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Autore: RedHot    08/07/2012    1 recensioni
« Vorrei che mi capitasse qualcosa di orrendo. Perché, se non posso essere diversa in modo positivo, allora lo sarei in modo negativo ».
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                 Mattina-Sera-QuasiNotte

 


“ Un giorno sono arrivata a pensare di essere davvero malata.
Un giorno qualsiasi, dall’oggi al domani; come se una mattina mi fossi svegliata e guardandomi allo specchio avessi pensato di aver bisogno di un dottore, perché arrivare a farsi tanto schifo non era normale.
Semplicemente, mi sono vista e ho avuto paura dei miei stessi pensieri. Paura di essere arrivata a sedici anni e sentirsi per la testa i ragionamenti di una quarantenne depressa.
No, depressa proprio no; ma un qualcosa di tremendamente simile che si può confondere con facilità, se non con troppa facilità.”

 
Avevo sempre pensato che quella del blog era stata un’idea del cazzo.
Era iniziata come un semplice passatempo, come tutte le altre cose, d’altronde, ma poi ci avevo preso gusto.
Mi incuriosiva la possibilità che un qualche sconosciuto potesse farsi un’ipotesi su di me in base alle mie sole parole.
Non era un giudizio, finché si trattava di estranei non me ne fregava un cazzo. Non attendevo neppure delle risposte, probabilmente quelle mi avrebbero fatta solo imbestialire.
La mia era pura curiosità.
Ma sapevo anche che certe cose era meglio tenersele per sé, perché non si può parlare di tutto, non quando si ha così tanto da nascondere.
 

“ Sentirsi diversi e non esserlo davvero fa schifo. Sentirsi conformati alla massa e voler diventare una cosa singola, unica e inconfondibile è ancora peggio. Desiderare di non uguagliarsi corrisponde a percepire se stessi come un qualcosa di sempre troppo simili a ciò che lo circonda.
Aspirare alla non-uguaglianza e rendersi conto che, se non ci nasci, non sarai mai diverso da ciò che in realtà temi di essere ti costringe ad assaporare una sensazione sinonima alla compassione, per se stessi. E neanche la malinconia, dopo, riesce a cancellare quel retrogusto con la sua presenza già, di per sé, sgradita.”

 
Me lo aveva detto anche Fena, una volta, che stavo esagerando con quel blog.
Bè, Fena era una troia – lo diceva stesso il nome – e io non esitavo a ricordarglielo. La prima volta che la chiamai così lei mi sorrise; non capiva – e non capisce tuttora – una sola parola in slovacco e quando le affibbiai questo soprannome pensava che fosse un modo carino per comunicarle il mio affetto. Un po’ come quei nomignoli che si danno le amiche per far capire agli altri che il loro legame è a un livello superiore, che non hanno bisogno neppure di usare il loro vero nome per comunicare.
Ma Fena era una vera troia, non lo dico con cattiveria e forse neanche lei lo faceva apposta ad esserlo, ma non si può negare l’evidenza. Aveva diciassette anni e si era fatta quasi tutti.
Credo che anche lei avesse qualche problema – in casa penso, a me non ne ha mai parlato – e il sesso era il su mezzo per sfogarsi. Voleva avere il controllo su una parte della sua vita, e quella parte era il corpo.
Forse è per questo che alla fine ci siamo avvicinate, non proprio amiche, ma un qualcosa più della semplice conoscenza.
 

“ Ma parlavo di uno specchio, e di una me che si guardava e pensava cose che non doveva pensare, una mattina… no, forse era sera, quasi notte; d’altronde, l’ho sempre saputo che la notte era il mio momento della giornata.
Forse l’istante in cui l’ho capito non è davvero importante, forse è tanto essenziale che tutto questo risulterebbe inutile senza una specificazione al riguardo.
Devo smetterla di divagare; amo farlo, ma è solo una perdita di tempo.”
 

Fena fu la prima a cui raccontai del blog, e anche l’ultima.
Lesse qualche post, poi mi ha rivelato di aver chiuso tutto perché non riusciva ad andare avanti.
 « E’ una strana sensazione sapere che la persona di cui stai leggendo i pensieri è la stessa con cui parli ogni giorno delle cazzate del mondo » aveva detto, « Sei tragica, però. Tanto da mettermi i brividi. Stai attenta con quello che scrivi, qualcuno potrebbe farsi una cattiva opinione su di te ».
 « Ma chi vuoi che lo legga… ».
 

“ Quella Mattina-Sera-QuasiNotte mi sono vista in uno specchio, come nelle più banali scene dell’immaginazione umana, e ho avuto paura di cosa sarei potuta diventare – o non diventare.
Scoprire che i momenti idillici della vita, in realtà, siano come tutti se l’aspettano –  compresi quegli individui che non sapevano fantasticare su unicorni e folletti neppure a quattro anni – ti deprime tanto da chiederti perché una delle due scuole di pensiero non si sia ancora estinta, magari con una lapidazione sanguinolenta che soddisfi le prospettive di massacro conservate da qualsiasi combattente. Ammettiamolo: la razza umana è tanto macabra da non aver bisogno di figure ambigue e inquietanti per le storie dell’orrore.”
 

Invece le cose mi erano sfuggite davvero di mano.
Uno di quei giornaletti da pochi soldi –  quelli che fingono di avere dei psicologi a capo di ogni singolo articolo, quando invece erano dei sessantenni in procinto della pensione a scriverli, fra una tazza di tè e le cinque scatole di pasticche che devono ingoiare ogni tre ore – aveva individuato il mio blog fra molti altri e utilizzato come esempio della “gioventù errante del ventunesimo secolo”.
Era il periodo in cui stavo iniziando ad avere un po’ più di  notorietà, i dati segnavano che i miei post venivano letti sempre più frequentemente; pochi commenti, ma tanti seguaci. Più o meno quello che volevo.
Era anche il periodo in cui stavo iniziando a pulire i miei pensieri, una scrematura che li rendeva più netti e, se necessario, più brutali. Niente freni, niente convenzioni. Censura abolita.

 
“ Avere la sensazione di non vivere abbastanza e, contemporaneamente, di aver vissuto anche troppo dà la nausea; come dopo una sbornia colossale, quando ti risvegli piegato su un cesso pieno di vomito – che non hai neanche la certezza che sia uscito tutto da te – e in testa, oltre a una dolorosa emicrania, ti sono rimasti solo i ricordi che non salgono oltre il secondo bicchiere di qualsiasi porcheria tu abbia ingerito.”

 
Da quel fottuto giornalino qualcuno mi riconobbe, forse un compagno di classe o un vicino.
 « Ehi, sai che ho visto di persona una blogger depressa e aspirante suicida? ».
Che poi non ero né depressa né aspirante suicida, ma ci avrei scommesso se qualcuno fosse andato in giro a dire anche quello.
Come prevedibile, la notizia si sparse a macchia d’olio, fino ad orecchie che sarebbero dovute rimanere sorde.
 

“ Avere questo controsenso dentro e sapere che non è normale provarlo quando non hai assaporato neppure un quarto della vita che aspetti – nella speranza che a nessuno venga la brillante idea di tirarti un colpo basso – ti fa sentire tanto stupida da non poter credere che sei arrivata ai falsi pensieri filosofici di una comune adolescente in piena crisi esistenziale.
Comune. Cazzo. Fottutamente comune.
Si ritorna sempre al solito discorso, alla fine. Il desiderio di essere diversi, la consapevolezza di doversi sforzare per questo, perché non rientra nella propria natura e il terrore di non avere abbastanza palle (siliconate, per noi donne, lo dico sempre scherzando) per riuscirci.”
 

Che i coetanei mi vedessero ancora più strana di quanto già mi ritenevano, non era cosa rivelante.
Ma avrebbero anche potuto tenere la bocca chiusa, a un certo punto.
Quando ai colloqui con gli insegnanti la mamma di qualche stronzo/a si avvicinò alla mia, io non ero presente; altrimenti le avrei volentieri tirato il collo, a quella gallina, prima che facesse la strage.
 « Ho sentito che tua figlia ha dei problemi. Mi dispiace tanto, internet può essere utile a comunicare con gli altri, ma la maggior parte delle volte mette in testa ai nostri ragazzi roba davvero strana ».
Tzè, puttana, Fena le faceva un baffo.
 

“ Ma sempre quella mattina-sera-quasinotte, quando mi sono guardata in quello specchio e ho pensato ciò che non dovevo pensare, da qualche parte è sorto anche il bivio del dubbio: quella ripugnante frase che mi si è stampata in testa, era il frutto della sedicenne in crisi o della quarantenne depressa? Era l’ennesima idiozia di una ragazzina che si sente troppo normale per volerlo o di una persona che si fa solo tante di quelle seghe mentali da usurarsi il cervello fino all’ultimo neurone?
Sono domande retoriche, non voglio una risposta. Anzi, non azzardatevi neppure.”
 

La cosa strana fu che i miei non ne parlarono mai direttamente con me, fra di loro sì, ma mai con me. Più che strana, era una cosa davvero vigliacca, ma loro lo erano sempre stati.
Sembrava quasi che avessero paura di mettermi in mezzo, quando invece ero io l’ideatrice di tutto quel caos.
Il blog però non smisi di scriverlo, non aveva senso abbandonarlo così, quando la frittata ormai era fatta. Divenne un mezzo per non ascoltare le loro conversazioni.
 

“ « Vorrei che mi capitasse qualcosa di orrendo ».
Non avrei mai dovuto formulare quella frase, non avrei mai dovuto neanche pensarle quelle parole. La disperazione a volte ti prende anche quando ti senti tanto giovane da risultare vecchia. “

 
 « Forse dovremmo portarla da uno psicologo ».
 « Ha solo sedici anni, è troppo presto per uno psicologo ».
 « E’ troppo presto anche fare ragionamenti del genere. Hai letto qualcosa del suo blog? Si tratta di una crisi adolescenziale, lo so, ci siamo passati anche noi; ma ognuno la affronta in modo diverso e forse lei ha bisogno di un piccolo aiuto, nient’altro ».
Quel “ci siamo passanti anche noi” era la cosa più esilarante di tutti, come se rappresentasse un lasciapassare per permettere a certe persone di parlare a nome di altri, senza neanche interpellarli, magari.
 « La bocca ce l’ho anch’io, cazzo. Non ho bisogno di voi per farmi capire! » dovevo dire. Dovevo.
 

“ Ho sedici anni, non posso avere problemi di questo genere. Pensi. E poi ti ritrovi con un pugno di incomprensioni che vorresti sputare via; perché è veleno per il tuo sangue, per i tuoi polmoni e per il tuo corpo. Stai masticando acido nitrico con denti marci e non te ne rendi neanche conto.
Il suo sapore sa di cacao, come la torta per incompetenti della cucina già impastata e che va soltanto messa in forno. È bello sentirsi un cuoco con l’ausilio di un macchinario che fa tutto il lavoro al nostro posto.
Ah, per la cronaca, faccio schifo anche a cucinare.”
 

Quello dello psicologo divenne l’argomento più discusso in casa; dalla mattina, quando suonava la sveglia, alla sera, dopo cena.
Mai qualcuno che avesse chiesto: « Tesoro, cosa ne pensi di questa idea? ».
Probabilmente avrei risposto che era un’idea di mersa – come quella del blog – ma almeno il mio ego si sarebbe gonfiato un pochino, sentendosi nuovamente preso in considerazione.
Invece niente. Quella blogger malata, di cui tutti parlavano, era solo virtuale.
 

« Vorrei che mi capitasse qualcosa di orrendo. Perché, se non posso essere diversa in modo positivo, allora lo sarei in modo negativo ».
Ma quel modo negativo davvero non l’ho capito, non ancora per lo meno. A dir la verità, non so neanche se esiste una differenza nel modo d’essere. Decidere che sia positivo o negativo è una convenzione, un qualcosa di soggettivo che si spaccia in giro come informazione obbiettiva e imparziale.
Insomma, una schifezza, in parole povere, anche quella.”

 
Alla fine fu mamma a darmi la notizia, era lei quella che più premeva per questa cosa – se fosse stato per mio padre, sarei potuta rimanere benissimo una reietta per tutta l’adolescenza.
In parte mi piaceva la sua filosofia di vita: “lascia che il tempo passi, cambi e cancelli”.
Il primo appuntamento con lo psicologo sarebbe stata la settimana seguente e, sospettavo, ne sarebbero seguiti una lunga serie.
Forse avrei potuto chiedere a Fena di accompagnarmi, lei ne aveva bisogno molto più di me.
Perché non ha senso venire etichettata come una spostata per i tuo soli pensieri, è un’idiozia. Ma è anche la verità.
 

“ A questo punto, per concludere il quadro, dovrei parlarvi anche dell’orgoglio. Ma di questo, ora, vogliate perdonarmi, non ne ho proprio voglia.
Accontentatevi di quello che ho scritto, ingozzatevi con le mie parole e cercate di non strozzarvi. Possono uccidere solo me, voi non ne avete il diritto. Condivido questi pensieri solo con l’ipotesi che qualcuno li possa leggere e mi sbellicherò dalle risate al pensiero che quel qualcuno tenterà di analizzarmi – come se questa in realtà fosse una seduta di psicanalisi e non qualcos’altro – e che qualcun altro proverà persino a capirmi.
Per favore, fatemi divertire. Avrei proprio bisogno di quattro risate.
Con affetto.
La vostra Decht.”

   
 
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