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Autore: Knightmare    07/07/2012    1 recensioni
mio primo racconto, con un piccolo omaggio, che forse nessuno coglierà, ad una serie tv da me amata. spero che qualcuno lo legga ^^
Genere: Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve,
quello che leggerai non vuole essere un raccapricciante racconto dell’orrore con l’intendo di creare disgusto nel lettore,quindi se stavi cercando un racconto con sangue e sbudellamenti, cerca altrove. Questo  vuole essere un mio esperimento,puro sfogo “creativo”,non ha lo scopo di incutere timore o ansia tanto quanto non ne abbia di creare divertimento oppure noia. Il mio è l’intento di mettere per iscritto una sensazione,provata nella vita credo un po’ da tutti e parecchie volte,una sensazione che non definirei negativa o “brutta” ,anzi la trovo al pari di sentimenti quali gioia,felicità,amore,sensazioni e sentimenti che l’uomo cerca per un senso di appagamento. Il motivo di andare a vedere un film horror è proprio questo: risvegliare un’emozione vecchia come il mondo,sentire i brividi lungo la schiena,i peli che si rizzano sulla pelle come se un gelido vento l’avesse accarezzata. La paura del buio,dell’ignoto,di quello che non si conosce;la paura,misto di terrore e curiosità,l’abbandono della razionalità verso il più profondo senso animalesco,l’autoconservazione,l’egoismo, l’incapacità di contrattaccare con le proprie effimere forze qualcosa di infinitamente grande e potente,soffocante,distruttivo,implacabile,inumano,sconosciuto. È l’idea di ignoto stessa che non possiamo completamente spiegare a parole perché ognuno ha una sua immagine nella testa,ma che riconduce sempre alla curiosità di scoprire cosa è realmente quella cosa a noi sconosciuta che fa battere il cuore,sudare le mani e incute un timore reverenziale nei suoi confronti. Se questo racconto farà insorgere delle sensazioni riconducibili a quello che si prova,anche in minima parte,quando si ha paura allora ne sarò più che soddisfatto,se poi provocherà fastidio nel leggerlo o insofferenza mi scuso in anticipo, ma avrà comunque provocato delle reazioni(reputo l’insofferenza un sentimento),perciò…buona lettura.
Poggiò il piede sulla strada aggrappandosi allo sportello della macchina per uscire;  32 anni,  6 settimane,    4 giorni,  9 ore e 2 minuti, 1 metro e 82 di altezza,  biondo,  viso allungato, indossava un completo da  576,99 dollari, gomma alla nicotina tra i denti. Si guardò intorno, portando la mano verso il taschino destro da dove tirò fuori un paio di occhiali da vista che subito inforcò, rendendo più nitido quello che aveva di fronte. Occhi azzurri, leggermente miope da entrambi,2/10 dal destro e 1.5/10 dal sinistro, ora incorniciati da una montatura sottile in oro, portata al visto da due mani piccole e curate. Sulla mano sinistra si notava a metri di distanza il grande anello in oro giallo sull’indice, messo spesso in bella mostra; sulla mano destra invece era evidente una cicatrice, che partiva dal palmo appena sotto il pollice e percorreva la parte superiore della mano, fino in corrispondenza perpendicolare all’anulare,  che si affrettò a nascondere mettendo la mano in tasca. Trasse un profondo respiro e subito mostrò sorridendo i 29 denti, avendo perso due molari nell’arcata superiore e un premolare sinistro in quella inferiore, a causa di carie causate dal fumo di sigaretta, vizio a cui cerca di dire addio da 6 anni, 3 settimane, 15 giorni e 72 minuti, per ora senza successo. Ad ogni minimo accenno di stress porta alla bocca dalle 5 alle 12 sigarette una dopo l’altra, promettendo ad un dio superiore che quella che sta fumando è l’ultima, e sempre smentendo la sua promessa ne porta alla bocca un’altra. Nato in una ridente cittadina dell’Ohio, decise di rimanere col padre, quando la madre gli chiese di scappare con lei 15 anni, 2 settimane, 1 giorno e 3 ore addietro, non potendo sopportare le angherie di un marito alcolizzato, legato a gente non molto per bene, sposato perché rimasta incinta di quel figlio tanto amato, ma che non ricambiava il suo affetto, preferendo i regali costosi del padre all’amore della madre.
Percorrendo la lunga strada, le scarpe producevano un fastidioso scricchiolio quando incontravano le foglie secche cadute dagli alberi, disposti in fila ai lati del marciapiede. 271 passi più in là trovò un’insegna, “La taverna dei tassi” ,il posto in cui alle 09.30 ci sarebbe dovuto essere lo scambio; guardingo si accertò del luogo dalla grande vetrata sul fianco destro della porta, poi com’era venuto così si dileguò. Risalì in macchina e percorse 15km e 22 metri, scese di nuovo dalla macchina lasciando gli occhiali sul cruscotto, chiuse lo sportello e si avviò verso la porta. Piuttosto vecchia ma comunque stabile, risaliva alla fine della prima guerra mondiale, in betulla, infissi in ottone e maniglia di vetro, ormai opaco e usurato dal tempo. Appena si entrava l’odore pungente di ammoniaca misto a muffa  riempiva il naso , i polmoni, poi risaliva in bocca e gli occhi si inumidivano, ma dopo averli sbattuti più volte e aver tossito si recuperava la lucidità,fatta traballare come se uno schiaffo ti avesse colpito in pieno volto. Alla reception c’era una signora anziana,circa sulla settantina, occhi luminosi e un sorriso stampato in volto, addolcito da un cappellino color lillà. Anche Johan le sorrise, sempre coi suoi 29 denti e sempre con la sua gomma alla nicotina stretta tra i denti. Arrivato di fronte al bancone, chiese se fosse stata disponibile una stanza singola, e prontamente la dolce vecchina, annuendo, si girò per afferrare una chiave. Dopo averla posta sul bancone, chiese quanti giorni gradisse restare, ricevendo come risposta un “probabilmente mi basteranno due notti”, quindi sbrigò i convenevoli per la documentazione. Salite le 14 scale che portavano al primo piano, e compiuti 19 passi si ritrovò sul ciglio della porta della sua stanza. Sbagliato il verso con cui aprire la porta fece quindi due giri verso sinistra, tirò via la chiave, girata la maniglia e spinta la porta verso l’interno della camera si meravigliò. La stanza non era certo lussuosa, anzi era molto umile, ma sembrava molto curata e pulita, molto più di quanto non si aspettasse in un posto dimenticato da dio come quello.  Il televisore, posto su un mobiletto di legno, dovrà essere stato degli anni ’70 ma sembrava in buone condizioni; non si accertò però del suo funzionamento,in quanto stanco per il lungo viaggio, toltosi la camicia e adagiata di fianco al letto, sulla spalliera dell’unica sedia della stanza, vi poggiò una valigetta di pelle nera, col manico in acciaio, ricoperto anch’esso in pelle. Sfilò l’orologio d’oro, subito dopo essersi accertato dell’orario, le 12.03 e 20 secondi, e adagiatolo sulla valigetta  poté finalmente gettarsi  di peso sul letto, non avendo la forza nemmeno di avere fame. Si ridestò 8 ore, 32 minuti e 25 secondi dopo, ancora assonnato e poco lucido. Si rinfilò la giacca e rimise al polso l’orologio,quindi scese le scale e notò la signora della reception intenta a lucidare energicamente l’argenteria del salottino dove ipotetici clienti avrebbero potuto aspettare che la loro stanza fosse disponibile. Avvicinandosi alla vecchietta si scambiarono un “buonasera”, sorridendo entrambi. A 2 metri dalla signora notò il colore acceso dei suoi capelli, un rosso acceso che nonostante l’età potesse far sembrare causato da una tintura chimica, erano troppo naturali, o innaturali, dipende poi dai punti di vista, da non sembrare tinti. Rimasto in silenzio per qualche secondo, rimasto sorpreso dalla scoperta, si riebbe e le chiese se nei dintorni vi fosse un bar aperto. La signora sempre continuando a sorridere si affrettò ad andare verso la porta per spiegargli la strada che avrebbe dovuto percorrere, una lunga via che passava tra casette di uno o due piani, sempre diritto fino ad un bivio dove avrebbe dovuto svoltare a sinistra e continuando per qualche decina di metri l’avrebbe trovato alla sua destra. Dopo averla ringraziata si incamminò con passo lento, volendosi godere l’aria fresca.
A 20 anni decise di ritirarsi dalla facoltà di economia , allettato dall’offerta del padre di lavorare presso la sua azienda, purtroppo si ritrovò presto disoccupato dal momento che il padre aveva fatto indebitare così tanto la compagnia  che dovette ipotecare ogni minima risorsa finanziaria a sua disposizione, con come unico risultato quello di perdere tutto. A  10 anni, 9 settimane, 6 giorni e 13 ore prima risultava l’ultima volta che padre e figlio si erano parlati, e nessuno dei due sembrava interessato a riprendere i contatti con l’altro.  Johan era diventato un ragazzo modello, una fidanzata, un buon lavoro, una bella casa, almeno all’apparenza. Aveva ereditato il vizio del bere, andava a prostitute, e il suo lavoro era una copertura per quello che faceva davvero,  il contrabbandiere, lavoro redditizio e che gli permetteva di mantenere comunque un certo stile di vita. La sua fidanzata era una brava ragazza, 3 anni più giovane di lui, gentile e permissiva, ma di certo non aveva idea di ciò che faceva Johan. 13 ore, 7 minuti e 2 secondi prima della passeggiatina di Johan però, ha trovato una lettera nel cestino, in cui si spiegava nei minimi particolari il lavoro che avrebbe dovuto sbrigare. Fatte alcune telefonate, e accertatasi dei suoi sospetti, l’ingenua ragazza aprì gli occhi su chi era realmente Johan, lasciando solo una lettera sul letto matrimoniale della loro stanza in cui spiegava le sue ragioni e in cui chiedeva chiarimenti, “altrimenti non mi vedrai mai più”.
Incamminatosi da 7 minuti e 15 secondi si ritrovò di fronte al limite della strada illuminata, proseguendo per altri 3 metri si sarebbe inoltrato in un’avvolgente buio senza fondo.  Non aveva paura del buio, ma non era felicissimo di camminare da solo in un luogo così nero, perché era nero nel vero senso della parola, sembrava quasi che si potesse toccare, sembrava che quell’oscurità avesse una consistenza e che chi vi fosse entrato sarebbe stato avvolto da un manto nero da cui non ne sarebbe più uscito. Scacciate queste stupide idee dalla testa, iniziò a percorrere quel tratto non illuminato, aumentando senza nemmeno accorgersene la velocità del passo che aveva avuto fino ad ora.  Già in lontananza si vedeva un lampione che sprigionava una fioca luce che cercava di farsi spazio tra quell’inquietante color notte che l’avvolgeva. Johan si rincuorò vedendola e iniziò a camminare ancora più velocemente, come se la notte l’avrebbe inghiottito se fosse rimasto troppo tempo in quell’oscurità. Il lato più tetro era quello che si poteva udire, o meglio ciò che non si poteva, essendoci il silenzio più profondo, un silenzio terso di malinconia, quasi singhiozzante, il silenzio di un cimitero, pieno di commozione, lacrime, rimpianti e affetti perduti per sempre, un silenzio inumano, demoniaco, un silenzio di paura, un silenzio di follia, un silenzio che inghiotte tutto e non lascia spazio a chiacchiere, risate, sussurri, urla, pianti, singhiozzi. Un silenzio innaturale, da non sembrare di questo mondo, arrivato dritto dall’inferno, no, dritto dal nulla, da un luogo dove non esiste suono, colore o immagine, dove non esistono sogni o idee, delusioni o speranze, il luogo in cui il nulla governa sovrano.  La fronte di Johan iniziava a imperlarsi di sudore freddo e il respiro iniziava a farsi pesante, rumoroso, come se l’ossigeno nell’aria fosse rarefatto, i polmoni compressi e l’aria che vi entra non fosse mai abbastanza, e la stanchezza iniziava a farsi sentire, non riusciva più a mantenere il passo, la strada sembrava infinita, la luce irraggiungibile, le gambe pesanti, il tempo trascorso, nonostante fossero passati 10 minuti e 23 secondi, ore, un incubo ad occhi aperti, con la strada che si faceva sempre più stretta fino a diventare larga poco più di tre metri dai cinque di partenza, in un punto si arrivava a 2 metri e 32 centimetri. Arrivato a metà strada non ce la faceva più, le gambe stavano cedendo e la milza gli doleva, le vene pulsavano martellandogli la testa, iniziava a provare vertigini e il respiro era affannoso. Avrebbe voluto fermarsi a riprendere fiato ma si decise di continuare fino alla fioca luce, non intendeva rimanere un secondo più del necessario immerso in quelle tenebre. Riprese a camminare con passo più lento e respirare a pieni polmoni per riprendere aria, massaggiandosi la parte dello stomaco dolente. Si sentiva come se avesse corso per chilometri, la paura per quel posto aveva liberato quantità elevate di adrenalina e ora si ritrovava stanco, i sensi in stato d’allerta per ogni minimo cambiamento dell’ambiente circostante e con immagini che gli balenavano nella testa una dopo l’altra, una più spaventosa e macabra dell’altra, quando si accorse di provare un certo fastidio, non sapeva bene di cosa si trattava, eppure lo infastidiva parecchio. Cercando di concentrarsi per recuperare un po’ di sangue freddo si accorse che sentiva una specie di ticchettio, non come quello di un orologio, era più pesante, distante ma si distingueva. Sul momento pensò di starlo solo immaginando, forse erano solo le pulsazioni del cuore che pompava sangue alla testa.  Ma sì, chi vuoi che possa essere a quest’ora in una stradina tanto desolata, e poi da dove sarebbe sbucato? Nonostante si fosse convinto che fosse solo la sua immaginazione iniziava a distinguere chiaramente quel suono di passi, sembravano veloci e leggeri, forse di un bambino, di un anziano, o di una ragazzina, si poneva domande su chi fosse e se ci fosse davvero. Ora vedeva distintamente la luce del lampione, e sorrise, coi suoi 29 denti, madido di sudore, sfinito, ma felice. La sua attenzione tornò subito a quei maledetti passettini, un rumore quasi impercettibile, ma che lui distingueva con precisione, un sordo tonfo, leggero,di un piede, che calpesta l’asfalto consumato, seguito da un altro, e un altro ancora, in un susseguirsi ordinato, e senza fine, con ritmo incessante e continuo, perfettamente cadenzato.  La luce si faceva sempre più vicina, i passi, sempre più nitidi nella sua mente,  incalzavano e il dubbio diventava certezza, e la certezza diventava curiosità, curiosità di scoprire chi fosse quella persona che lo stava seguendo per quella stradina dimenticata da Dio. Avrebbe voluto girarsi per controllare chi fosse, ma sapeva che, anche se si fosse voltato, non avrebbe distinto una ragazzina da un vecchio o da un cassonetto per i rifiuti. Pensava a che trucco usare, fingere una scarpa slacciata, fermarsi per riposare un po’,volgere lo sguardo per un solo istante e cercare di carpire qualche immagine. L’ultima l’aveva scartata a priori, se fosse stato un bambino sarebbe morto di paura, così come per un vecchietto, facendo scattare la testa come un indemoniato e magari con una faccia spettrale per lo stato in cui si trovava, sudato com’era. Non poteva poi escludere con sicurezza che fosse un uomo ben piazzato, e dei problemi con un energumeno non erano certamente graditi in un posto così desolato. 48 passi più in là, l’iniziale curiosità divenne una sensazione di fastidio. Mentre chi si trovava dietro di lui sapeva benissimo chi avesse d’avanti a sé, non si poteva dire lo stesso per Johan, costretto a camminare, potendo solo ascoltare i passi dell’altra persona. E quella curiosità mista a fastidio, col passare dei minuti, cominciava a renderlo nervoso, trasformandosi, ingrandendosi sempre di più, prima una semplice antipatia per quel ticchettio ritmico, poi un’avversione sempre più grande,  un disgusto, un malessere, un odio enorme, per quei passettini corti e veloci, come il battito d’ali d’un colibrì, un infisso rotto che sbatte a causa del vento, il tintinnare dell’acqua del rubinetto che perde, un respiro soffocato di un uomo a corto d’aria, strangolato, che cerca di divincolarsi con tutte le forze dalla morte ormai a pochi passi; sì, i passi della morte stessa, silenziosi e inesorabili, che ti seguono ovunque tu vada, e ti raggiungono se solo osi fermarti  a riprender fiato. 167 metri e 45 centimetri, poi con la luce a sua disposizione avrebbe fatto chiarezza su chi possedesse quei tanto odiati passettini , ansioso di conoscere chi potesse recargli tanto disturbo e repulsione, che fosse stato bambino o vecchio, uomo o donna, umano o animale, non avrebbe fatto differenza, il suo odio non sarebbe mai stato saziato, qualsiasi fosse stata la scoperta. 34 metri e 22 centimetri, l’odio si trasformava, diventava qualcosa di diverso, il gelo percorreva la sua schiena, un senso di disagio gli dava la nausea, era come se una spada di ghiaccio l’avesse passato da parte a parte, dalla terza costola dietro la schiena, fin dentro, passando per il cuore, e fuoriuscendo dal petto. Quella sensazione gli tolse buona parte del fiato, ma non riuscì a riprendersi che un’altra spada, stavolta di fuoco, gli trapassava lo stomaco, partendo da sinistra, per tutto l’intestino, fermandosi tra fegato e polmoni, arroventata e facendo crepitare la carne dall’interno. Trattenne a stento un conato di vomito, stramazzando quasi a terra per il senso di vertigini provocatogli da quella sensazione così profonda e macabra. Si sentiva osservato, nudo, alla completa mercé di quello sguardo, privo di qualsivoglia difesa, fisica e mentale, senz’armi contro un enorme lupo, dai denti aguzzi e occhi neri, profondi, scrutatori, ipnotici, infinitamente vuoti e privi di compassione, pieni di malinconia e odio. Si trascinò fino a quella luce che ormai gli pareva solo un sogno, ormai credeva di essere impazzito al punto che quella che vedeva come un bagliore intorno alle tenebre, fosse solo frutto della sua disperazione, ma si riebbe quando si accertò coi suoi occhi che quella luce era reale. Gocce di sudore grondavano grosse come chicchi di grandine dal volto pallido e smorto, occhi incavati nelle orbite e lingua penzoloni. Non aveva più alcuna voglia di continuare quella farsa, a rischio di sembrare un demone in terra si sarebbe girato e guardato negli occhi quell’altrettanto demoniaco essere giungere dall’ombra verso la luce. Si fermò, trasse un respiro, la testa scattò come una molla rotta, gli occhi sgranati in direzione del buio, rilucenti del riflesso conferito dal lampione, vuoti e pieni di disgusto, infossati in una smorfia di odio a 29 denti, che costituiva il volto stesso, mentre gocce di metallo caldo colavano lungo il viso, di un nero luminoso. Tutto ciò mentre il corpo rimaneva impassibile, se non per la gabbia toracica e i profondi respiri che risuonavano in rantoli smorzati. E lì, davanti al suo sguardo, pietrificato, terrificante, aspettava, ansioso, quel maledetto incubo, che gli sembrava durasse da giorni. Dall’ombra, dal vuoto silenzio, rotto solo dalla luce e dal ronzio dell’elettricità, appariva, ai suoi occhi, un’immagine sfocata. Socchiuse gli occhi per mettere a fuoco, ma non gli pareva un’immagine familiare, allora stette lì qualche istante, senza prendere o soffiare aria dai polmoni, sempre con quegli occhi socchiusi, non facendo nient’altro che rendere l’immagine ancora più deforme. Non si capacitava di cosa potesse essere, ma la sorpresa fu grande quando capì di cosa si trattava, lasciandolo semplicemente inerme e senza pensieri che fino a quel momento avevano infestato la sua testa con immagini, parole, supposizioni, quello che aveva davanti lo lasciò semplicemente basito. E quello che aspettava di scoprire da così tanto era niente, il nulla. Non c’era stata anima viva dietro di lui, nessun piede che calpestava l’asfalto, nessun bambino che lo seguiva. Rimase in apnea per 10 secondi e 25 centesimi, non capendo quello che stava succedendo. Eppure lui pensava di aver sentito qualcosa, non poteva essersi immaginato tutto, lui credeva che qualcuno lo stesse seguendo, anzi, lui sapeva che qualcuno lo stava seguendo, lì, ci DOVEVA essere un qualcosa, un qualcuno, quei passi pensava, sapeva che erano reali quanto non lo fossero un muro di pietra o il terreno su cui poggiavano i suoi piedi. E aspettò, aspettò per 57 lunghi secondi, per lui interminabili, mentre le vene pulsavano forti nella testa e iniziava a sorgere un’emicrania, sempre più stranito e confuso. I 29 denti poi comparirono sul suo volto lasciando spazio a un enorme sorriso, misto di incredulità e sollievo; una risatina forzata veniva abbozzata leggermente. Traendo un respiro profondo per espellere l’aria trattenuta e riprendere fiato, mentre una lacrima gli accarezzava il volto, scendendo veloce dall’occhio sinistro fino al mento sottile. Ritornato in sé non volle nemmeno farsi più domande, voltando le spalle alla stradina percorsa nel buio e rincuorandosi di avere solo una fervida immaginazione, quando con la coda dell’occhio, sulla destra non notò una figura piccola e veloce, seguita da un tonfo tremendo. A quel rumore non poté far altro che emettere un grido di spavento, di un’acutezza tanto elevata quanto breve. Il cuore riprese a battere all’impazzata, mentre volgeva lo sguardo con lentezza macchinosa  verso la figura intravista. Essendosi resoconto di cosa si trattava, non riuscì a trattenere imprecazioni a voce bassa, mentre si avvicinava a cosa aveva causato quel trambusto. Era un micetto bianco con delle macchiette arancioni e nere sul dorso e una tendente al giallo sull’orecchia destra. Zoppicava dalla zampetta posteriore destra e si notava,nonostante la sua mole piuttosto piccola, che era piuttosto malandato ed avanti con l’età per essere un gatto. Con sguardo feroce e passo lento e silenzioso Johan distava 48 centimetri dall’animale, quando partì un calcio così forte da lanciare il gattino a 6 metri 10 centimetri di distanza, facendolo ribaltare 2 volte. Il povero gatto strillò più forte che poté, poi raccolse le forze e in meno di un istante era in piedi e zoppicante correva diritto. “Gatto della malora”, bofonchiando, e riprendendo di nuovo fiato. A questo punto sapeva che di lì a poco avrebbe trovato quel benedetto pub, e, se ne avesse avuto l’occasione, si sarebbe fatto dare uno strappo all’albergo da qualcuno, non avrebbe voluto più rimettere piede in una stradina del genere. Percorse 215 metri esatti ritrovandosi al bivio, sinistra in discesa e destra in salita. Stava per imboccare la sinistra senza pensarci due volte, ormai voleva solo sbronzarsi fino a non sentire più la stanchezza, quando la sua attenzione fu catturata da una giovane ragazza, seduta sul ciglio della strada, abbracciando le gambe,col viso dolcemente poggiato sulle ginocchia, e a farla risaltare nella penombra, lo scarlatto dei suoi capelli, crespi e accarezzati leggermente dal fresco venticello a cui solo ora Johan faceva attenzione. Non doveva avere più di vent’anni, ma Johan aveva l’aveva già squadrata come fosse stata una donna adulta, nonostante non lo fosse, e nonostante Johan avesse una ragazza, o meglio avesse avuto, dal momento che nonostante lui non lo sapesse, la sua amata principessa era scappata dal castello, essendo venuta a conoscenza che il suo principe azzurro altri non era che un mostruoso orco. La giovane ragazza stava fissando il suo gatto bere con gusto una scodella di latte, con uno sguardo rilassato e divertito. “Ehi, ciao!” esordì, mostrando i 29 denti in un sorriso. La ragazzina esitò un istante prima di rivolgere uno sguardo cupo verso Johan, che raggelò e ritrasse subito il sorriso. “E’ tuo quel gattino?”, ma non ebbe risposta, quando si accorse che quello era lo stramaledetto gatto di prima, che lasciata da parte la scodella, iniziava a guardare Johan, e prima tirandosi leggermente più dietro, rizzando il pelo, inarcò la schiena, emise un fischio soffocato e subito si nascose tra le gambe della padroncina. Nascose subito la smorfia di sfida e odio nei confronti del gatto quando si ricordò della presenza della giovane, e riprendendo a sorridere, chiese se il pub che stava cercando si trovasse oltre quel bivio. Lo sguardo cupo della ragazza non si riaddolcì, ma fece un singolo cenno con la testa per annuire. Johan ringraziò e prese subito a camminare, senza voltarsi per 20 metri, e quando lo fece osservò la ragazza,  intenta di nuovo a fissare il micetto, che gustava il suo latte. Girò il pomello della porta in senso orario, udì il suono di uno scatto e varcò l’uscio. Fu investito da forte urla, risate, parole che gli arrivavano sconnesse, miste ad un odore di fritto e fumo di sigaretta, pungente all’inizio, ma più piacevole dopo ogni respiro. Era un odore familiare, di vita, in un certo senso rassicurante dopo la precedente esperienza. Riprese subito a sorridere spontaneamente, come se un bambino si fosse svegliato da un brutto incubo, ritrovandosi in una stanza piena di giochi e caramelle. Prese posto al lato del bancone, mentre con la sinistra prendeva un fazzoletto di stoffa per asciugare il sudore della fronte. Ordinò una porzione di anelli di cipolla fritti e due birre ghiacciate, poi un bicchierino di vodka, un’altra birra e alette di pollo. Mangiava e beveva di gusto, affamato e assetato, o più che altro tanto confuso da voler riempire l’ansia ingozzandosi di cibo, e affogare la paura nell’alcol. Infine chiese un wisky liscio ed il conto. Pagò in contanti, afferrò uno stuzzicadenti, e soddisfatto, la sguainava come una spada contro i rimasugli di carne fra i denti. Crollato alle 22.16 e 57 secondi, si ridestò 2 ore 12 minuti e 2 secondi dopo, con un leggero mal di testa, da dei colpetti al braccio destro causati dal barista. Era l’orario di chiusura e non poteva rimanere ancora a dormire lì. Intontito rimase a fissare lo sguardo del barista per qualche secondo, si guardò intorno inumidendosi le labbra salate e deglutendo due volte. Cercò di mettersi in posizione eretta, ma gli girava la testa. Ci vollero pochi minuti per tornare in sé, rendersi conto che il pub era completamente vuoto, e di avere qualcosa di importante da dover ricordare, ma che in quel momento non sapeva cosa potesse essere. Si passò la mano destra tra i capelli biondi, si alzò, e si diresse verso la porta. Senza rendersene conto era lì, che fissava il bivio, con lo sguardo perso, e le labbra socchiuse, cercando di rimettere ordine tra i pensieri e i ricordi di immagini e suoni persi nell’ebbrezza dell’alcol.  Aggrottò le sopracciglia e volse lo sguardo alla sua sinistra, apparentemente senza motivo, sapendo solo di doverlo fare. Partì una leggera risata, anch’essa immotivata, come se il suo corpo stesse reagendo a qualcosa, senza che la mente gli avesse ordinato nulla. Fissò quindi davanti a sé, con un sorriso a 29 denti, una casetta. Era una casetta piccola e modesta, celata dall’oscurità, che la proteggeva dalla luce del lampione al centro del bivio, la quale si fermava a pochi passi di distanza dalla costruzione. Inarcò la schiena, ruotò la testa di 45° continuando a fissare la casa, fino ad ottenere una visuale obliqua. Lo sguardo perso e incerto diveniva man mano più sicuro di quello che vedeva, scrutando e concentrandosi fino ad avere una visuale nitida della costruzione. Trattenne un respiro e sgranò gli occhi, tutto quello che doveva ricordare, ogni idea e pensiero che vagava confuso nella sua mente si fece ordinato, ogni pezzo prese posto e una smorfia di sorpresa disegnò il volto di Johan, lasciandolo a bocca aperta.
3 ore prima stava discutendo col barista, che annuendo gli confermava che la strada che aveva percorso era piuttosto lugubre, e non pochi avevano avvertito la sensazione che qualcuno li spiasse. Il discorso cadde anche su quella ragazza dalla chioma scarlatta, ma il barista non riusciva a capire di chi parlasse, pensando che la birra stesse parlando al posto del nuovo cliente, che stesse semplicemente delirando. Un bagliore apparve nei suoi occhi però, quando ricordò che effettivamente c’era una ragazza con quel colore di capelli, o meglio c’era stata. Viveva nell’ultima casa a sinistra prima del bivio, con la sua famiglia, ma purtroppo 10 anni prima un incendio scoppiò in quella casa, uccidendo tutta la famigliola, arsa viva nelle fiamme,così calde da carbonizzare i corpi e lasciare dietro di sé solo cenere. Ci fu un solo sopravvissuto, un micetto pezzato, colpito da una scintilla di fuoco che lo azzoppò. Se ne prendeva cura tutto il vicinato e ormai era diventato piuttosto vecchio, ma non aveva mai lasciato quel posto, tanto da voler mangiare solo dinanzi alla casetta. Di solito lo stesso barista gli portava una scodella di latte fresco, come aveva fatto quella notte.
Rimase a scrutare lo scheletro della casa, nero perché carbonizzato, sorreggere un pezzo del soffitto e qualche parte di muratura esterna, anch’essa nera come la pece. A qualche passo di distanza una ciotola vuota, davanti a due occhi fissi su Johan, attenti ad ogni suo minimo movimento. Come faceva a non essersi accorto di quella costruzione? Come poteva essere accaduto? Non sarebbe mai potuta passare in secondo piano una casa bruciata a pochi metri di distanza, nemmeno tenendo in considerazione la sua stanchezza e la poca luce. Era qualcosa che risaltava subito agli occhi, una visione così triste da non poter passare in secondo piano. E allora cosa aveva catturato la sua attenzione in un modo tale da non permettergli di accorgersi di quella casetta? “La ragazza” risuonò come un boato nella sua testa, la ragazza dai capelli rossi, che fine aveva fatto? Si guardò intorno velocemente, girando su se stesso, volgendo lo sguardo ad ogni lato e strabuzzando gli occhi. Non c’era, da nessuna parte, era sparita nel nulla. Pensò anche che l’avesse immaginata, come era successo con i passettini nel buio, ma ricacciò subito l’idea da dove era uscita. Era plausibile che si fosse immaginato un rumore simile a dei passettini, ma pensare di poter immaginare un’intera figura umana in modo così dettagliato, lo riteneva impossibile. Un fantasma? No, scartò anche questa idea, ritenendola nata per autosuggestione, nonostante gli avesse comunque provocato un brivido gelido lungo la schiena.  Sentiva il cuore battere irregolarmente, i pensieri di nuovo affollargli la testa, un sapore metallico in bocca. Non riusciva a capire bene cosa gli stesse succedendo, quando gli si parò davanti una figura alta e sottile, nera, inconsistente, come un sottile e solitario cumulonembo temporalesco. Alzò lo sguardo e la testa guardava lentamente in alto, e poi più in alto, e ancora. Era alta una volta e mezza Johan ma la sua larghezza era minima al confronto. Era una figura umana, per quanto umano possa essere un essere alto 3 metri e largo poco più di 30 centimetri, dita allungate simili a lunghi artigli, senza occhi o qualsiasi specifica facciale, solo quella che sembrava una striscia sottile dove ci dovrebbe essere la bocca. Sul capo un’inquietante fuocherello rossastro, lontano dal colore a cui siamo abituati, di un arancione luminoso, piuttosto era un tenue rosso sangue, che invece di illuminare pareva assorbisse la luce circostante. Paralizzato, inerme, disperato, fissava quel qualcosa senza muovere un muscolo. Voltò lentamente lo sguardo a destra in cerca di aiuto, ma nessuno era presente. Poi a destra, e ugualmente non c’era anima viva. Tornò a fissare quella cosa sperando solo che facesse in fretta, senza dargli modo di soffrire, ritrovandosi faccia a faccia con un incubo, di fronte al quale capì da subito che qualsiasi tentativo di difesa sarebbe risultato vano, inutile, inerme ancor prima di attaccare. Avrebbe voluto vedere la sua stessa faccia, pietrificata, capire se stesse piangendo, se stesse effettivamente guardando quel mostro o se, ora, lo stava immaginando soltanto, tenendo gli occhi chiusi. Sì, ora, perché era certo che quel qualcosa, per quanto mostruoso e inumano fosse, era certamente reale. Un vento gelido percorse la strada, donando a Johan un solo istante di lucidità, nel quale capì però che non stava piangendo, anzi tutti e 29 i suoi denti formavano un gigantesco sorriso, stampato beato sul suo volto. Perché diamine stava ridendo? Non si sapeva dare una risposta, non c’era un motivo, sapeva solo di star sorridendo. E sorridendo iniziò a tremare, mentre il terrore cresceva spaventosamente in lui, dilagava come un fiume in piena che rompe gli argini, lava sputata dal profondo della terra fin sù, per poi ricadere in terra, bruciando ogni minimo stelo di speranza.  E mentre tremava gli occhi impazziti guardavano in ogni lato, con la speranza di poter ravvisare un volto umano. E quel volto lo trovarono, un volto sottile e rosato, solcato anch’esso da un sorriso, rivolto verso di lui, occhi azzurri come ghiaccio perenne, ma più freddo, ostile, penetrante, una sensazione che aveva provato quel giorno stesso, mentre un rossore purpureo danzava tra le onde del vento. Il forte contrasto tra occhi e capelli le conferiva un’aura meravigliosamente spettrale, non sembrava appartenere a questo mondo né a nessun altro. L’ammirava rapito, con sguardo supplichevole, ricambiato da uno pieno di vuoto, come se non avesse idea dell’esistenza di parole quali pietà o compassione. Abbassò lo sguardo non riuscendo a reggere la visione di quella ragazza, accorgendosi che la lunga figura a un palmo da lui non aveva piedi, continuava invece in obliquo sull’asfalto, fino a congiungersi con l’ombra della ragazza. Avrebbe voluto scappare, ma in quel momento la sua volontà non bastava per smuovere il corpo, il terrore aveva tagliato i ponti che legavano la mente col corpo, tanto da costargli fatica anche respirare. Non sentiva più il suo corpo, le sue gambe avrebbero potuto cedere da un momento all’altro, ma lui non avrebbe avvertito alcun cambiamento, se non per una diversa visuale, sul pavimento. Sforzandosi in modo disumano riuscì a produrre un flebile suono, una domanda rivolta a quegli occhi così inespressivi: “Cosa sei?”. Ogni suono, seppur minimo, intorno a loro tacque di colpo, dal vento, al ronzio del lampione, al canto dei grilli. Prima un piccolo sussulto e poi una fragorosa risata ruppe quel silenzio, provocati dalla ragazzina che ora teneva strette le braccia intorno al corpo. Si calmò, e con voce tranquilla rispose “la tua falce”. Una falce di luna, rilucente, terrificante, si dipinse sul volto dell’ombra, un sorriso infernale, pura follia, squarciò l’oscurità di quell’essere, per poi aprirsi e produrre un gemito soffocato, il gemito soffocato che sarebbe dovuto uscire dalle labbra di Johan.
Il corpo giaceva immobile, tra alte sequoie che coprivano la luce del sole che sorgeva, e sul volto una smorfia, un sorriso a 29 denti, in una paresi perpetua, mentre iniziavano a evaporare le lacrime che solcavano le profonde rughe, di un uomo dagli occhi spenti, di un vecchio uomo canuto, 32 anni,  6 settimane,  5 giorni,  6 ore e 48 minuti dopo la sua nascita, in solitudine, dimenticato dalla famiglia, dall’amore, dagli amici, nel più completo silenzio.
Morale della favola? Non maltrattate gli animali, potreste finire dimenticati in qualche foresta con uno stupido sorriso stampato in faccia
  
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