tenne per più di un anno intero. Tanti anni passati in un ospedale in cui si respirava aria di morto ogni volta che mettevi piede in corridoio. Era un tanfo insopportabile.

Ora, a distanza di anni da quando caddi alla mia festa, sono sdraiata su questo letto bianco ad aspettare la fine dei miei giorni. Sono cambiata tanto da quando ho scoperto di essere malata. La mia pelle ha assunto una sfumatura bluastra e sono pelata. Il mio Superman non è riuscito a salvarmi. Anzi, per far sì che mi facesse restare in vita, ho perso tutti i miei lunghi capelli neri. Sento un moto d'avversione verso i medici e verso la chemioterapia, ma so che l'unica con cui dovrei essere arrabbiata sono io.

Manca poco, lo sento. Potrebbe succedere domani, dopodomani o settimana prossima, ma so che il giorno in cui chiuderò gli occhi per sempre è vicino. La mia vita è durata poco, evidentemente era destino che io morissi giovane. Invidio chi ha una vita più felice della mia.

La mia anima vuole vivere, ma il mio corpo no. Ora l'unica cosa che mi rimane è aspettare che arrivi il momento. Il momento in cui mi addormenterò e non mi sveglierò più.

 

***
Madre. 

La guardo mentre è qua, agonizzante. Respira a fatica e ha gli occhi chiusi. Sto stringendo delicatamente la sua mano, ho paura di farle male. È così fragile e così... malata. Ho vissuto questi ultimi anni con la speranza che mia figlia, la mia unica figlia, potesse guarire e tornare alla vita. Del resto non è questo che desidera una madre per la propria bambina?

Apre lentamente i suoi grandi occhi azzurri e si gira a guardarmi. Mi fa un sorriso stanco, ma sincero.

«Promettimi una cosa» sussurra debolmente. Io annuisco senza forze, ho un groppo in gola e non riesco a parlare. «Promettimi che tu e papà sarete felici anche se io non ci sarò più».

Le stringo la mano un po' più forte, mentre sento le lacrime che premono per uscirmi. Guardo mi figlia. Dei suoi capelli neri, i suoi bellissimi capelli neri che ha ereditato dal padre, non c'è più traccia. I suoi occhi sono spenti, ma riesco ad intravedere qualcosa in essi. Tristezza? Paura?

Annuisco quasi impercettibilmente e le dico con un filo di voce:« Te lo prometto».

Sento qualcuno che si avvicina. È mio marito. Stringe la mano libera della nostra bambina, il frutto del nostro amore.

«Ciao, mamma. Ciao, papà. Vi ho voluto davvero bene...».

I suoi occhi si chiudono. Vorrei poter fare qualcosa, vorrei riaprirglieli. Rimango immobile, come se da un momento all'altro lei si risvegliasse e mi dicesse:« Mamma, cos'è quella faccia? Sono qui e sono viva e vegeta, sii felice!»

La sua mano si fa ancora più debole, rimane senza vita. Le lacrime rigano il mio volto, copiose. La mia bambina è morta.

   
 
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