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Autore: lievebrezza    09/07/2012    25 recensioni
Kurt e Blaine, la Grande Mela e una prestigiosa scuola elementare.
Un bambino e una bambina, mezze verità e un tatuaggio.
Un grande fraintendimento, che potrebbe portarli a perdere una grande opportunità.
Daddy!Klaine
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Santana Lopez, Sebastian Smythe | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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SINGLE DADDIES ISSUES

 

 

 

 

Cap. 1

- Two mornings-

 

Su un comodino di rovere sbiancato, dalle linee morbide e la superficie lucida, una sveglia elettronica avvertì la persona che giaceva profondamente addormentata nel letto poco distante che erano le sei e trenta. Con uno sbadiglio soddisfatto e riposato, Kurt allungò elegantemente la mano fuori dalle coperte e pigiò il tasto rosso dell'allarme: il fastidioso e ripetitivo suono s'interruppe immediatamente e la stanza cadde nel confortevole silenzio dell'oscurità. Si stiracchiò per una manciata di secondi, poi gettò indietro le coperte, infilò i piedi nelle pantofole e lasciò il letto, ancora tiepido.

Kurt era una di quelle persone capaci di essere attive e presenti a se stesse fin dal momento in cui aprivano gli occhi al mattino; quell'innato talento di svegliarsi di buon'umore, accompagnato da otto irrinunciabili ore di sonno e dosi industriali di caffè, gli permetteva di non perdere nemmeno un minuto rotolandosi inutilmente nel letto.

Da sempre, era puntuale, efficiente e organizzato; questo l'aveva aiutato ad abbandonare i panni di stagista frustrato in favore di quelli di fashion editor in una importante rivista di moda. A essere del tutto sinceri, in realtà Kurt era l'assistente di Kara, una nevrotica quanto talentuosa quarantacinquenne che aveva svolto efficientemente il suo lavoro finchè suo marito non era fuggito all'estero, lasciandosi alle spalle una società finanziaria in rovina e almeno una decina di assatanati creditori. Anche se non poteva biasimarla per il collasso emotivo in cui era piombata, Kurt si era preso carico di tutti i suoi impegni e le sue mansioni; nonostante la fatica, portava avanti la maggior parte dei progetti con successo. Era solo questione di tempo, e il posto di Kara, ormai assente da settimane, sarebbe stato suo.

Canticchiando tra sé e sé, riordinò gli appunti e le fotografie che aveva studiato la sera precedente e li infilò nella sua valigetta di Vuitton, poi altrettanto serenamente si dedicò alla scelta del proprio outfit e a una rinvigorente doccia: entro le sette, era completamente vestito, sbarbato e con una tazza di caffè in mano. In bagno la lavatrice stava sballottando qua e là i panni che aveva diviso accuratamente per colore e in frigorifero era già pronto un sacchetto di carta marrone contenente il suo pranzo.

Un sandwich di pane integrale, con tofu alla griglia, pomodorini biologici e, unico strappo al rigoroso regime alimentare che si imponeva da anni, mezzo cucchiaino di maionese a basso contenuto di grassi. Ogni uomo ha le sue debolezze.

Kurt guardò dentro il sacchetto e conun sospiro aggiunse una mela. Quella del salutista era una vita dura e piena di sacrifici, ma il suo costante impegno era ripagato quotidianamente dalle occhiate di apprezzamento che il suo fisico asciutto e tonico riusciva a guadagnarsi. Madre Natura l'aveva anche dotato di un sederino invidiabile, ma mantenerlo in quelle condizioni straordinariamente sode era tutto merito suo.

Terminò di bere il caffè e s'avviò lungo il corridoio: era ora di svegliare la piccola Stella. La trovò con le sue lenzuola di Hello Kitty aggrovigliate intorno alle gambe e il pigiamino coordinato tutto sbottonato. Probabilmente l'agitazione dovuta al primo giorno nella nuova scuola le aveva impedito di dormire tranquillamente; i suoi vecchi amichetti le sarebbero mancati, ma le aveva promesso che sarebbero stati tutti presenti alla sua festa di compleanno.

“Stella? Tesoro, svegliati.” Le accarezzò gentilmente la guancia, poi scostò le tende e lasciò che la luce del sole mattutino filtrasse pigramente all'interno. Stella si strofinò gli occhi con la mano chiusa a pugno, poi li spalancò: l'azzurro che li caratterizzava riusciva ancora a lasciarlo senza fiato, di tanto in tanto. Perfino annebbiati dal sonno, gli occhi della figlia, dal taglio leggermente allungato ma grandi come i suoi, erano straordinari.

Con un sorriso, l'accompagnò in bagno: mentre Stella si lavava e indossava diligentemente la divisa dell'Istituto St. Patrick, lui si lavò i denti e spruzzò altra lacca sul suo ciuffo. Mentre annodava con gesti esperti il cravattino bordeaux, la bambina rise di gusto di fronte alla vanità del padre, ma non disse nulla; Kurt afferrò la spazzola e le riordinò i capelli, che si erano terribilmente annodati per via del sonno agitato, pettinandoli finchè non sembrarono una cascata d'oro; poi li acconciò in una treccia, che le cadde pesante tra le spalle.

Mentre lavorava sui capelli di Stella, Kurt cercò di capire quali fossero le preoccupazioni della figlia, che sembrava fare ogni azione meccanicamente, frenata dal nervosismo.

“Hai dormito male?” chiese tenendo strette tra i denti alcune forcine che sarebbero servite ad acchiappare le ciocche più ribelli.

“Ho sognato di andare in classe senza gonna e di essere presa in giro da tutti. Papà, perchè devo andare in quella scuola? Io voglio stare alla Louis... ti prego.” mugugnò lei, guardando verso lo specchio per incontrare lo sguardo di Kurt, in piedi dietro di lei.

“Stella, ne abbiamo già parlato. Lo sai che avrai un'istruzione migliore alla St. Patrick. E tutti i tuoi amici abitano in questo quartiere, li vedrai ogni giorno dopo la scuola, non li perderai di vista.” rispose lui, accarezzandole una spalla. Nonostante l'istuzione della St. Patrick fosse ottima, non era davvero quello il motivo per cui aveva deciso di trasferirla; avrebbe voluto dirle la verità, ma farlo avrebbe portato a domande cui ancora non sapeva come rispondere. Preferì elargirle un'affettuosa mezza verità, così come aveva fatto per tutta l'estate, e chiudere la questione; ne avevano parlato a lungo e in più occasioni, Stella sapeva benissimo che la decisione non era più negoziabile.

Volente o nolente, doveva fidarsi del giudizio di Kurt. Infatti, di fronte alla fermezza del padre, si lasciò sfuggire un sospiro rassegnato e spostò la conversazione sul film che nel weekend aveva guardato insieme a Finn e Rachel.

Perfettamente vestita, lo seguì in cucina, dove sedette composta mentre Kurt le preparava un toast e le versava della spremuta; in cucina non avevano la televisione, quindi continuarono a chiacchierare anche mentre Stella consumava la sua colazione.

Ovviamente, l'attenzione di Kurt per l'alimentazione era ancora più rigorosa quando si trattava di qualcosa che doveva finire nello stomaco della figlia; nel giro di pochi mesi, dopo la sua nascita, era diventato un esperto nel leggere le etichette e riconoscere gli additivi più dannosi. Si era interessato ai tessuti di origine biologica, privi di coloranti capaci di irritare una pelle sensibile come quella di un neonato, e di medicina naturale. Non voleva che la sua piccola assumesse anche solo una pillola in più del necessario, così si era informato su prevenzione, vitamine e vaccini.

“Vuoi che ti sbucci una mela?” chiese Kurt, dopo aver appoggiato la sua valigetta vicino alla porta d'ingresso e tornando dalla figlia, ancora seduta al tavolo e intenta a vuotare il bicchiere di succo con piccoli sorsi.

“Papà, ho nove anni, sono perfettamente in grado di sbucciarmi una mela, se ne ho voglia.” Stella roteò gli occhi e appoggiò il bicchiere, esasperata. Per quanto ancora suo padre l'avrebbe considerata una bambina?

“Non significa nulla, cara la mia signorinella. Io di anni ne ho venticinque e ancora chiamo lo zio Finn quando devo uccidere un ragno.” ribattè lui, riponendo le loro tazze e scodelle nella lavastoviglie. “Ma forse ora potrei rivolgermi a te, dato che sei una donna fatta e finita.” aggiunse, ironico. Stella rabbrividì al solo pensiero e scosse la testa con decisione.

“Posso andare a guardare la televisione, papà?” domandò invece. Era ancora presto, forse sarebbe riuscita a godersi una puntata dei Fantagenitori e scacciare l'agitazione che le attanagliava lo stomaco. Kurt chiuse con un colpo del fianco lo sportello e controllò l'orologio.

“Hai venti minuti, giusto il tempo di farmi riassettare le stanze e svuotare la lavatrice. Hai riordinato la tua stanza, ieri sera?” La bambina annuì, impaziente di tuffarsi sul divano. “E nello zaino hai messo tutto quello che era indicato nella lista della scuola?”

“Abbiamo controllato insieme, papà. Due volte.”

“Ok. Allora puoi andare.”

Stella battè le mani, ringraziò per la colazione e schizzò fuori dalla cucina; Kurt si dedicò alle ultime faccende e alle otto uscirono puntuali dal palazzo in cui si trovava il loro appartamento. Mentre Stella avanzava davanti a lui a passo di danza, si concesse un minuto per guardarla con attenzione: Kurt sapeva bene che ogni genitore considera il proprio figlio il più bello che esista, ma non riusciva comunque a trattenere il suo orgoglio: alta e dai lunghi capelli biondi, con gambe lunghe che sbucavano dalla gonna della divina e la risata contagiosa, Stella era la creatura più generosa, entusiasta e straordinaria che avesse mai incontrato. Kurt la amava perdutamente, fin da quando aveva appoggiato l'orecchio sul caldo pancione di Brittany e l'aveva sentita scalciare.

“So già che sarai perfetta.” aveva sussurrato, con le labbra vicine all'ombelico dell'amica. Brittany aveva riso, perchè la piccola le aveva solleticato la vescica, ed era scappata in bagno, lasciandolo con un sorriso ebete e il cuore un po' più grande di prima.

Le ripetè le stesse parole quando arrivarono davanti all'ingresso della scuola e la vide mordersi nervosamente il labbro: “So già che sarai perfetta. Ti adoreranno.”

Parcheggiò e le porse la mano. Stretta a suo padre, entrò nell'aula magna dell'istituto con passo pesante e la treccia che dondolava, quasi dotata di vita propria.

All'interno, c'erano pochi bambini: insieme cercarono l'insegnante del quarto anno, che annotò la presenza di Stella Hummel e l'accompagnò al suo posto, presentandola agli altri studenti già presenti. Quando notò che Kurt sembrava spaesato quanto la figlia, gli indicò gentilmente le file di poltroncine dove potevano accomodarsi i genitori, poi tornò a dedicarsi ai bambini.

Il discorso del direttore sarebbe stato alle otto e trenta, poi Kurt sarebbe andato al lavoro per le dieci; sfilò dalla valigetta il suo kindle e per distrarsi durante l'attesa s'immerse nella lettura dell'ultimo libro della Kinsella. Di tanto in tanto, alzò lo sguardo verso Stella, che stava già chiacchierando con due bambine e stava mostrando loro un braccialetto intrecciato che Kurt aveva trafugato da un servizio fotografico un paio di settimane prima.

Sorrise soddisfatto e aspettò l'inizio del discorso.

 

In un altro appartamento newyorkese, che sarebbe più corretto definire attico, una sveglia trillò insistementemente per la quinta volta. E per la quinta volta, una mano sbucò aggressiva da sotto le coperte, accompagnata da un grugnito infastidito, ed esplorò a tentoni la superficie del comodino fino ad afferrare l'aggeggio infermale e scuoterlo con forza. Quando finalmente Blaine riuscì a strappare la spina dalla presa, il fastidioso suono s'interruppe; tuttavia dopo il secco strattone la sveglia gli scivolò dalle dita e cadde a terra, costringendolo a sporgere la testa dal letto per constatare i danni.

A quel punto, accaddero tre cose contemporaneamente.

Prima di tutto, mentre apriva gli occhi e lasciava momentaneamente il mondo dei sogni, Blaine realizzò che la stanza era insolitamente inondata di luce, nonostante fossero a malapena le sette di mattina. Mentre la sua mente ancora addormentata elaborava pigramente una possibile spiegazione per quella incongruenza, lo sguardo gli cadde sul display della sveglia, bloccatosi su un orario inspiegabile.

“Non è possibile che manchino cinque minuti alle otto.” pensò Blaine, passandosi una mano tra i capelli arruffati. Qualche neurone, da qualche parte nel suo cervello, stava collegando la luce nella stanza all'ora indicata dalla sveglia e alle cinque assonnate manate che Blaine aveva assestato al bottone ogni volta che si azzardava a suonare.

Il ragionamento fu bruscamente interrotto da un bambino terrorizzato che gli piombò in camera, saltò sul letto e cominciò a strillare. Dakila sapeva essere davvero drammatico, quando ci si metteva d'impegno; aveva preso da sua madre, storica amante delle scenate.

“Siamo in ritardo!” disse agitato, rimbalzando sopra le coperte. Era ancora in pigiama e i suoi riccioli ribelli sfrecciavano ciascuno in una diversa direzione: per Blaine, fu come se un piccolo Medusa con addosso una maglia di Iron Man si fosse appena tuffato nel suo letto.

“Siamo in ritardo!” rispose Blaine, sgranando gli occhi. La consapevolezza della drammaticità della situazione lo schiaffeggiò in pieno viso: buttò indietro le coperte e si scapicollò fuori dal letto. Con le gambe ancora pesanti di sonno, urtò una pila di copioni e inciampò nei jeans che indossava il giorno prima; li afferrò grato. Almeno non doveva pensare a cosa mettersi. Mentre se li infilava, gridò a Daki, ancora sul letto, di correre in bagno e vestirsi.

“Non tutto è perduto!” disse più a se stesso che al bambino. Il suo inno d'incoraggiamento, declamato mentre si infilava una maglietta sgualcita, giuse attutito alle orecchie del ragazzino, in camera alla disperata ricerca della sua uniforme. Per ora aveva trovato solo i pantaloni.

“Non trovo la camicia! E la giacca! E la cravatta!” si lamentò disperato, stringendo in pugno i pantaloni. Blaine sbucò dalla sua stanza, saltellando su un piede mentre infilava maldestramente una Converse giallo forforescente; l'altra scarpa gli dondolava contro il petto, dato che la teneva stretta tra i denti per le stringhe.

“Sul letto?” bofonchiò, cercando di non perdere la scarpa mentre articolava la domanda.

“No.” Daki, in piedi al centro della stanza, in mutande, calzini e maglietta, allargò le braccia. Con quel movimento, le gambe dei pantaloni dondolarono come quelle di un povero spaventapasseri.

“Sotto il letto?” domandò ancora, infilandosi l'altra scarpa.

Un altro segno di diniego.

“Sul balcone?” provò ancora. A quelle parole, il bambino si illuminò e annuì trionfante. L'avevano appesa dopo averla usata per la cena con delitto del venerdì sera: Daki aveva vestito i panni di un avvocato assassinato brutalmente dopo un'arringa in tribunale. La divisa si era rivelata un perfetto strumento di scena, ma si era irrimediabilmente impolverata quando l'avevano fatto sdraiare a terra per fingersi cadavere. Erano due giorni che era appesa lì fuori, in paziente attesa di essere spazzolata. Blaine ringraziò il cielo che non avesse piovuto, quindi l'afferrò e gliela passò, non prima di averla scossa bruscamente.

“Sbrigati a metterla. Dov'è lo zaino?” Si guardò intorno, ma nel caos di quella stanza sarebbe stato impossibile trovare perfino un elefante. Riuscì a scovare lo zainetto incriminato dietro una poltroncina di Cars e ci ficcò dentro un paio di quaderni e l'astuccio di Daki; non aveva avuto il tempo di controllare l'elenco di materiali indicato dalla scuola, quindi nel dubbio aggiunse anche un compasso e un flauto.

E un paio di occhialini da nuoto, tanto per andare sul sicuro.

Quando raggiunse Daki in bagno, con un sorriso di vittoria stampato in viso, quell'espressione gli si congelò immediatamente: il bambino aveva allacciato in modo sbagliato i bottoni della camicia, le cui estremità gli penzolavano asimmetriche all'altezza delle cosce. Con la lingua stretta tra i denti e i pantaloni accartocciati intorno alle caviglie, Daki stava cercando di farsi il nodo alla cravatta, stropicciando irrimediabilmente quel povero pezzo di stoffa. Blaine chiuse per un istante gli occhi e respirò profondamente, aggiunse alla sua lista mentale di cose da fare una lezione di nodi, poi si tuffò sul piccolo.

Si rialzò soddisfatto dopo avergli sistemato la camicia e allacciato i pantaloni: memore dei suoi anni alla Dalton, riuscì a sistemagli il cravattino, che rimase comunque storto. Per il momento, era il massimo cui poteva aspirare; magari un giorno si sarebbe svegliato e miracolosamente sarebbe diventato uno di quei genitori perfetti, che si alzano in tempo al mattino e si ricordano di preparare lo zaino ai loro figli.

Guardò l'orologio, giusto per capire quanto tempo avevano impiegato per vestirsi. Erano quasi le otto e trenta, quindi tornò a guardare il bambino, che aveva infilato un dito nel colletto e stava allentando la stretta mortale di quel nodo approssimativo.

“Daki. Lavati i denti e la faccia. Subito.” ordinò in tono pratico e si chinò sul secondo lavandino del bagno, facendo lo stesso. Si asciugò rapidamente e non degnò nemmeno di uno sguardo la sua immagine riflessa: non ne aveva bisogno per sapere che aveva un aspetto pessimo. Che misera figura faceva, in quell'ambiente tutto marmi, cristalli e sanitari dalle forme moderne.

“Ma... io ho fame!” protestò il bambino, con lo spazzolino da denti stretto tra le dita e una cascata di dentifricio alla fragola che gli colava dalle labbra mentre parlava.

“Prendiamo una ciambella mentre andiamo a scuola, ok?” tagliò corto Blaine. Corse fuori dal bagno, alla disperata ricerca delle chiavi dello scooter e del portafogli; si fermò solo per un momento, contemplando l'enorme tela appesa in ingresso e il suo pesante tripudio di oro, bronzo e argento.

E il nero tentacolo che si aggrappava alle lamine metalliche delicatamente intracciate tra loro.

Stava di nuovo per perdersi pericolosamente nei ricordi, quando notò che sul pavimento del salotto c'era ancora appiccicato a terra lo scotch nero che avevano usato per disegnare la sagoma intorno al cadavere di Daki. Con un sospiro, ne aggiunse la rimozione alla lista di cose da fare entro sera.

Quando finalmente raggiunsero l'ingresso e salutarono Charles, il portiere del palazzo, erano le otto e quaranta; sprecarono altri cinque minuti da Dunkin' Donuts per acquistare quattro ciambelle ricoperte di zuccherini azzurri e glassa alla vaniglia, più altri dieci per raggiungere la scuola.

Abbandonò la Vespa davanti a un parcheggio riservato, afferrò la mano appiccicosa di Daki e lo trascinò con sé verso l'aula magna; quando fecero la loro apparizione aprendo una delle porte ai lati del palco, il preside interruppe il suo discorso e tutti i presenti si voltarono a guardarli.

Con ricci capelli neri disordinatamente schiacciati dal casco, gli abiti stropicciati e l'aria mortificata, Blaine e il piccolo sembravano due gocce d'acqua. O, per essere più corretti, due fratelli: in fondo, Blaine aveva appena venticinque anni, e Daki ne aveva appena compiuti nove.

Il ragazzo diede un colpetto al bambino, invitandolo a raggiungere i compagni, poi fece un cenno di scuse al preside, che lo fissava severo.

“Mi scusi.” bisbigliò imbarazzato. Cercò un posto libero tra le ultime file, per nascondersi da quegli occhi furibondi, ma senza successo; non voleva attirare ulteriore attenzione, quindi quando vide una mano indicargli un posto libero, si lasciò cadere sconfitto su una poltroncina della terza fila. Appoggò il caso in mezzo ai piedi e si voltò per ringraziare la persona seduta accanto a lui, che l'aveva gentilmente salvato da una situazione imbarazzante. Blaine alzò lo sguardo e per qualche istante pensò che forse la giornata aveva ancora qualcosa di buono da riservargli: davanti agli occhi aveva uno dei ragazzi più belli che avesse mai visto.

“Grazie. Questa mattina la sveglia non ha suonato.” mentì, chinandosi verso di lui per bisbigliare quella scusa. Stupidamente, non voleva che quel ragazzo lo prendesse per un poltrone. Cosa che non era affatto vera. Anche se Sebastian amava definirlo “accumulatore umano di ritardo”.

L'altro distolse l'attenzione dal preside solo per un momento e gli sorrise: “Sono cose che capitano, suppongo.”

Blaine non disse altro e lanciò una breve occhiata al preside, che nel frattempo aveva ripreso il suo soporifero discorso. Ne approfittò soprattutto per studiare con cura il viso del ragazzo, scoccandogli una raffica di discrete occhiatine: doveva avere più o meno la sua età e stava ascoltando con attenzione le parole del decrepito O'Malley. Dato che il discorso era lo stesso da trent'anni e la maggior parte dei genitori si limitava a simulare attenzione mentre controllava le email sul palmare, Blaine dedusse che il ragazzo era un nuovo acquisto della scuola. Un professore che desiderava fare bella figura, forse. O un consulente, ma di certo era troppo giovane per avere un figlio iscritto all'istituto.

Discretamente controllò l'anulare della mano sinistra, appoggiata al bracciolo. Nessuna fede.

Nella sua mente, l'ipotesi professore trattino consulente guadagnò punti.

Blaine procedette con la sua analisi: nonostante non fosse un esperto, era evidente che gli abiti del ragazzo erano particolarmente costosi e ricercati. La valigetta ai suoi piedi era di Vuitton e dalla zip sbucava un kindle, ultimo modello, avvolto in una custodia dall'aria lussuosa. Non riuscì comunque a inquadrarlo con sicurezza: nonostante la cura con cui erano stati evidentemente scelti, quei vestiti erano troppo particolari e di tendenza per essere adatti a un insegnante, soprattutto in una scuola tradizionalista come la St. Patrick.

E soprattutto, ogni singolo sensore del suo gayradar al momento era in stato di massima allerta. Il suo fiuto non sbagliava mai, perfino Sebastian s'azzardava a consultarlo, di tanto in tanto.

“Che noia mortale, non è vero?” sussurrò con aria complice sporgendosi verso di lui.

Kurt sussultò e si voltò sorpreso. Sembrò trovare inaccettabile che qualcuno si azzardasse e non prestare attenzione, in un giorno tanto importante; tuttavia non poteva che condividere quell'affermazione. Ridacchiò piano e Blaine s'illuminò: quando rideva, quel ragazzo era ancora più carino. Sorrise soddisfatto e si chinò sullo zaino per prendere la bottiglietta d'acqua che era sicuro di aver ficcato da qualche parte. Kurt ne approfittò per guardarlo con più attenzione; Blaine stava frugando dentro lo zaino appoggiato a terra vicino al casco e non poteva accorgersene. Nonostante la maglia macchiata di caffè, i capelli arruffati e i jeans stropicciati, Kurt dovette ammettere che era piuttosto carino, con quei lineamenti decisi e gli occhi color ambra.

Occhi che ora erano piantati nei suoi e ricambiavano il suo sguardo. Kurt arrossì e si girò rapidamente, fingendo di non aver fatto nulla di male. Per qualche istante, sentì gli occhi del ragazzo fissarlo, ma i suoi rimasero fissi sul collo rugoso del preside, mentre la sua mente macinava qualche ragionamento circa l'identità del suo compagno di poltrona.

Doveva essere il fratello del bambino che era entrato con lui nell'aula magna: erano due gocce d'acqua e il ragazzo sembrava davvero troppo giovane per avere un figlio di quell'età. Dato che poi il bambino si era seduto nella stessa fila di Stella, doveva essere nella sua classe.

Impossibile che fosse il padre. Quello doveva essere il fratello, forse il baby sitter, anche se in quel caso la somiglianza diventava una coincidenza inspiegabile. Ed era troppo in disordine per essere un professore.

“Ogni anno lo stesso discorso, puntuale come la morte.” borbottò a un certo punto, scocciato. Kurt aggrottò le sopracciglia e tornò a guardarlo, perplesso da quella lamentela.

“Sempre lo stesso?” domandò incuriosito. Blaine annuì e sussurrò una frase a bassa voce, che dopo dieci secondi il preside ripetè, esattamente parola per parola. Kurt sgranò gli occhi e l'altro gli scoccò un'occhiata compiaciuta, quasi da veterano.

“Visto?” commentò. Poi decise di passare all'attacco e provare a capire quale fosse, esattamente, il motivo per cui quel ragazzo si trovava lì. Provò a dare per scontato che fosse un professore alle prime armi: “Non preoccuparti se sei nuovo, ci farai l'abitudine, ai discorsi del vecchio O'Malley. I professori qui sono tutti gentilissimi, ti troverai bene.”

Kurt ascoltò attentamente la rassicurazione, senza capire il motivo per cui l'altro fosse preoccupato per lui. Ma c'era qualcosa in più. La sua voce era stranamente familiare, come se l'avesse sentita altre volte. Eppure era sicuro di non averlo mai visto.

Se lo sarebbe ricordato, un ragazzo così.

Scacciò la sensazione e rispose in tono pratico: “Non m'interessa che siano gentili con me, l'importante è che facciano bene il loro lavoro, no? Con la reputazione che la St. Patrick sembra vantare, non m'aspetto nulla di diverso.”

Blaine spalancò la bocca. Allora non era un professore?

Stava per azzardare un altro approccio, quando la folla di genitori cominciò a battere le mani: il discorso era finito, era il momento di salutare i propri figli e lasciarli alle loro lezioni. Kurt si unì all'applauso con entusiasmo e allungò il collo per cercare Stella: si era voltata e lo stava cercando, quandi alzò una mano e la salutò sorridendo, sforzandosi di sembrare rassicurante. In quella scuola erano tutti così composti e lui non voleva dare l'impressione di non prendere sul serio l'istruzione di sua figlia.

“E' tutto ok?” domandò a Blaine, quando lo scoprì intento a fissarlo. Stella si era alzata e li stava raggiungendo, così si alzò e afferrò la sua valigetta, pronto ad abbracciarla stretta e sussurrarle qualche parola di incoraggiamento.

“Come? Ah. Sì, certo. E' tua figlia, quella bambina?” domandò cauto Blaine. Nella sua mente, stava pensando a quante probabilità ci fossero che il ragazzo davanti a lui fosse un giovane e carino divorziato newyorkese. Non rimanevano altre spiegazioni.

Ma quando parlò, il viso di Kurt si illuminò. Non rispose alla domanda, che aveva bellamente ignorato, ma saltellò eccitato sul posto, sotto gli occhi stupefatti di Blaine: “Oh. Mio. Dio. Tu sei Fiyero, non è vero?”

Certo della sua intuizione, Kurt fece cenno a Stella di affrettarsi e le disse entusiasta, perdendo giusto un briciolo di quel contegno che fino a ora l'aveva caratterizzato: “Stella! Questo signore... è Fiyero!”

Blaine sorrise alla bambina, i cui occhi azzurri ricordavano tanto quelli del padre. Doppiare il cartone animato di Wicked era stato uno dei suoi più importanti incarichi, ma non gli era mai capitato di essere riconosciuto tanto rapidamente da un estraneo; dopotutto, si era trattato di una produzione poco pubblicizzata, cui non aveva preso parte nessun membro del cast. Ed era un peccato, perchè nonostante il budget ristretto e le critiche mosse al progetto, il cartoon si era rivelato un vero gioiellino.

“Ciao.” disse la bambina, rispondendo timida al suo sorriso e abbassando gli occhi sulle scarpe. Blaine aprì la bocca, ma non ebbe il tempo di dire nulla, perchè Kurt stava già intervenendo, correggendo con gentilezza il saluto della bambina: “Tesoro, non fare la timida e saluta per bene il signore.”

Stella alzò dunque lo sguardo da terra e piantò gli occhi su Blaine, salutandolo di nuovo: “Buongiorno signore, io sono Stella. Io e il mio papà Kurt guardiamo Wicked almeno una volta a settimana, ma a volte anche di più.”

“E' un piacere conoscerti, Stella. Io sono Blaine e...”

A Blaine si scaldò il cuore, accogliendo l'affetto della piccola fan con tenerezza, poi si rese conto che anche Dakila li aveva raggiunti ed era in piedi accanto a lui, osservando Kurt e la figlia con un'espressione perplessa. Blaine gli appoggiò una mano sulla spalla e avvicinò a sé.

“... e questo è mio figlio Dakila. Daki, per gli amici.” aggiunse.

I due bambini si fissarono per un momento, poi cominciarono a parlare delle lezioni e Daki sembrò più che felice di rispondere ai dubbi di Stella; nel giro di pochi istanti, stavano confabulando tra loro. Kurt e Blaine li osservarono, certi di essere testimoni della nascita di un'amicizia.

Il primo a riprendere la conversazione fu Kurt.

“Blaine, dunque. Finalmente conosco chi ha dato la voce al principe preferito di mia figlia.”

E il mio. Pensò tra sé, ma non lo disse ad alta voce. L'ultima cosa che desiderava era far correre per la scuola qualche pettegolezzo su di lui, rischiando di apparire una sorta di assatanato.

“Kurt, dunque. Finalmente conosco chi mi ha trovato una poltroncina libera e non mi ha lasciato in piedi come un fesso.” ribattè Blaine con un ghigno amichevole. Risero entrambi di cuore, guardagnandosi un'occhiataccia dai figli.

Nessuno dei due esternò le proprie perplessità sulla giovane età dell'altro, ben consci che non c'era mai una storia semplice, dietro a una paternità giunta tanto presto.

Nessuno dei due chiese all'altro il numero di telefono, convinto che l'altro fosse... sposato, divorziato, convivente, etero o disinteressato. Entrambi, mentre raggiungevano rispettivamente la propria auto e il proprio scooter, estrassero il cellulare e chiamarono il loro migliore amico. Senza speranze, né aspettative, raccontarono.

“Sebastian? Sono io. No, non siamo arrivati in ritardo. Cioè... non troppo. Comunque non ti chiamavo per questo. Non hai idea in che razza di papà mi sono imbattutto stamattina a scuola...” disse Blaine, collegando l'auricolare del casco al bluetooth del telefono. In sella alla Vespa, si tuffò del traffico newyorkese, accordandosi con Sebastian per concedergli ulteriori dettagli durante la pausa pranzo.

Lo stesso fece Kurt mentre si dirigeva verso il quartiere con la sede principale della rivista per cui lavorava. Ormai lavorava con Santana da anni e il fatto che Stella fosse, in un certo senso, figlia di Brittany, li aveva legati più di quanto avessero mai creduto possibile; era ancora amico di Rachel e Mercedes, ovviamente, ma con loro non riusciva a condividere tutto.

“Santana? Ciao strega, sto arrivando in ufficio. Ovvio che sono puntuale! Come osi stupirti ancora, dopo tutti questi anni? Sì, ho anche i progetti con me... altre novità? Uh... oggi ho conosciuto un papà che era il più carino che...”

 

 

 

Nda

Buonasera a tutti!

Sono Alice, aka Lievebrezza, aka LieveB, grazie di aver letto e di essere arrivati fino alla fine del capitolo.

La storia è una long che si articola in circa 5-6 capitoli, tutti più o meno di questa lunghezza. Aggiornerò ogni lunedì, ma per ogni info potete passare dalla mia pagina FB, che trovate qui.

 

   
 
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