Dondolava. Come aveva fatto spesso anche nel giardino fuori casa.

Era solo un bambino.

E ora pendeva da un capo della fune che sapeva di morte che gli stringeva il tenero collo, che gli aveva mozzato con così tanta crudeltà il respiro.

Petruccio…, pensò Ezio, e le sue labbra si mossero appena, ma oltre la lingua non si generò alcun rumore, né un verso che potesse rappresentare il suo immenso dolore.

Solo un silenzio che gli gelava il sangue.

Aveva la gola secca e rovente come un vecchio braciere e per quanto ci fossero state mille cose che avrebbe voluto gridare, semplicemente non gli fu possibile.

Aveva ancora le lacrime che gli bagnavano le guance, che sarebbero state lisce e rosee per sempre. Erano mortalmente pallide, e aveva gli occhi gonfi, serrati.

Aveva trattenuto un singhiozzo mentre il boia gli assicurava il cappio al collo -troppo largo per un bambino così piccolo, aveva dovuto stringerlo di parecchi centimetri per assicurarsi che compiesse bene il suo lavoro-

Era coraggioso il suo Petruccio. Il suo per sempre piccolo e allegro Petruccio.

Penzolando, aveva tirato pochi calci all’aria, e della schiuma biancastra gli aveva macchiato quelle labbra rosee che non avrebbero più sorriso. 

Aveva alzato gli occhi al cielo grigio, pietoso. Non aveva nulla di cui chiedere perdono, il piccolo Petruccio. Nulla che avrebbe potuto confessare al prete lì davanti.

Ora dondolava, spinto dal vento mattutino. Sotto gli occhi sbarrati di Ezio.

Ora c’era la fossa comune e la fredda calce per Petruccio.

Era solo un bambino. 

Ma nessuno si era vergognato di mandarlo alla forca così giovane.