Salve
a
tutti!
Non so
esattamente come potrei definire questa storia al di là dei
soliti schemi di
AU, Romantico, Introspettivo, eccetera.
Dipendesse
da me la definirei semplicemente storia d’amore ambientata nella Parigi del primo Novecento.
Non saprei spiegare da cosa mi sia partito il pallino per scrivere una cosa del
genere,
e immagino che mettendosi d’impegno si potrebbe trarne una
serie
interminabile di banalità e cliché, e tuttavia
è un racconto a cui sono
estremamente affezionata e che mi ha emozionato mentre lo scrivevo.
Spero possa
in qualche modo emozionare anche chi leggerà.
Buona
lettura! ^^
Panda
Cosa
nasce da un ritratto a carboncino
Ino
aveva
sempre pensato che Parigi fosse una
città meravigliosa.
Dal momento
in cui ne aveva ammirato un paesaggio dipinto ad acquerello quando non
era che
una bambina, non aveva desiderato altro che poterci abitare.
E quando
quel sogno era diventato realtà e lei, ignorando la rigida
morale borghese che
vedeva come una prostituta qualunque ragazza abitasse e si mantenesse
da sola,
aveva trovato per sé un minuscolo appartamento, non si era
mai stancata di
affacciarsi al balconcino per osservare il panorama.
Quella
mattina però Parigi non aveva nulla della città
romantica che tanto amava.
O meglio,
forse il romanticismo c’era, ma non era quello giusto: non
era quell’atmosfera
calda e avvolgente che accompagna un inizio, bensì quella
decadente e
malinconica che segna una fine.
Aggirò una
pozzanghera per non bagnarsi troppo nonostante portasse gli stivali, e
prese
spedita la lunghissima scalinata che portava su, verso la vetta della
città,
verso Montmartre.
Ogni volta
che aveva percorso quelle scale le erano parse infinite, ripide e
lunghe
com’erano; tuttavia quella mattina di marzo, non
capì davvero come mai, prima
di potersene rendere conto, era già arrivata in cima.
Proprio quel
giorno, in cui avrebbe volentieri salito scale all’infinito
pur di non
arrivare.
Invece l’imponente
Sacré Coeur era lì, davanti a lei, il colore
bianco splendente reso spento
dalla pioggia e dallo sfondo smunto del cielo grigio.
La
oltrepassò senza fermarsi e presto si trovò
davanti al luogo di Parigi che per
qualche mese aveva amato più di ogni altro, il quartiere
degli artisti.
Quel giorno,
dato il cattivo tempo, non era gremito dei piccoli chioschi degli
artisti che
ritraevano e vendevano le loro opere, perché i disegni
sarebbero stati rovinati
dagli schizzi d’acqua.
Le pareva
vuota e deprimente, quella piazzetta, così chiuse gli occhi
per un momento e
cercò di immaginarla secondo il ricordo che aveva della
prima volta in cui ci
era stata.
Il sole è quasi soffocante, e la ragazza
maledice la sua idea di aver lasciato sciolti i capelli, che ora la
infastidiscono e si appiccicano al viso.
Le carrozze per arrivare alla sua meta sono
troppo care, e d’altronde lei è fermamente decisa
a percorrere tutte le famose
scale che portano alla basilica di Montmartre; anche se deve ammettere
che non
è facile come aveva creduto all’inizio.
Gradino dopo gradino ignora i suoi piedi che
dai sandali alla moda le chiedono pietà – ha
camminato tutto il santo giorno
per sfruttare ogni secondo, mangiando solamente una crêpe al
volo per il pranzo
– e prosegue, incoraggiata dal frammento di cupola che
già può intravvedere.
Con un fiatone tremendo finalmente guadagna
la sommità del colle, e come se non fosse già
sufficientemente senza fiato,
trattiene il respiro non appena, giunta ad uno dei parapetti,
può vedere tutta
la città stendersi sotto di lei.
Magnifica.
Dopo essersi riposata un po’ decide di
esplorare il quartiere, così si allontana dal parapetto e
aggira il Sacré
Coeur, osservandolo estasiata, con l’intenzione di
addentrarsi un po’ di più
nel dedalo di viette che prima ha scorto appena arrivata in cima.
Oltrepassa definitivamente la basilica, e
dopo qualche secondo si ritrova davanti quello che, lo capisce
immediatamente,
è il quartiere degli artisti.
La piazzetta in cui è giunta non è
particolarmente grande, ma è pittoresca come poche: il
lastricato è sbreccato
ed irregolare, le casette a più piani che la circondano
sembrano essere vecchie
e i loro colori sono sbiaditi, gli alberelli nelle aiuole sono sottili
e
nodosi, ma ognuno di questi particolari non fa che accrescere il
fascino del luogo.
Tuttavia ciò su cui immediatamente l’occhio
ricade sono le decine di minuscole bancarelle e chioschetti, ognuno
occupato da
qualcuno che disegna.
Eccolo, il vero e proprio quartier des
artistes: miriadi di pittori, ritrattisti, disegnatori, che si
riuniscono e
vendono la propria arte per qualche soldo per le stradine di Montmartre.
Ino è senza parole: le vie circostanti sono
strette e tortuose, gremite di passanti, l’ambiente pare
quasi poco
raccomandabile, eppure la attrae oltre ogni dire.
Prendendo un po’ di coraggio inizia a farsi
strada per la piazzetta, passeggiando lentamente per i minuscoli e
stretti
corridoi creati dalle bancarelle accostate, osservando con attenzione i
lavori
esposti.
Vede dovunque acquerelli con scorci di
Parigi, o con i suoi simboli, Nôtre Dame, L’Arc du
Triomphe, il Sacré Coeur, la
Tour, la Seine.
Oppure ci sono altri meravigliosi lavori che
mostrano paesaggi fioriti, colorati, vivaci, o visi sorridenti, tristi,
seri,
ritratti a perfezione con ogni particolare.
Davvero deliziosi, pensa Ino, delicati,
tenui, non privi tuttavia della soffusa malinconia di fondo che pare
pervadere
sempre Parigi.
Declina scuotendo il capo con un sorriso
l’invito frenetico di un giovane ritrattista che pare voler
disegnare il suo
viso a tutti i costi, e ridacchiando prosegue il suo giro.
Verso l’estremità opposta della piazzetta
rispetto al punto da cui è partita si imbatte in una
bancarella un po’ più
piccola, leggermente in disparte rispetto alle altre, anche se la
posizione
sembra essere stata voluta.
Incuriosita si avvicina, ma quando posa gli
occhi sui disegni poggiati sul tavolino e sui cavalletti lì
accanto rimane per
un attimo interdetta.
Tra i tanti esposti la maggior parte è a
carboncino e solo pochi sono a colori, e si tratta comunque di tinte
per lo più
scure, marcate, sui toni del marrone, del rosso cupo,
dell’ocra.
Non paiono mostrare dei soggetti parigini, o
almeno non quelli che si è abituata a vedere nei disegni
precedenti: ciò che la
mano di quell’artista ha riversato sulla carta sono scene
lontane dalla
magnificenza della capitale francese.
Sono piccoli sobborghi umili, sono donne che
lavano stracci alle fontane comuni, sono bimbi infangati che giocano a
palla, vestiti
con gli abiti quotidiani delle classi più basse.
I monumenti e i simboli della città
compaiono poco e comunque a margine in quei disegni così
particolari.
È come uno sprazzo di realismo in quel
contesto dorato, ed Ino non può fare a meno di chiedersi di
chi siano le dita
che hanno tracciato così bene i contorni di quella che un
giorno apprenderà
essere la vera Parigi.
Così scruta con attenzione sotto la tendina
scolorita della bancarella, e si meraviglia nel vedere che, al
contrario di
quanto aveva in un primo momento supposto, l’artista non
è altro che un
ragazzo.
Vedendola avvicinarsi ha alzato gli occhi
dal suo lavoro, senza aprire bocca, così lo può
vedere bene in viso: è magro,
forse un po’ smunto, ha la pelle lievemente olivastra e i capelli scuri.
Gli occhi sono nerissimi, e le occhiaie
marcate li rendono più affascinanti, anche se lui non fa
assolutamente nulla
per apparire in qualche modo compiacente.
Anzi, il suo silenzio le comunica in qualche
modo una certa ritrosia.
Sentendosi imbarazzata e non sapendo cosa
dire si allontana, voltandogli le spalle in silenzio.
Non può vedere che nello stesso momento lui
ha riposto il foglio da disegno di cui si stava occupando e ne ha
estratto uno
bianco, intonso, dalla cartellina di fianco a sé,
osservandolo pensoso.
Ancora a disagio, e improvvisamente
percependo in un sol colpo tutta la stanchezza della giornata, Ino
scorge un
caffè lì vicino e si siede.
Ordina qualcosa di fresco e quando viene
servita sorseggia con calma, godendosi la brulicante
attività della piazza.
Dato che ormai è tardo pomeriggio non passa
molto tempo che parecchi degli artisti comincino a ripiegare le
strutture delle
bancarelle, a riporre i disegni e gli strumenti, a prepararsi per
tornare a
casa o dovunque trascorrano usualmente la notte.
Ino non può fare a meno di girare l’occhio
dove si è imbattuta, poco prima, nella bancarella del
ragazzo, e vede che anche
lui, con metodo e cura ma senza l’aria di importanza che si
danno in molti, ha
iniziato a sistemare i suoi disegni.
Non sa perché, ma guardarlo la mette in
soggezione.
Forse è perché non è riuscita a
parlargli,
lei che in genere non ha nessun problema ad attaccare bottone anche con
gli
sconosciuti, forse è perché lui non ha dato
nessun segnale di sorta a parte
quello di aver preso atto della sua presenza, quando si è
fermata a guardare,
ma di certo c’è qualcosa che la inquieta in lui.
Si impone di distogliere lo sguardo, e per
buona misura volta anche la testa dall’altra parte, guardando
il meraviglioso
tramonto su Parigi, quindi non lo vede avvicinarsi a lei, e dato
l’allegro
baccano di sottofondo non sente nemmeno i suoi passi.
Si avvede della sua presenza solo quando
sente qualcosa di leggero sfiorarle appena il gomito nudo, poggiato sul
tavolino, e sussultando gira il capo velocemente.
Il giovane è lì, e senza una parola le ha
posato accanto un foglio rigido di carta da disegno.
Ino lo prende e lo osserva, interdetta: è un
ritratto che mostra una ragazza mollemente adagiata sulla sedia di un
caffè, il
vestitino estivo e leggero un po’ stropicciato sulle gambe
accavallate, i
capelli sciolti e sfatti sul viso, un bicchiere nella mano piccola e
proporzionata.
È a carboncino, in bianco e nero, ma
c’è una
macchia di colore negli occhi della ragazza, che spiccano, dipinti in
acquerello azzurro cielo, tra i tratti scuri del resto del viso.
La fanciulla ritratta guarda verso il
fruitore, quindi Ino non può sbagliare: quello è
un suo ritratto,
indubbiamente, che il ragazzo deve averle fatto mentre lei era seduta e
sorbiva
la sua bibita.
È davvero splendido, accurato, espressivo:
vorrebbe ringraziare l’artista che l’ha creato, ma
quando alza lo sguardo in
cerca del ragazzo si accorge che lui non c’è
già più.
Quando
riaprì gli occhi naturalmente la piazzetta era semideserta e
vuota esattamente
come prima, bagnata dalla pioggia battente.
Nonostante
sapesse perfettamente che ricordare non avrebbe potuto cambiare nulla
non poté
trattenere un moto di stizza e delusione, e pestò lo
stivaletto per terra,
schizzando un po’ d’acqua intorno.
Si avvolse
meglio al collo il foulard e strinse forte il manico
dell’ombrello, imponendosi
di proseguire, e oltrepassò la piazza per inoltrarsi in una
delle vie che da
essa si diramavano.
Fortunatamente
la strada cha doveva percorrere non era lunga, così forse
avrebbe potuto
sperare di non essere totalmente fradicia una volta arrivata a
destinazione.
Camminò
sostenuta oltrepassando le casette addossate l’una
all’altra, fermandosi di
colpo davanti a quella che le interessava.
Ignorò il campanello
appeso di fianco al portoncino, e bussò con vigore sul legno
robusto e umido.
Non dovette
attendere molto, perché la serratura scattò solo
qualche secondo dopo ma la
porta rimase socchiusa, senza che nessuno l’aprisse per
accoglierla.
La giovane non
si fece impressionare ed entrò sicura, sebbene il senso di
tristezza e
malessere non facesse che aumentare.
Oltrepassò
un minuscolo corridoio d’ingresso e si ritrovò in
un soggiorno un po’ angusto
ma accogliente, con una grande finestra che nei giorni di sole lasciava
entrare
una luce intensa che illuminava tutta la stanza.
Pareva non
esserci anima viva, ma Ino sapeva dove cercare.
Si tolse il
cappottino e il foulard, lanciando tutto sul piccolo tavolo di legno,
gettò a
terra l’ombrello, incurante, e infilò diretta la
piccola scala a chiocciola che
portava al piano di sopra.
Si ritrovò
in uno studiolo, che oltrepassò senza guardarsi intorno, e
puntò alla porta
sulla parete opposta.
Quando entrò
in quell’ultima stanza – una camera da letto
– tutta la sua foga parve
abbandonarla, e si fermò un momento.
L’ambiente
non era molto grande, e tutti i mobili che lo costituivano erano
evidentemente
datati.
Ma, come nel
il resto della casa, ognuno era disposto con gusto, pulito con cura,
trattato
con modo, quindi la sensazione che si aveva non era di trovarsi in un
bugigattolo affittato per pochi soldi – come effettivamente
era – ma in un
ambiente intimo di gusto quasi vintage.
Ino non
aveva mai capito come lui potesse
rendere gradevole e bello tutto
ciò
su cui metteva le mani.
Posò uno
sguardo carezzevole sul letto matrimoniale, soffermandosi sul materasso
sottile, sulle lenzuola consunte e lise in alcuni punti, sulla trapunta
vissuta
per quanto in buono stato, cercando di arrestare i ricordi dolceamari
che si
affacciavano alla sua memoria.
Si riscosse
scuotendo il capo e voltò lo sguardo verso la parete alla
sua destra.
La grande
tenda appesa al soffitto era tirata, ma lei si avvicinò e la
scostò, rivelando
una veranda ricavata da quello che doveva essere stato un terrazzino.
Era come
trovarsi in una minuscola stanza dalle pareti di vetro, e in un certo
senso era
così.
Lui le aveva confidato che il motivo
per
cui aveva scelto quella casa era esattamente quella piccola veranda:
tenendo i
vetri adeguatamente puliti si poteva osservare gran parte del panorama
parigino
visibile da Montmartre, e si poteva avere luce per molte ore al giorno.
Due dettagli
importanti per un artista.
Non fu
sorpresa, quindi, di trovarlo lì, seduto davanti al
cavalletto, intento a
dipingere uno dei suoi rari acquerelli nonostante la luce quel giorno
non fosse
decisamente ideale.
Non diede
segno di aver preso coscienza del fatto che lei fosse lì, ma
era impossibile
che non se ne fosse accorto, e d’altronde solo lui poteva
averle aperto la
porta.
“Itachi.”
Quello di
Ino era stato solo un sussurro, ma il pennello che picchiettava
delicatamente
la tela si fermò a mezz’aria a due centimetri
dalla superficie che avrebbe
dovuto dipingere di nero, immobile.
La stava
ascoltando.
Ormai Ino conosce meglio Parigi, ha imparato
a destreggiarsi, ad orientarsi, a girarla senza perdersi.
Non è facile sopravvivere in una città
così
grande quando si è una ragazza che si mantiene da sola con
lavoretti onesti, ma
lei è sempre stata coraggiosa e tenace e passo passo ci sta
riuscendo.
Ha visto i grandi boulevard appena
costruiti, ha potuto ammirare, di sera, l’illuminazione
eccezionale che è valsa
a Parigi la denominazione di ville lumière.
Ha imparato che tutte quelle luci producono
anche altrettante ombre, e in quelle ombre si nasconde una
realtà che il resto
del mondo non immagina, una realtà che nemmeno la
rivoluzione, a suo tempo, ha
potuto cambiare, fatta di rinunce, stenti, malattie, sporcizia.
Una realtà a cui lei è scampata solo grazie
al suo bel viso e al suo carattere solare, che le hanno permesso di
trovare
impiego come cameriera in un ristorantino in Rue des Champs
Eliseés guadagnando
quel tanto che basta per pagare l’affitto del suo
appartamento e comprarsi del
cibo e qualche abito.
Si è fatta perfino qualche amica, lì: ha
conosciuto Sakura, un’infermiera che spera un giorno di
diventare un medico, e
nel frattempo studia di notte con i libri che di nascosto ruba in
ospedale per
poi riportarli una volta letti; Tenten, l’aiutante della
sartina che le ha
fornito la sua divisa da cameriera; Temari, una ballerina del Moulin
Rouge, il
leggendario locale notturno; Hinata, una giovane nobildonna che, contro
la
disapprovazione della sua famiglia, giunge nella sua carrozza fino
all’estrema
banlieue* per aiutare la povera gente.
Proprio a quest’ultima Ino deve un grande,
grandissimo favore.
Perché da quando il giovane artista le ha
lasciato quello splendido ritratto per poi scomparire, lei
l’ha cercato:
pentita per non essere riuscita a trovare il coraggio di rivolgergli la
parola,
e desiderosa di conoscere la ragione che l’ha spinto a
ritrarla, è tornata
spessissimo su a Montmartre per cercare la sua bancarella, ma non ha
avuto
fortuna.
Stava giusto per gettare la spugna quando un
giorno ha invitato le ragazze nel suo piccolo rifugio per un the,
Hinata ha
visto il foglio appoggiato sul comò ed ha riconosciuto lo
stile.
In effetti a posteriori Ino ha concluso che
è abbastanza logico: l’artista per ritrarre i suoi
soggetti deve girare spesso
i bassi fondi, ed Hinata li frequenta abitualmente per assistere gli
umili,
dunque non è strano che sappia chi sia.
Le ha detto che non si sa molto di lui, dato
che è parecchio schivo e si limita a stare in un angolo per
osservare e
abbozzare i suoi schizzi, ma si è ricordata il suo nome.
Per questo Ino adesso si ritrova eccitata ed
euforica nuovamente al quartier des artistes alla frenetica ricerca di
Uchiha
Itachi.
Ormai è stata talmente tante volte nella
zona del Sacré Coeur da aver capito che quel posto non
è solo il ricettacolo
dei pittori, ma di tutti gli artisti, quindi non si sorprende, nella
sua
passeggiata, di imbattersi in ogni genere di dimostrazione artistica.
Continuando ad osservarsi freneticamente
intorno, lascia la piazzetta principale: con il tempo ha appurato che
quella
non è che la facciata del quartiere, quindi si scosta subito
dalle vie più
frequentate per addentrarsi veloce nei viottoli tortuosi che sono il
vero cuore
pulsante di Montmartre.
Hinata le ha detto che lui non scende spesso
dalla sua zona e che nemmeno si stanzia di frequente con la sua
bancarella per
vendere i suoi disegni; se vuole trovarlo, le ha consigliato, la cosa
migliore
è armarsi di pazienza e prudenza e cercare nei luoghi meno
in vista con
discrezione, magari chiedendo a qualcuno tra gli artisti che
incontrerà.
Però Ino deve ammettere che da come l’aveva
immaginata la cosa le era sembrata più semplice di
così.
Montmartre era un quartiere misterioso,
affascinante ed intricato, certo, ma pur sempre una zona circoscritta,
e lei si
era inizialmente persuasa che battendolo palmo a palmo, a costo di
impiegare
tutto il limitato tempo libero che il lavoro le concede, il suo piano
non
sarebbe stato così irrealizzabile, tanto più che
lei conosce il suo nome.
Ma adesso, con i piedi doloranti e dopo
essersi sentita dire varie volte che sì, lui bazzica per
quei posti ma non ha
un luogo favorito, deve ammettere di non aver dato il giusto peso alla
portata
dell’impresa.
Le pare di inseguire un filo di fumo: non ha
nemmeno fatto in tempo ad accertarsi che ci sia veramente, che
già si è
dissolto.
Pensando che l’indomani dovrà essere al
ristorante per lavorare, e dunque non può permettersi di
essere troppo stanca,
decide di cenare al volo in una delle numerose piccole locande che ha
intravisto nella sua ricerca per poi tornare a casa a farsi una bella
dormita.
Costringe le sue gambe a fare un ulteriore
sforzo e si tira in piedi.
Senza andare troppo lontano si dirige verso
la piccola taverna che fa angolo con la strada in cui si trova, e
quando entra
un’ostessa giunonica e sorridente le indica un tavolino
libero.
Si siede, ordina la specialità del giorno e
mentre attende tira fuori dalla tracolla che si è portata
dietro il ritratto,
arrotolato con cura. Lo svolge e ne liscia gli angoli, attenta a non
rovinarlo
anche se la carta da disegno è spessa e resistente.
Quando l’ostessa arriva portandole la sua
zuppa lo mostra anche a lei, riferendole chi è
l’autore e chiedendole se per
caso sa dove potrebbe trovarlo.
“Cara, mi dispiace.” le risponde la donna
“So che si aggira spesso da queste parti, ed una volta credo
che abbia pure
mangiato qui, ma in genere appare in orari improponibili, quindi credo
che
pochi di quelli che lo conoscono sappiano dove sia casa sua, ammesso
che ce
l’abbia.”
È stata molto gentile e pare davvero
dispiaciuta, quindi Ino fa uno sforzo per celare la delusione.
“Capisco” risponde con dolcezza. “Grazie
lo
stesso.”
La donna le fa un ultimo sorriso dispiaciuto
e corre a servire qualche altro cliente mentre Ino appoggia il foglio
sul
tavolo, un po’ sconsolata, e attacca la sua zuppa.
“Io so dove lo puoi trovare.” le dice una
vocetta sottile, facendola trasalire.
La giovane si volta di scatto, un po’
spaventata un po’ sorpresa, e si ritrova faccia a faccia con
un bambino, uno
dei tanti che nella serata estiva ancora sono in giro a giocare, mentre
i
genitori lavorano.
“Come, scusa?” gli chiede.
“Io so dove puoi trovare Itachi Uchiha.” Le
ripete lui con aria saputa.
“Oh, davvero? E come faresti tu a saperlo?”
gli ribatte con un sorriso conciliante.
“Perché lui mi ha disegnato, una volta.”
Ino si fa improvvisamente attenta.
“Disegnato?”
“Sì. Un disegno in cui c’ero io con mio
fratello, e ci ha chiesto di raggiungerlo a casa sua perché
potesse lavorare
più tranquillo. Quindi so dove abita.”
Lei non sa se credergli, perché quel
ragazzino potrebbe tranquillamente aver deciso di prenderla
allegramente per il
naso, ma d’altronde non vede cosa potrebbe ricavarci a
raccontarle una bugia, a
parte, certo, un po’ di sano, puro divertimento.
“Mh, siamo sicuri che c’è da fidarsi? Tu
mi
sembri un po’ monello, sai.” gli risponde con una
linguaccia scherzosa,
pizzicandogli senza forza una guancia.
Il bimbo mette su un’espressione seria e
sostenuta, guardandola con sfida.
“Per una crêpe se vuoi ti ci posso anche
accompagnare io.”
Ino lo soppesa per un po’, infine sorride
apertamente ed estrae il borsellino.
“Almeno
rispondimi.” Ino si irritò con se stessa per il
suono della propria voce, che
era stata decisamente meno aspra di quanto volesse. Quasi implorante,
in
effetti.
Itachi
espirò il fiato in un sospiro appena udibile, quindi
abbassò il pennello
appoggiandolo al piccolo mobile su cui teneva a portata di mano
qualunque cosa
gli potesse servire mentre dipingeva.
“Ti ascolto,
e non vedo cosa potrei replicare prima che tu abbia finito di parlare.
Lo sai
che io non spreco le parole.”
Era stata
una frase casuale, pronunciata senza durezza o acredine particolari,
con un
tono quasi carezzevole, tuttavia ebbe il potere di ferirla.
Certo non
era stato esplicito, ma suonava molto come un ‘non perdo il
mio tempo per
risponderti’.
Cercò di
incassare il colpo senza darlo a vedere, per non dargli la sensazione
di essere
ancora un’adolescente immatura e insipida.
“Lo sai bene
che questo tuo distacco volontario da povero artista incompreso non ha
più
nessun effetto su di me, Itachi.”
Le parole
dovevano averlo in qualche modo colpito, perché per la prima
volta alzò gli
occhi su di lei.
Non era uno
sguardo che sembrasse in qualche modo offeso o arrabbiato, ma era
penetrante in
modo quasi doloroso, ed Ino capì che doveva andarci piano.
Non era
affatto semplice far arrabbiare Itachi, però le rare volte
in cui l’aveva visto
furioso il primo sintomo era stato quell’occhiata
apparentemente ricognitiva ma
intimamente risentita.
D’altronde
aveva parlato della sua arte con quel preciso intento,
perché era, forse, il
suo unico punto debole.
Con una
noncuranza che rasentava l’indifferenza totale – sì, si era offeso –
lui riportò gli occhi a scrutare il dipinto.
“Vuoi
parlare oppure no?”
Ino fece
forza su se stessa per impedirsi di sentirsi ferita da tutto quel
distacco.
Perché non
era solo questione della frase detta poco prima, lo sentiva distante da
qualche
settimana e non riusciva davvero a non pensare all’inizio, quando l’aveva
squadrata con quei suoi occhi critici e le
era parso venire da un altro pianeta.
“Non puoi veramente
andare via.”
Ormai era
impossibile sfuggire all’argomento, anche se entrambi avevano
saputo sin dall’inizio
che quello era il problema.
Con estrema
lentezza, senza rispondere – non l’avesse
conosciuto bene, Ino avrebbe pensato
che la stesse prendendo in giro, o che godesse nel saperla soffrire
– lui
riprese in mano il pennello, assottigliando appena gli occhi, e riprese
a
passarne la punta inumidita sulla tela, con minuziosa precisione.
“Perché non
posso? Parigi non è la mia città. La Francia non
è la mia patria. Lo sai bene.”
Ino lo
sapeva bene.
Dalla prima
volta in cui l’aveva visto aveva compreso subito che lui non poteva essere della zona.
Nemmeno lei
era parigina, d’accordo, ma veniva da Lione; e più
di una volta, come
complimento, si era sentita dire che era una tipica bellezza francese.
Ma lui, con
quei capelli e quegli occhi nerissimi, le lunghe ciglia, la carnagione
non
proprio scura ma lievemente olivastra, di francese non aveva nulla.
Così come il
suo accento, che non era tipico di nessuna regione, ma aveva una vaga
cadenza
straniera che urlava Spagna ad ogni sillaba.
“Commovente
la tua nostalgia per Siviglia, per quanto inaspettata. Non ho mai avuto
l’impressione che apprezzassi tanto la tua città
d’origine.” Fece Ino. “O
magari ti manca tuo padre.” Aggiunse, mordace.
Stava
tirando troppo la corda, ma non le importava.
Lo sguardo
di Itachi su di lei fu perforante, stavolta.
Non un
mutamento d’espressione, non un movimento brusco, non un
sospiro infastidito,
nemmeno una parola. Eppure
i suoi occhi…
Lui posò il
pennello e si alzò, rinunciando definitivamente a dipingere,
tanto quel giorno
non avrebbe avuto la concentrazione necessaria.
“Non credo
di avere bisogno di una giustificazione per tornare a casa mia da un
posto che
non lo è.”
Questo era
un colpo basso in risposta alla sua frecciata, riconobbe Ino, che
alzò il mento
sforzandosi di guardarlo con indifferenza.
“Benissimo.”
Rimasero a
guardarsi, lei con aria di sfida, lui con quella placida tenacia che
l’aveva
sempre contraddistinto; nessuno dei due avrebbe ceduto facilmente.
“Meglio che
io ti lasci ultimare i preparativi in pace, avrai un sacco di cose da
fare.”
Concluse Ino quando avvertì di non poter più
sostenere né il silenzio né lo
sguardo dell’altro, facendo già per incamminarsi
di sotto.
“Il mio
treno parte tra una settimana, avrò tutto il tempo per fare
le valigie.”
Rispose lui, bloccandola.
Ino si voltò
e i loro occhi si incontrarono di nuovo, privi della determinazione di
poco
prima.
Entrambi
avevano ceduto.
“Come vuoi”
soffiò lei, incapace di opporsi all’implicito
invito. “Preparo del the.”
Itachi
assentì con un cenno del capo.
Ino riconosce la strada dove il bambino
l’ha
accompagnata: non è affatto distante dalla piazzetta
principale, anzi ne è una
laterale diretta.
Cerca di non perderlo tra la folla, seguendo
il suo berrettino azzurro e impolverato, e si ferma con lui davanti
alla porta
che le sta indicando.
“Qui?” gli chiede, con un po’ di fiatone.
Il bambino annuisce.
“Grazie allora, proverò a vedere se è
in
casa.”
Ino fa per tirare la catenella per muovere
il batacchio della piccola campana accanto allo stipite, ma viene
bloccata.
“Bussa forte alla porta, non suonare il
campanello. Quel rumore gli dà fastidio.”
L’avverte il ragazzino.
Ino gli scompiglia i capelli con un sorriso,
poi lo guarda per qualche secondo mentre si allontana.
Si volta nuovamente verso la massiccia porta
di legno, improvvisamente dubbiosa.
Cosa potrebbe dirgli, dopo essergli capitata
in casa all’improvviso? ‘Ciao, come va?
Perché mi hai disegnato questo
ritratto?’. Sarebbe ridicolo.
Eppure decide che ci penserà a momento
debito. Dopotutto lui potrebbe anche non essere in casa.
Si fa coraggio e con il pugno chiuso bussa
ripetutamente ed energicamente sul vecchio legno robusto.
Attende qualche secondo, indecisa tra la
curiosità di vederlo e l’improvvisa impellenza di
allontanarsi di lì, fino a
quando non sente la porta scattare e la vede scostarsi di qualche
centimetro,
giusto il necessario per permettere a chi l’ha aperta di
sbirciare.
Ino riconosce subito gli occhi, le iridi
scure, le ciglia lunghe, le occhiaie marcate. Non
c’è dubbio, è lui.
La porta si scosta ancora un po’ e appare
interamente il suo viso.
Di certo non è una persona espansiva, eppure
c’è di sicuro una qualche forma di stupita
curiosità in quelle sopracciglia
inarcate e in quel capo che si piega di lato, mentre gli occhi
rimangono fissi
su di lei.
“Sì?”
Ino si rende improvvisamente conto che non
aveva mai sentito la sua voce.
È bassa, vellutata, eppure non
particolarmente carezzevole. Neutra, si direbbe.
Poi si rende conto che magari è anche il
caso di rispondergli.
“S-salve, non so se vi ricordate di me.”
Estrae il disegno arrotolato dalla borsa, svolgendolo e
mostrandoglielo. “Mi
avete lasciato questo al tavolino di un bar nella piazza, qualche
settimana
fa.”
Lui continua a guardarla, impassibile.
“Mi ricordo.”
Una strana cadenza straniera nel suo
francese che pure pare scorrevolissimo.
“Oh, beh… Naturalmente so che un artista
ritrae ciò che vede, quindi magari che io appaia in uno dei
vostri disegni non
è nulla di strano.” Ino sta parlando
deliberatamente a vanvera e per qualche
motivo sa che lui se ne è accorto. “Mi chiedevo
semplicemente perché me
l’aveste lasciato invece di esporlo con gli altri.”
Itachi Uchiha potrebbe ridere di lei,
chiederle come mai invece di tenersi il disegno e appenderlo in salotto
abbia
imbastito una ricerca così esagerata per trovarne
l’autore, o semplicemente
chiuderle la porta in faccia, ma non lo fa.
Si limita a guardarla con il capo ancora
piegato, placido, e le risponde con tranquillità che “Non
c’è una ragione precisa perché io te lo
abbia lasciato.”
Le da subito del tu, senza chiamarla
signorina o altro, ed Ino lo nota. Però non le dà
l’idea di una mancanza di
rispetto.
“Oh.
Beh, non è che fosse così importante, era
più che altro una
curiosità…”
farfuglia ridacchiando nervosamente, cercando di tirarsi fuori da
quella
situazione imbarazzante, sentendosi improvvisamente inopportuna come
non mai.
“Ma dopotutto” riprende con nuovo slancio
“mi avete lasciato un disegno bellissimo e io non vi ho
pagato, quindi se c’è
qualcosa che posso fare per voi…”.
“Il disegno è un regalo e non voglio niente
in cambio.” Le risponde con tono secco. “Ma se vuoi
fare qualcosa per me
potresti, a parte darmi del tu, posare per un altro ritratto.”
Ino è abbastanza disorientata. Da una
persona che pareva così schiva si aspettava che, nel
peggiore dei casi, non le
aprisse nemmeno la porta. E quell’invito, dopo un dialogo
rigido da parte sua,
la lascia un po’ spiazzata. Non sarà mica un
maniaco o qualcosa del genere?
“Non devi sentirti obbligata” riprende lui a
bassa voce. “Dopotutto non mi conosci.”
Però Ino è incredibilmente attratta dal
comportamento distaccato e lontano dell’artista, e ha sempre
preferito il
rimorso per aver sbagliato che il rimpianto di non aver tentato.
“Oh no, nessun problema per me, poserò
volentieri per un altro disegno.”
“Domani intorno all’ora di pranzo qui da me
ti andrebbe bene?” Le chiede. “Non serve un
abbigliamento particolare. Mi
interessa il tuo viso.” Conclude, piantandole uno sguardo
penetrante nelle
iridi cerulee.
Ino si sente arrossire.
“Va benissimo. A domani a mezzogiorno,
allora.”
Itachi la omaggia di un lieve cenno del capo
e senza aggiungere altro chiude la porta con uno scatto.
Erano
scesi
di sotto, in salotto, e si erano accomodati sul tavolo rettangolare di
legno,
da cui Ino aveva spostato le sue cose.
Ora stavano
seduti l’uno davanti all’altra, ognuno scrutando le
profondità della propria
tazza di the come se potesse trovarvi un appiglio per uscire da quella
situazione spinosa.
“Vorrei che
tu mi spiegassi perché te ne vuoi andare.” Irruppe
d’un tratto Ino.
“Lascia
perdere.” Sussurrò lui, apparentemente
rivolgendosi più che altro a se stesso.
“No, non
lascio perdere. Nessuno dei due può vantare una vita
perfetta, ma credevo che
tu fossi felice, qui.” Per la prima volta da quando era
arrivata lei si lasciò
andare ad un gesto che tradisse il genere di legame che li aveva uniti
fino a
quel momento. Allungò una mano per accarezzargli il viso,
costringendolo ad
alzarlo e a guardarla negli occhi.
“Qui hai una
tua casa, anche se è piccola e in affitto. Qui hai la tua
vita, la tua arte.”
Si fece coraggio per terminare la frase. “Qui hai…
me. So
che c’è qualcosa
che non vuoi dirmi che ti spinge a voler partire.”
Si rendeva
conto di parlare con una certa dose di presunzione.
Ma poteva dire di
conoscerlo e non vedeva
davvero nessuna ragione per cui lui dovesse andarsene: aveva sempre
detestato
la Spagna.
Itachi si
passò una mano sugli occhi, lasciandosi andare ad un sospiro
frustrato.
“Non credere
che a me piaccia l’idea di andarmene con la prospettiva di
non tornare.”
“Ma allora
rimani qui come hai fatto finora, dov’è il
problema? Cos’è che ti costringe a
partire?!”
Se Itachi
aveva un difetto, constatò Ino, era che poteva essere
difficile cavargli le
parole di bocca; in aggiunta alla sensazione orribile che il solo
pensiero
della partenza di lui le procurava, c’era anche la
frustrazione di non essere
assolutamente in grado di comprendere quale fosse la ragione.
Itachi
abbassò lo sguardo, e pareva trovare profondamente
interessante il contenuto della
propria tazza.
“I miei
genitori sono morti.” pronunciò alla fine a bassa
voce, lapidario. “Tutti e
due. Assassinati durante un viaggio d’affari.”
Ino spalancò
gli occhi e rimase interdetta per un attimo. Itachi aveva sempre avuto
attriti
profondi con suo padre, dovuti principalmente al fatto che non voleva
che la
sua vita fosse programmata in base alle aspettative paterne, ma questo
naturalmente non significava che la sua morte gli fosse gradita.
Per non
parlare di quella di sua madre Mikoto, poi, cui era stato sempre
profondamene
legato.
“Quindi…?”
“Quindi devo
tornare in Spagna, e prendere possesso delle nostre
proprietà. Cominciare ad
amministrare le nostre terre, ad occuparmi di ciò di cui
prima si occupava mio
padre.”
“Ma c’è tuo
fratello.”
“Non posso
lasciare a Sasuke l’intera responsabilità, non
è pronto. Nessuno si aspettava
un’eventualità del genere, quindi nessuno si
è preparato. Lui non ha idea di
come si amministri un patrimonio simile. Io stesso non so bene cosa
dovrò fare.
Ma sono il maggiore e devo rientrare, ed occuparmi del problema, almeno
per
ora.”
“Ma forse un
giorno potrai tornare.”
Itachi
sospirò sommessamente.
“Forse. Ma
sicuramente non tra un mese, o tra una stagione, o tra un anno. Ci
vorrà del
tempo.”
La voce di
Ino fu tagliente.
“Tu non hai
mai amato quel posto. Non hai mai amato le attività di tuo
padre. Non hai mai
sentito alcun legame… Perché ora dovresti
tornare?”
“Sasuke non
accetta di venire qui, e io non posso lasciarlo solo. E poi non
possiamo
abbandonare tutte le nostre proprietà come niente fosse.
Qualcuno deve pur
amministrarle e anche volendo nominare un giorno una persona che lo
faccia per
noi non possiamo farlo senza prima conoscere bene ciò che
è nostro.
Devo tornare
a Siviglia. Devo ritrovare Sasuke. Dobbiamo mandare avanti
ciò che nostro padre
ci ha lasciato. Non ho alternative.”
Il
cucchiaino tintinnò con un rumore fastidioso nella tazza quando Ino lo
lasciò
cadere, ma nessuno dei due sembrò farci caso.
“Per
favore”, disse Ino. “Per favore, trova
un’altra soluzione.”
Itachi le
rispose con una voce sommessa che parve sopraffatta.
“Non dipende
da me.”
Si è presa un giorno di permesso dal suo
lavoro di cameriera per poter andare all’appuntamento.
Questo significa un giorno in meno di paga,
ma ad Ino non importa.
Nel brulichio del quartiere degli artisti scansa la folla per arrivare a quella casa,
e quando finalmente la guadagna ignora il campanello e bussa
energicamente.
Mentre attende che il padrone di casa le
apra, si specchia sulla finestra appannata della casa vicina.
Ha raccolto i capelli in uno chignon
elegante e indossato uno dei suoi vestiti migliori – di un
rosso cupo, che
contrasta con la sua carnagione chiara e si stringe delicatamente sui
fianchi
disegnandole la vita sottile.
Sa di essere bellissima e diversi uomini si
sono voltati a guardarla mentre passava lungo il tragitto dagli Champs
Elisées,
provocandole una sensazione solleticante di imbarazzo misto a
compiacimento che
le ha imporporato le guance a varie battute.
Dopo pochi secondi la porta si apre,
rimanendo sbaciata, e lei chiedendo timidamente
“Permesso?” entra nell’ambiente
fresco e semibuio.
“Da questa parte.”
La situazione è ben strana, ma lei si sente
sospesa e non ci fa caso. Seguendo una lama di luce e la voce sommessa
varca la
soglia di un salotto, e lui è lì che sul tavolo
affila la punta di un
carboncino.
“Salve.” Lo saluta, timida.
In risposta ottiene un cenno del capo, poi
lui si alza e “Seguimi di sopra”, le dice.
Ino è indispettita, ora.
Sa di essere perfetta. Sa di essere bella.
Ma lui no, lui non lo nota.
Non dà l’idea di aver visto qualcosa di
diverso da una persona come un’altra.
Lo segue e si inerpica per le scale,
seguendolo in una camera da letto. Per un attimo si irrigidisce
osservando il
materasso e temendo il peggio, ma poi lui tira una tenda che nasconde
un amore
di veranda.
Fortunatamente il sole lì non batte, quindi
si può usufruire della luce senza soffocare.
Le trascina sotto i vetri una poltrona di
cuoio marrone scuro, e le indica di sedersi.
“Non serve una posizione specifica?” chiede
lei intimorita da tutto quel silenzio solenne.
“No, siedi pure come ti viene naturale.”
Mentre Ino si accomoda anche lui si
appollaia su di uno sgabello giusto davanti a lei, abbastanza vicino da
poterla
toccare allungando un braccio, e posiziona un foglio poroso da disegno
su di un
supporto rigido in legno che appoggia sul ginocchio accavallato.
E inizia a osservare la carta bianca, assorto.
Come tirata da un filo invisibile Ino si
sporge in avanti, verso il volto corrucciato del giovane, una mano
chiara a
reggere il viso, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona.
Lo sguardo di Itachi si leva dal foglio e si
pianta nei suoi occhi, intenso e concentrato.
Il tempo si ferma.
L’aria si congela.
Il carboncino gratta lieve sulla superficie
ruvida della carta.
Il
sospiro
che giunse incontrollato dalle labbra piene della ragazza valeva
più di cento
frasi, e spiegava la sua frustrazione, la tristezza, il senso di
oppressione e
inutilità che provava.
Nessuna
delle sue parole era servita per convincerlo di avere una buona ragione
per
rimanere.
Anche se non
le aveva detto nulla che potesse persuaderla di essere poco importante
per lui,
il solo fatto che la loro lontananza non lo straziasse al punto da
convincerlo
a tentare il tutto per tutto pur di non lasciare la Francia la induceva
a
ritenersi superflua.
E al tempo
stesso comprendeva le ragioni di Itachi, e si sentiva egoista nel
chiedergli
qualcosa che non poteva darle. E anche per non essere in grado di
offrirsi di accompagnarlo lei. Ma poteva? Poteva lasciare la Francia,
e Parigi, che era il suo amato mondo?
Era immersa
nelle sue riflessioni al punto che non l’aveva udito alzarsi
e avvicinarsi. Ora
era alle sue spalle.
Ad un tratto il grattare sommesso del
carboncino si interrompe.
Ino vede lo sguardo di Itachi spostarsi
dal foglio al suo viso.
Solo la terza volta in vita sua che lo vede.
Nemmeno cento parole scambiate tra loro, in
totale, o così le pare ripensandoci.
Non dovrebbe esserci la familiarità che
sente, né l’intimità che istintivamente
avverte.
Non dovrebbe anelare con tanta violenza un
contatto da parte di lui, eppure quando lo vede posare per un momento
il
carboncino sul piccolo tavolo lì accanto ed allungare una
mano verso di lei non
riesce a trattenersi dal socchiudere gli occhi in frenetica attesa
delle sue
dita sulla propria pelle.
Chinandosi in avanti per raggiungerla con la
mano Itachi abbassa il foglio su cui sta lavorando da quasi due ore
ormai, ed
Ino si stupisce.
In tutto quel tempo, lui non ha tratteggiato
la sua figura, non ha schizzato la sua immagine nell’insieme,
non ha posto le
basi per un ritratto.
No: ha disegnato unicamente i suoi occhi, e
le sue labbra. Ma sembrano vivi.
Ino vede se stessa occhieggiare e respirare dalla
cellulosa del foglio.
Si
sorprese,
Ino, quando sentì che lui la stava cingendo.
Si lasciò
condurre da un braccio solido al piano di sopra, nella camera da letto
ancora
illuminata dalla luce della veranda e lì si arrestarono, in
piedi.
La giovane
sentì il petto di lui contro la
propria schiena, e si abbandonò alle carezze leggere che
Itachi disegnava sul
suo ventre palpitante e sui fianchi.
Posò la
testa all’indietro sulla sua spalla, sospirando.
Distoglie lo sguardo dal disegno, e lo
focalizza sulla mano dell’artista che con una lentezza
esasperante si avvicina
al suo viso.
Si posa leggera sul suo mento, e con una lieve
pressione induce Ino a ruotare il collo, voltando la testa.
“La posizione metteva gli occhi in ombra.” sussurra
lui a mo’ di spiegazione.
Ma ora la posizione è cambiata, eppure lui
non accenna a togliere la mano.
Il suo dito annerito di carboncino scivola dal mento lungo
la linea della mandibola, passa sulla pelle sensibile appena sotto
l’orecchio,
finisce dietro la sua nuca, e lì si ferma la sua mano.
Itachi
la
fece ruotare su sé stessa, in modo da poterla vedere negli
occhi.
Si
guardarono e basta, per qualche secondo.
Inesorabile, Ino sente la pressione di
quella mano alla base del collo.
Vi si abbandona senza nemmeno sognarsi di
porre resistenza.
Il bacio fu intenso, come ogni bacio che si erano scambiati da quando si erano conosciuti.
Pare ad entrambi di non poter più
respirare
se non contro le labbra dell’altro.
Le mani di Ino scattarono istintivamente ad infilarsi tra i capelli scuri di Itachi, sciogliendo la coda in cui solitamente li raccoglieva, mentre lui avvolgeva le braccia intorno alla vita di lei.
Si sorprende un po’ di sentire che lui le
afferra un braccio e la trascina verso il letto, e per un millesimo di
secondo
il minuscolo tarlo di uno scrupolo risveglia la sua coscienza, ma in un
attimo
lo mette a tacere.
Caddero sul materasso quasi di schianto, con il telaio del letto che mandò un cigolio poco rassicurante, ma non se ne curarono.
Ino si lascia sovrastare e si abbandona alla
sensazione unica delle mani dell’artista su di sé.
Sente il vestito sfilarsi
dal suo corpo niveo, ma l’unica cosa che riesce a realizzare
è il proprio
rammarico per la lentezza con cui le pare che la stoffa scorra sulla
sua pelle.
In un turbinio convulso, i vestiti furono a terra e i loro corpi in un groviglio di ansiti, movimenti, sussurri, contatto.
Entrambi completamente fuori controllo
riescono solo a cercarsi in un qualcosa che non è ben chiaro
se sia focoso
amplesso o lotta selvaggia, ma evidentemente a nessuno dei due importa
molto.
Nella frenesia, aggrappandosi alle spalle forse un po’ esili di Itachi Ino fu solo in grado di pensare che no, perderlo non poteva.
Si
accorse
che qualcuno stava salendo le scale perché udì
distintamente i passi attraverso
la porta sottile che separava il suo appartamentino dal pianerottolo,
così aprì
la porta prima ancora di sentir bussare.
“Ciao, scrofa.”
“Buon
pomeriggio, Fronte Spaziosa.” Ino si fece da parte e
lasciò passare quella che,
nonostante i nomignoli, era la sua migliore amica.
Capelli
chiari raccolti, corporatura minuta ed enormi ed espressivi occhi
verdi.
Sakura.
Reggendo un
piccolo involto che probabilmente conteneva pasticcini,
l’amica entrò nel
piccolo salotto di Ino e ormai senza più chiedere permesso
si accomodò.
“Come stai?”
Ino la
guardò come fosse pazza.
“Mi vedi,
no? Bene. Sto bene.”
Gli occhi di
Sakura si raffreddarono.
“Non ti
vediamo più in giro, lavoro a parte. Niente più
passeggiate, niente più the con
noi amiche, niente più chiacchiere i lunedì a
pranzo quando il tuo ristorante è
chiuso. Esci per l’indispensabile e poi ti richiudi qui, in
compagnia di quelli.”
Con uno
sguardo di disapprovazione Sakura accennò con la mano ai
disegni appesi ovunque
nella stanza in piccole cornici di legno. Paesaggi, ritratti. Anche
piccoli
schizzi. Ognuno nella sua cornice, protetto dal vetro.
Sakura aveva
detto bene, pensò Ino, in
compagnia di
quelli.
Da quando
Itachi era tornato in Spagna, lasciandole tutti i disegni che non aveva
venduto, erano state quelle piccole grandi opere a parlarle al posto
suo.
Una buona
parte era stata prodotta poi quando la loro conoscenza era
già avvenuta, e ad
Ino bastava osservarli per ricordarlo tratteggiare
quell’albero, delineare quel
viso, sfumare quel chiaroscuro, dipingere quel cielo.
“Mi sta bene
così, Sakura, almeno per adesso.”
“Se n’è
andato da settimane, Ino. Ora è in Spagna. Non
tornerà.”
“Non tornerà
per ora.”
A quella
risposta Sakura gettò su di lei un’occhiata a
metà tra il rimprovero e la
compassione, di quelle che in genere si rivolgono agli illusi che si
rifiutano
di vedere la realtà, ed Ino ne fu ferita.
Non era una
ragazzina sciocca e inutilmente romantica.
“Ma nemmeno
prossimamente lo rivedrai. Dimenticalo, e ricomincia daccapo. Non
è certo l’unico
uomo di Parigi.”
“Lascia
perdere” berciò Ino. “Lascia
stare.”
Sakura
soppesò meglio l’espressione di Ino, i suoi occhi
stanchi, la pelle tirata, l’aria
di chi ha pensieri importanti per la testa e non può
chiuderli fuori.
Sapeva che l’amica
non era una stupida, né aveva mai amato crogiolarsi nelle
disavventure che le
capitavano tra capo e collo.
Ino era
forte. Ino reagiva. E se in quel momento non era in grado di farlo, non
era
questione di pigrizia o ingenuità.
Sospirò
pesantemente.
“Va bene,
voglio fidarmi di te, come sempre.
Ma tu
prometti di aver cura di te stessa e non continuare a lasciarti
andare.”
Con un
sorriso incoraggiante Ino annuì, accompagnandola alla porta.
“Ti ripasso
a trovare domani, scrofa.”
“Sì, cara.
Attenta allo stipite, con quella fronte.”
Con un mezzo
sorriso sarcastico si salutarono, ed Ino richiuse la porta alle spalle
dell’amica.
Rimase per
un momento appoggiata alla maniglia, poi lentamente si diresse verso la
camera
da letto.
Con calma
quasi innaturale aprì il cassetto della piccola consolle da
trucco di seconda
mano che si era comprata con la paga di tre mesi, trovandovi una busta
voluminosa.
Estrasse un
foglio scritto fitto con una grafia sicura ed elegante, e i due
biglietti
ferroviari che le erano stati recapitati insieme alla lettera.
Uno valeva
per la tratta Parigi-Madrid. L’altro per la tratta
Madrid-Siviglia.
Reggendo
busta e contenuto tra le mani esili si avviò verso
l’abbaino della stanza.
Parigi si
stendeva maestosa sotto di lei, la Tour e il fiume riverberavano,
ciascuno a modo
suo, la luce del sole che ormai tramontava.
Pensò a
quanto intensamente aveva desiderato la vita nella capitale.
Pensò alla
soddisfazione di essere riuscita a giungere dove voleva.
Pensò alla
vita che si era costruita e alle persone che la circondavano.
Pensò a
Sakura.
Pensò al
vuoto delle ultime settimane, costante, vorace, al centro del petto.
Ma tu prometti di aver cura di te stessa e
non continuare a lasciarti andare.
Qual era la
cosa migliore per se stessa?
Con un gesto
quasi flemmatico appoggiò fogli e biglietti sul
comò lì accanto, dopo di che
estrasse da sotto il letto il gran borsone da viaggio che le aveva
regalato sua
madre, acquistato in una bottega di Lione in occasione della sua
partenza per
Parigi.
Lo appoggiò
al letto aprendolo ben bene. Pronto per essere riempito.
Si avvicinò
all’armadio e ne spalancò le ante, osservando il suo
guardaroba con aria critica.
Quali capi
potevano essere adatti al caldo clima di Spagna?
**********
*banlieue: periferia, sobborghi parigini
Grazie,
come
sempre, a chi ha letto e un super grazie a chi vorrà
lasciarmi un parere.
Spero sia
stato di vostro gradimento.
Alla
prossima! :3
Panda