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Autore: xMoonyx    08/07/2012    3 recensioni
Da bambino Gwaine si era sempre sentito fuori posto in mezzo ai suoi compagni. Non perché non avesse un padre, no... molti altri erano orfani. Ma si sentiva diverso perché la mancanza del genitore aveva cancellato dal suo cuore ogni sogno, ogni aspirazione a diventare qualcuno. Chi era lui? Cosa sarebbe diventato? Per quali ideali, un giorno, avrebbe impugnato una spada?
E se invece... se invece non fosse il suo destino impugnare una spada?
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Galvano
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Terza stagione
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Gwapple story

Informazione necessaria [??]: Questa fic aveva partecipato ad un contest. Tuttavia ero talmente con la testa tra le nuvole che non avevo letto che era un contest di flash fic, e così questa, essendo una one-shot, per regolamento non poteva partecipare. A distanza di quasi un anno (la inviai infatti il 30 Settembre del 2011) ho deciso di postarla. E' da un po' che non rientro nel mio account, e che non aggiorno le mie fic per colpa di un blocco scrittore. Mi auguro che vogliate perdonarmi... la mia testa per adesso è concentrata nella stesura di un'originale fantasy/soprannaturale (con tanta bromance, perché, beh, non puoi impedire ad una slasher di slashare anche coi propri personaggi u.ù) dal titolo Timeless che sto scrivendo in compagnia della mia migliore amica. Chi avesse voglia di leggere, vada qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=966892&i=1

Intanto vi copio le [altre] informazioni così come le scrissi l'anno scorso:

Titolo: Dimentica chi eri... e diventa chi sei;

Personaggio scelto: Gwaine (<3);

Genere: Emh... direi Angst, Malinconico ed Introspettivo;

Rating: Sarebbe verde ma forse per le tematiche angst è meglio intenderlo come “giallo”;

Avvertimenti: one-shot, missing moments;

Introduzione: Da bambino Gwaine si era sempre sentito fuori posto in mezzo ai suoi compagni. Non perché non avesse un padre, no... molti altri erano orfani. Ma si sentiva diverso perché la mancanza del genitore aveva cancellato dal suo cuore ogni sogno, ogni aspirazione a diventare qualcuno. Chi era lui? Cosa sarebbe diventato? Per quali ideali, un giorno, avrebbe impugnato una spada?

E se invece... se invece non fosse il suo destino impugnare una spada?

NdA (Note dell’Autore/Autrice in questo caso): Bene bene bene, cosa posso dire? Inizialmente l'idea per questa fic era completamente diversa... trattava infatti di un flashback del protagonista che ricordava le parole che suo padre, quando lui era solo un bambino, gli aveva ripetuto.

Ma poi ieri, rivedendo la quarta puntata della terza serie, mi sono resa conto -con rammarico, non credete! T_T- che Gwaine non ha mai conosciuto suo padre. Ed è uscita questa... cosa. Spero che piaccia comunque, mi sono emozionata molto nello scriverla -e ascoltare canzoni struggenti e deprimenti come "War" dei Poets of the Fall, oppure "Tears Of An Angel" di RyanDan non aiuta di certo a migliorare il clima di angst-. In ogni caso vi invito ad ascoltarle durante la lettura! ** Credo di aver detto tutto. Per adesso buona lettura!



Dimentica chi eri... e diventa chi sei


I bambini sedevano a cerchio di fronte al focolare del villaggio e le fiamme che danzavano sugli zigomi portando in ombra il resto del viso conferivano loro un aspetto piuttosto inquietante.

«Voi cosa farete da grandi?» domandò un ragazzino mingherlino smuovendo i legni con un punteruolo di ferro.

Tutti si voltarono a guardarlo e il più alto di questi, con folti capelli vermigli e le lentiggini, si finse pensieroso.

«Farò ciò che ha fatto mio padre, quindi... il falegname!»

Il primo bambino scrollò le spalle, facendo correre lo sguardo al ragazzino accanto a quello coi capelli rossi.

«E tu, Simon?»

«Penso che anch’io imiterò mio padre. Lui fa l'armaiolo, sapete? E' un impiego divertente e si guadagna bene.»

Il primo ragazzino abbozzò un sorriso, poi scrutò quel bambino con i capelli scuri e lo sguardo basso che non aveva ancora aperto bocca quella sera.

«E tu, Gwaine? Anche tu seguirai le orme di tuo padre?»

Calò un silenzio teso, mentre il ragazzino s’irrigidiva e assumeva i colori di un morto.

Pel di carota impallidì e regalò al primo bambino un'occhiata oltraggiata.

«Tristan, sei un idiota! Lo sai che lui non ha un padre!»

«Non ce l'ha?» reiterò il bambino chiamato Tristan, senza capire. «Ma tutti hanno un padre, altrimenti come...»

«Intendo che è morto.»

Al commento secco del rosso l'aria si fece tesa come le corde di un violino.

Le piccole mani chiare di Gwaine si chiusero a pugno, sul suo sguardo passò un'ombra e il volto s’incupì ancora di più.

Tristan si chiarì la gola, imbarazzato, cercando una posizione più comoda sull'erba, ma l'equilibrio era ormai stato spezzato.

Gwaine si era alzato in piedi, senza staccare gli occhi dal terreno, le nocche tanto strette da apparire pressoché bianche.

«Mio padre era un cavaliere ed è morto per difendere il Re. Non ho intenzione di finire come lui.»

«Beh è una morte molto... onorevole» cercò di rimediare Tristan, passandosi una mano sulla gamba in preda all'agitazione. «Morire per un Re, voglio dire.»

Gwaine alzò lo sguardo e i suoi occhi neri imperscrutabili fecero tacere il poveretto.

«Non è onorevole morire per un uomo arrogante ed egoista!» e senza rendersene conto aveva palesato il pensiero di sua madre.

Si curò, tuttavia, di non aggiungere ciò che premeva maggiormente per uscire dalle sue labbra.

Che, cioè, non avrebbe mai perdonato suo padre per aver abbandonato lui e sua madre.

Per aver fatto ammalare sua madre, già di salute cagionevole, a causa degli stenti che la sua assenza aveva causato.

Che l'aveva reso un ladro, costretto a nascondere sotto il mantello mele e vivande per portarle a casa dalla mamma malata, a correre per sfuggire dalle guardie regali quando veniva scoperto.

Che l'aveva reso un orfano.

Che l'aveva privato anche di quell'unico sogno che, se solo suo padre fosse stato ancora vivo, sicuramente avrebbe conseguito: quello di diventare cavaliere.

Ma tutto ciò non sarebbe successo. Mai.

Un attimo dopo diede le spalle ai compagni e scappò via, inghiottito dalle tenebre della sera, lasciando il manipolo di bambini in un religioso e turbato silenzio.




Quella sera era tornato a casa ma, paradossalmente -e proprio quando aveva più bisogno del suo abbraccio consolatore-, non trovò sua madre. Era rimasto tutta la notte sveglio attendendola sull'uscio, poi Morfeo l'aveva avviluppato tra le sue braccia tentatrici.

«Gwaine.»

Era una voce distante, spaventata.

Il ragazzino fece una smorfia.

«Gwaine...»

Il nominato corrugò le sopracciglia.

«GWAINE!»

Sussultò, gli occhi spalancati persi nell'oscurità della strada.

Il fautore del suo prematuro risveglio entrò nel suo campo visivo dopo appena pochi attimi: era un vecchio dal volto pallido e flaccido, una ragnatela di rughe ai lati degli occhi e folte sopracciglia scolorite.

Il più piccolo dovette battere diverse volte le palpebre per rendere più nitide le immagini offertegli dalla vista, e quando lo riconobbe per Jonas, il medico del piccolo villaggio, scattò in piedi come morso da uno spillo.

«Che succede?»

L'uomo non rispose; si limitò a fissarlo, con i profondi occhi azzurri e le labbra strette.

«Tua madre» sillabò semplicemente, con un filo di voce.

Gwaine avvertì una morsa allo stomaco, mentre il cuore accelerava i battiti come impazzito.

No... non sta per dirlo! Non sta succedendo nulla!

Si umettò le labbra per riacquistare un contegno: no, quel tono di voce del vecchio non doveva per forza presagire informazioni negative!

S’impose la calma, prendendo una lunga e vibrante boccata d'ossigeno.

«Cosa?»

Jonas tacque.

«Che cosa è successo a mia madre?» lo aggredì Gwaine afferrandogli il bavero della tunica.

L'uomo abbassò lo sguardo. «E' stata trovata a terra nel mercato.»

Il bruno continuò a fissarlo, gli occhi spalancati e le mani tremanti.

No...

«E' morta.»

«NO!»

Gwaine lo lasciò andare quasi si fosse ustionato e lo fissò col cuore in gola. «Non può essere vero! Ti... ti prego dimmi che non è vero!»

Jonas sospirò, senza smettere di guardarlo.

«Mi dispiace molto, ragazzo. Herit era come una sorella per me.»

All'improvviso le orecchie di Gwaine divennero sorde ai rumori esterni, i suoi occhi si persero ad esaminare un punto imprecisato oltre le spalle dell'anziano, ma senza realmente vederlo.

Aveva perfino dimenticato come si facesse a respirare.

Una vocina nella sua testa gli ripeteva che era un incubo, un'altra che doveva fuggire, subito.

Ma le sue gambe intorpidite si rifiutarono di collaborare e così rimase immobile, da solo col battito esagerato del suo cuore e uno strano solletico agli angoli degli occhi.

Le labbra del vecchio si muovevano per richiamarlo, le sue mani lo cercavano e gli scuotevano le spalle ma Gwaine non sentiva niente.

Sua madre non poteva essere morta davvero.

Presto sarebbe tornata in sé, si sarebbe risvegliata e gli avrebbe sorriso, mostrando la chiostra di denti bianchissimi, i capelli scuri ondeggianti al vento.

E l'avrebbe abbracciato, scompigliandogli i capelli, e gli avrebbe fatto il solletico.

Si sarebbero seduti di fronte al camino e sua madre, mentre fuori la pioggia tamburellava sul tetto, gli avrebbe narrato le incredibili storie di invincibili cavalieri che per mettere in salvo le loro dame affrontavano a cuore aperto e petto gonfio draghi ed altre pericolose creature magiche.

E naturalmente il cavaliere la spuntava sempre, per quanto le situazioni potessero risultare a occhio e croce insostenibili.

Beh, decisamente lontano dalla vita reale.

Suo padre non aveva sconfitto nessun drago e non aveva salvato nessuna dama. Era morto; morto e basta.

Un tuono particolarmente intenso riportò violentemente il ragazzino alla realtà.

Stava iniziando a piovere: gocce fredde, sottili, che s’infilavano tra i capelli e sotto i vestiti, facendolo rabbrividire.

Gocce che si mischiavano alle lacrime... che diventavano un tutt'uno con esse, cancellandole.

I rumori invasero tutti in una volta i suoi timpani, come un'onda, e Gwaine rimase stordito per un attimo.

Poi rivide di fronte a sé la pappagorgia del vecchio, correlata a quello sguardo preoccupato. Il cerusico lo stava scuotendo per le spalle, richiamandolo alla realtà, e Gwaine lo osservò inebetito per ancora qualche secondo.

Poi la consapevolezza si fece spazio a forza nella sua mente.

Quello non era uno scherzo...

«E' morta?» ripeté con voce tremula, quasi credendo che ammettendolo l'avrebbe reso più reale.

E più doloroso.

Jonas non rispose. Con gli occhi ricolmi di lacrime - o forse era pioggia?- lo abbracciò e Gwaine si abbandonò a quell'improvviso calore, affondando il volto sul petto di quello.

E tutte le lacrime che aveva custodito fino a quel giorno emersero dai suoi occhi come fiumi in piena.

Lacrime per suo padre, dimenticato in un polveroso campo di battaglia, con gli occhi privi di vita puntati sul cielo terso del rosso del tramonto. Quel padre che non aveva mai avuto la gioia di vedere, di abbracciare, di cui non conosceva nemmeno la voce. Di cui sapeva solo che amava l'idromele e la birra perché, a sua detta, il miglior modo di dimenticare i problemi era bere nelle taverne.

Lacrime per sua madre, distesa e fredda al centro della piazza del mercato. Quella madre che era morta spiritualmente lo stesso giorno in cui suo padre aveva perso la vita. Sua madre che era rimasta lo spettro di quella che probabilmente era stata un tempo; e quella donna di prima lui non l'aveva mai conosciuta.

Lacrime per i suoi poveri sogni infranti.

E soprattutto, lacrime per se stesso: perché adesso era rimasto solo, per davvero.

Nessuno avrebbe più badato a lui, nessuno lo avrebbe accolto a casa a braccia aperte.

Cosa ne sarebbe stato di lui?

«Puoi rimanere con me se vuoi.» gli sussurrò il vecchio accarezzandogli i capelli, tra le lacrime, qualche minuto più tardi.

Minuti o ore? Gwaine non avrebbe saputo distinguerne la differenza.

Come facesse poi l'anziano medico a leggergli nel pensiero rimase un mistero.

No, non sarebbe rimasto un secondo di più in quel posto che aveva visto morire i suoi cari.

Non ci sarebbe tornato mai. Mai più.

Si allontanò dal vecchio la distanza che bastava per guardarlo negli occhi, poi deglutì lacrime e pioggia e scosse la testa.

«Andrò via.»

«Che cosa farai?» lo interrogò il vecchio spaventato, ma angosciato come se già sospettasse la risposta.

Gwaine fece una smorfia, tirando su col naso. «Non ne ho idea... so solo che voglio andare via da qui.»

«Casa mia sarà sempre aperta per te, lo sai.»

«Ho tredici anni, so cavarmela da solo.» replicò il ragazzo, scostante, mentre indietreggiava ancora. «Ho imparato a farlo molto tempo fa.»

Il vecchio annuì: lui lo sapeva bene.

Il vento scosse i capelli di entrambi, spruzzandoli di pioggia.

Quella pioggia che scivolava sui loro visi stanchi e provati, a sciacquare via il dolore.

«Non ho più nulla che mi lega a questo posto» si schermì ancora Gwaine, poi indietreggiò nuovamente. «Non ho più nessuno. Ma starò bene, non preoccuparti.»

«Continuerò a preoccuparmi comunque.» Jonas abbozzò un sorriso pallido, poi lo strinse in un abbraccio.

«Ma non ho nessun diritto su di te, per quanto lo voglia. Quindi... buona fortuna.»

Gwaine avvertiva una strana sensazione; come se un grosso albero gli fosse piombato sul petto, spezzandogli la gabbia toracica.

Si sentiva così debole, spaesato... così vuoto.

Era questo che aveva provato sua madre riconoscendo tra i tanti il cadavere di suo marito?

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo, dal quale provenivano quelle gocce sottili come lame.

Perché la sua intera esistenza non poteva semplicemente essere un incubo?


*


Gwaine si svegliò di colpo, con la fronte imperlata di sudore freddo, il fiato corto e gli occhi sbarrati.

Rintracciando in quell'oscurità gli oggetti familiari della sua stanza si calmò leggermente, passandosi una mano sulla fronte e soffiando via la paura ed il turbamento provocati da quell'incubo.

Si alzò dal letto, ancora scombussolato, e si vestì velocemente -era sua abitudine, infatti, coricarsi a torso nudo-, passò di fronte allo specchio scheggiato della sua camera alla locanda e si scompigliò i capelli ribelli, in un vano tentativo di disciplinarli.

Quando si rese conto che stava peggiorando la situazione, lasciò perdere la sua zazzera scomposta e si strofinò le dita sulle palpebre, con fare stanco ed esasperato.

Doveva calmarsi, santo cielo! Era stato solo un sogno.

Avanzò fino all'appendiabiti, si tirò al petto la propria giacca e la indossò, raggiungendo la porta e fuoriuscendo nel corridoio: velocemente scese le scale di legno cigolante e ammuffito, pagò all'ingresso alla donna grassa la giusta quota ed emerse nell'aria aperta.

Il vento lo investì risvegliandolo un poco, e l'uomo, suo malgrado, accennò un sorriso tirato.

Un sorriso amaro.

Ecco che la sua vita ricominciava da capo: ecco che montava a cavallo, scuoteva le redini e speronava sui fianchi della bestia, senza ordinare nessuna direzione.

Ci avrebbe pensato l'animale a scegliere la destinazione; lui, il padrone, stava solo fuggendo.

Fuggendo dal proprio destino.

Fuggendo dal proprio passato.

Fuggendo da se stesso.

Ne era pienamente consapevole; sapeva che era sbagliato ma... ma non aveva alternative.

Specialmente quando la realtà del suo passato tornava a tormentarlo perfino durante la notte.

«Perché non diventi cavaliere?» gli aveva chiesto Merlin, ormai così tanti mesi prima.

Perché?

Era semplice.

Perché prima di divenire cavaliere, o di intraprendere qualsiasi altro mestiere, aveva bisogno di qualcos'altro.

Aveva bisogno di capire cosa voleva veramente.

Aveva bisogno di capire chi era.

Dimentica chi eri... e diventa chi sei.



The End







   
 
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