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Autore: Panda_chan    10/07/2012    4 recensioni
[...]...Non lo vede avvicinarsi a lei, e dato l’allegro baccano di sottofondo non sente nemmeno i suoi passi.
Si avvede della sua presenza solo quando sente qualcosa di leggero sfiorarle appena il gomito nudo, poggiato sul tavolino, e sussultando gira il capo velocemente.
Il giovane è lì, e senza una parola le ha posato accanto un foglio rigido di carta da disegno.
Ino lo prende e lo osserva, interdetta: è un ritratto che mostra una ragazza mollemente adagiata sulla sedia di un caffè, il vestitino estivo e leggero un po’ stropicciato sulle gambe accavallate, i capelli sciolti e sfatti sul viso, un bicchiere nella mano piccola e proporzionata.
È a carboncino, in bianco e nero, ma c’è una macchia di colore negli occhi della ragazza, che spiccano, dipinti in acquerello azzurro cielo, tra i tratti scuri del resto del viso.
La fanciulla ritratta guarda verso il fruitore, quindi Ino non può sbagliare: quello è un suo ritratto.
È davvero splendido, accurato, espressivo: vorrebbe ringraziare l’artista che l’ha creato, ma quando alza lo sguardo in cerca del ragazzo si accorge che lui non c’è già più.

[ItaIno]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ino Yamanaka, Itachi
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Salve a tutti!
Non so esattamente come potrei definire questa storia al di là dei soliti schemi di AU, Romantico, Introspettivo, eccetera.
Dipendesse da me la definirei semplicemente storia d’amore ambientata nella Parigi del primo Novecento.
Non saprei spiegare da cosa mi sia partito il pallino per scrivere una cosa del genere, e immagino che mettendosi d’impegno si potrebbe trarne una serie interminabile di banalità e cliché, e tuttavia è un racconto a cui sono estremamente affezionata e che mi ha emozionato mentre lo scrivevo.
Spero possa in qualche modo emozionare anche chi leggerà.
Buona lettura! ^^
Panda

 

Cosa nasce da un ritratto a carboncino

 

Ino aveva sempre pensato che Parigi fosse una  città meravigliosa.
Dal momento in cui ne aveva ammirato un paesaggio dipinto ad acquerello quando non era che una bambina, non aveva desiderato altro che poterci abitare.
E quando quel sogno era diventato realtà e lei, ignorando la rigida morale borghese che vedeva come una prostituta qualunque ragazza abitasse e si mantenesse da sola, aveva trovato per sé un minuscolo appartamento, non si era mai stancata di affacciarsi al balconcino per osservare il panorama.
Quella mattina però Parigi non aveva nulla della città romantica che tanto amava.
O meglio, forse il romanticismo c’era, ma non era quello giusto: non era quell’atmosfera calda e avvolgente che accompagna un inizio, bensì quella decadente e malinconica che segna una fine.
Aggirò una pozzanghera per non bagnarsi troppo nonostante portasse gli stivali, e prese spedita la lunghissima scalinata che portava su, verso la vetta della città, verso Montmartre.
Ogni volta che aveva percorso quelle scale le erano parse infinite, ripide e lunghe com’erano; tuttavia quella mattina di marzo, non capì davvero come mai, prima di potersene rendere conto, era già arrivata in cima.
Proprio quel giorno, in cui avrebbe volentieri salito scale all’infinito pur di non arrivare.
Invece l’imponente Sacré Coeur era lì, davanti a lei, il colore bianco splendente reso spento dalla pioggia e dallo sfondo smunto del cielo grigio.
La oltrepassò senza fermarsi e presto si trovò davanti al luogo di Parigi che per qualche mese aveva amato più di ogni altro, il quartiere degli artisti.
Quel giorno, dato il cattivo tempo, non era gremito dei piccoli chioschi degli artisti che ritraevano e vendevano le loro opere, perché i disegni sarebbero stati rovinati dagli schizzi d’acqua.
Le pareva vuota e deprimente, quella piazzetta, così chiuse gli occhi per un momento e cercò di immaginarla secondo il ricordo che aveva della prima volta in cui ci era stata.

 

 

 

Il sole è quasi soffocante, e la ragazza maledice la sua idea di aver lasciato sciolti i capelli, che ora la infastidiscono e si appiccicano al viso.
Le carrozze per arrivare alla sua meta sono troppo care, e d’altronde lei è fermamente decisa a percorrere tutte le famose scale che portano alla basilica di Montmartre; anche se deve ammettere che non è facile come aveva creduto all’inizio.
Gradino dopo gradino ignora i suoi piedi che dai sandali alla moda le chiedono pietà – ha camminato tutto il santo giorno per sfruttare ogni secondo, mangiando solamente una crêpe al volo per il pranzo – e prosegue, incoraggiata dal frammento di cupola che già può intravvedere.
Con un fiatone tremendo finalmente guadagna la sommità del colle, e come se non fosse già sufficientemente senza fiato, trattiene il respiro non appena, giunta ad uno dei parapetti, può vedere tutta la città stendersi sotto di lei.
Magnifica.
Dopo essersi riposata un po’ decide di esplorare il quartiere, così si allontana dal parapetto e aggira il Sacré Coeur, osservandolo estasiata, con l’intenzione di addentrarsi un po’ di più nel dedalo di viette che prima ha scorto appena arrivata in cima.
Oltrepassa definitivamente la basilica, e dopo qualche secondo si ritrova davanti quello che, lo capisce immediatamente, è il quartiere degli artisti.
La piazzetta in cui è giunta non è particolarmente grande, ma è pittoresca come poche: il lastricato è sbreccato ed irregolare, le casette a più piani che la circondano sembrano essere vecchie e i loro colori sono sbiaditi, gli alberelli nelle aiuole sono sottili e nodosi, ma ognuno di questi particolari non fa che accrescere il fascino del luogo.
Tuttavia ciò su cui immediatamente l’occhio ricade sono le decine di minuscole bancarelle e chioschetti, ognuno occupato da qualcuno che disegna.
Eccolo, il vero e proprio quartier des artistes: miriadi di pittori, ritrattisti, disegnatori, che si riuniscono e vendono la propria arte per qualche soldo per le stradine di Montmartre.
Ino è senza parole: le vie circostanti sono strette e tortuose, gremite di passanti, l’ambiente pare quasi poco raccomandabile, eppure la attrae oltre ogni dire.
Prendendo un po’ di coraggio inizia a farsi strada per la piazzetta, passeggiando lentamente per i minuscoli e stretti corridoi creati dalle bancarelle accostate, osservando con attenzione i lavori esposti.
Vede dovunque acquerelli con scorci di Parigi, o con i suoi simboli, Nôtre Dame, L’Arc du Triomphe, il Sacré Coeur, la Tour, la Seine.
Oppure ci sono altri meravigliosi lavori che mostrano paesaggi fioriti, colorati, vivaci, o visi sorridenti, tristi, seri, ritratti a perfezione con ogni particolare.
Davvero deliziosi, pensa Ino, delicati, tenui, non privi tuttavia della soffusa malinconia di fondo che pare pervadere sempre Parigi.
Declina scuotendo il capo con un sorriso l’invito frenetico di un giovane ritrattista che pare voler disegnare il suo viso a tutti i costi, e ridacchiando prosegue il suo giro.
Verso l’estremità opposta della piazzetta rispetto al punto da cui è partita si imbatte in una bancarella un po’ più piccola, leggermente in disparte rispetto alle altre, anche se la posizione sembra essere stata voluta.
Incuriosita si avvicina, ma quando posa gli occhi sui disegni poggiati sul tavolino e sui cavalletti lì accanto rimane per un attimo interdetta.
Tra i tanti esposti la maggior parte è a carboncino e solo pochi sono a colori, e si tratta comunque di tinte per lo più scure, marcate, sui toni del marrone, del rosso cupo, dell’ocra.
Non paiono mostrare dei soggetti parigini, o almeno non quelli che si è abituata a vedere nei disegni precedenti: ciò che la mano di quell’artista ha riversato sulla carta sono scene lontane dalla magnificenza della capitale francese.
Sono piccoli sobborghi umili, sono donne che lavano stracci alle fontane comuni, sono bimbi infangati che giocano a palla, vestiti con gli abiti quotidiani delle classi più basse.
I monumenti e i simboli della città compaiono poco e comunque a margine in quei disegni così particolari.
È come uno sprazzo di realismo in quel contesto dorato, ed Ino non può fare a meno di chiedersi di chi siano le dita che hanno tracciato così bene i contorni di quella che un giorno apprenderà essere la
vera Parigi.
Così scruta con attenzione sotto la tendina scolorita della bancarella, e si meraviglia nel vedere che, al contrario di quanto aveva in un primo momento supposto, l’artista non è altro che un ragazzo.
Vedendola avvicinarsi ha alzato gli occhi dal suo lavoro, senza aprire bocca, così lo può vedere bene in viso: è magro, forse un po’ smunto, ha la pelle lievemente olivastra e i capelli scuri.
Gli occhi sono nerissimi, e le occhiaie marcate li rendono più affascinanti, anche se lui non fa assolutamente nulla per apparire in qualche modo compiacente.
Anzi, il suo silenzio le comunica in qualche modo una certa  ritrosia.
Sentendosi imbarazzata e non sapendo cosa dire si allontana, voltandogli le spalle in silenzio.
Non può vedere che nello stesso momento lui ha riposto il foglio da disegno di cui si stava occupando e ne ha estratto uno bianco, intonso, dalla cartellina di fianco a sé, osservandolo pensoso.
Ancora a disagio, e improvvisamente percependo in un sol colpo tutta la stanchezza della giornata, Ino scorge un caffè lì vicino e si siede.
Ordina qualcosa di fresco e quando viene servita sorseggia con calma, godendosi la brulicante attività della piazza.
Dato che ormai è tardo pomeriggio non passa molto tempo che parecchi degli artisti comincino a ripiegare le strutture delle bancarelle, a riporre i disegni e gli strumenti, a prepararsi per tornare a casa o dovunque trascorrano usualmente la notte.
Ino non può fare a meno di girare l’occhio dove si è imbattuta, poco prima, nella bancarella del ragazzo, e vede che anche lui, con metodo e cura ma senza l’aria di importanza che si danno in molti, ha iniziato a sistemare i suoi disegni.
Non sa perché, ma guardarlo la mette in soggezione.
Forse è perché non è riuscita a parlargli, lei che in genere non ha nessun problema ad attaccare bottone anche con gli sconosciuti, forse è perché lui non ha dato nessun segnale di sorta a parte quello di aver preso atto della sua presenza, quando si è fermata a guardare, ma di certo c’è qualcosa che la inquieta in lui.
Si impone di distogliere lo sguardo, e per buona misura volta anche la testa dall’altra parte, guardando il meraviglioso tramonto su Parigi, quindi non lo vede avvicinarsi a lei, e dato l’allegro baccano di sottofondo non sente nemmeno i suoi passi.
Si avvede della sua presenza solo quando sente qualcosa di leggero sfiorarle appena il gomito nudo, poggiato sul tavolino, e sussultando gira il capo velocemente.
Il giovane è lì, e senza una parola le ha posato accanto un foglio rigido di carta da disegno.
Ino lo prende e lo osserva, interdetta: è un ritratto che mostra una ragazza mollemente adagiata sulla sedia di un caffè, il vestitino estivo e leggero un po’ stropicciato sulle gambe accavallate, i capelli sciolti e sfatti sul viso, un bicchiere nella mano piccola e proporzionata.
È a carboncino, in bianco e nero, ma c’è una macchia di colore negli occhi della ragazza, che spiccano, dipinti in acquerello azzurro cielo, tra i tratti scuri del resto del viso.
La fanciulla ritratta guarda verso il fruitore, quindi Ino non può sbagliare: quello è un suo ritratto, indubbiamente, che il ragazzo deve averle fatto mentre lei era seduta e sorbiva la sua bibita.
È davvero splendido, accurato, espressivo: vorrebbe ringraziare l’artista che l’ha creato, ma quando alza lo sguardo in cerca del ragazzo si accorge che lui non c’è già più.

 

 

 

Quando riaprì gli occhi naturalmente la piazzetta era semideserta e vuota esattamente come prima, bagnata dalla pioggia battente.
Nonostante sapesse perfettamente che ricordare non avrebbe potuto cambiare nulla non poté trattenere un moto di stizza e delusione, e pestò lo stivaletto per terra, schizzando un po’ d’acqua intorno.
Si avvolse meglio al collo il foulard e strinse forte il manico dell’ombrello, imponendosi di proseguire, e oltrepassò la piazza per inoltrarsi in una delle vie che da essa si diramavano.
Fortunatamente la strada cha doveva percorrere non era lunga, così forse avrebbe potuto sperare di non essere totalmente fradicia una volta arrivata a destinazione.
Camminò sostenuta oltrepassando le casette addossate l’una all’altra, fermandosi di colpo davanti a quella che le interessava.
Ignorò il campanello appeso di fianco al portoncino, e bussò con vigore sul legno robusto e umido.
Non dovette attendere molto, perché la serratura scattò solo qualche secondo dopo ma la porta rimase socchiusa, senza che nessuno l’aprisse per accoglierla.
La giovane non si fece impressionare ed entrò sicura, sebbene il senso di tristezza e malessere non facesse che aumentare.
Oltrepassò un minuscolo corridoio d’ingresso e si ritrovò in un soggiorno un po’ angusto ma accogliente, con una grande finestra che nei giorni di sole lasciava entrare una luce intensa che illuminava tutta la stanza.
Pareva non esserci anima viva, ma Ino sapeva dove cercare.
Si tolse il cappottino e il foulard, lanciando tutto sul piccolo tavolo di legno, gettò a terra l’ombrello, incurante, e infilò diretta la piccola scala a chiocciola che portava al piano di sopra.
Si ritrovò in uno studiolo, che oltrepassò senza guardarsi intorno, e puntò alla porta sulla parete opposta.
Quando entrò in quell’ultima stanza – una camera da letto – tutta la sua foga parve abbandonarla, e si fermò un momento.
L’ambiente non era molto grande, e tutti i mobili che lo costituivano erano evidentemente datati.
Ma, come nel il resto della casa, ognuno era disposto con gusto, pulito con cura, trattato con modo, quindi la sensazione che si aveva non era di trovarsi in un bugigattolo affittato per pochi soldi – come effettivamente era – ma in un ambiente intimo di gusto quasi vintage.
Ino non aveva mai capito come lui potesse rendere gradevole e bello tutto ciò su cui metteva le mani.
Posò uno sguardo carezzevole sul letto matrimoniale, soffermandosi sul materasso sottile, sulle lenzuola consunte e lise in alcuni punti, sulla trapunta vissuta per quanto in buono stato, cercando di arrestare i ricordi dolceamari che si affacciavano alla sua memoria.
Si riscosse scuotendo il capo e voltò lo sguardo verso la parete alla sua destra.
La grande tenda appesa al soffitto era tirata, ma lei si avvicinò e la scostò, rivelando una veranda ricavata da quello che doveva essere stato un terrazzino.
Era come trovarsi in una minuscola stanza dalle pareti di vetro, e in un certo senso era così.
Lui le aveva confidato che il motivo per cui aveva scelto quella casa era esattamente quella piccola veranda: tenendo i vetri adeguatamente puliti si poteva osservare gran parte del panorama parigino visibile da Montmartre, e si poteva avere luce per molte ore al giorno.
Due dettagli importanti per un artista.
Non fu sorpresa, quindi, di trovarlo lì, seduto davanti al cavalletto, intento a dipingere uno dei suoi rari acquerelli nonostante la luce quel giorno non fosse decisamente ideale.
Non diede segno di aver preso coscienza del fatto che lei fosse lì, ma era impossibile che non se ne fosse accorto, e d’altronde solo lui poteva averle aperto la porta.
“Itachi.”
Quello di Ino era stato solo un sussurro, ma il pennello che picchiettava delicatamente la tela si fermò a mezz’aria a due centimetri dalla superficie che avrebbe dovuto dipingere di nero, immobile.
La stava ascoltando.

 

 

 

Ormai Ino conosce meglio Parigi, ha imparato a destreggiarsi, ad orientarsi, a girarla senza perdersi.
Non è facile sopravvivere in una città così grande quando si è una ragazza che si mantiene da sola con lavoretti onesti, ma lei è sempre stata coraggiosa e tenace e passo passo ci sta riuscendo.
Ha visto i grandi boulevard appena costruiti, ha potuto ammirare, di sera, l’illuminazione eccezionale che è valsa a Parigi la denominazione di ville lumière.
Ha imparato che tutte quelle luci producono anche altrettante ombre, e in quelle ombre si nasconde una realtà che il resto del mondo non immagina, una realtà che nemmeno la rivoluzione, a suo tempo, ha potuto cambiare, fatta di rinunce, stenti, malattie, sporcizia.
Una realtà a cui lei è scampata solo grazie al suo bel viso e al suo carattere solare, che le hanno permesso di trovare impiego come cameriera in un ristorantino in Rue des Champs Eliseés guadagnando quel tanto che basta per pagare l’affitto del suo appartamento e comprarsi del cibo e qualche abito.
Si è fatta perfino qualche amica, lì: ha conosciuto Sakura, un’infermiera che spera un giorno di diventare un medico, e nel frattempo studia di notte con i libri che di nascosto ruba in ospedale per poi riportarli una volta letti; Tenten, l’aiutante della sartina che le ha fornito la sua divisa da cameriera; Temari, una ballerina del Moulin Rouge, il leggendario locale notturno; Hinata, una giovane nobildonna che, contro la disapprovazione della sua famiglia, giunge nella sua carrozza fino all’estrema banlieue* per aiutare la povera gente.
Proprio a quest’ultima Ino deve un grande, grandissimo favore.
Perché da quando il giovane artista le ha lasciato quello splendido ritratto per poi scomparire, lei l’ha cercato: pentita per non essere riuscita a trovare il coraggio di rivolgergli la parola, e desiderosa di conoscere la ragione che l’ha spinto a ritrarla, è tornata spessissimo su a Montmartre per cercare la sua bancarella, ma non ha avuto fortuna.
Stava giusto per gettare la spugna quando un giorno ha invitato le ragazze nel suo piccolo rifugio per un the, Hinata ha visto il foglio appoggiato sul comò ed ha riconosciuto lo stile.
In effetti a posteriori Ino ha concluso che è abbastanza logico: l’artista per ritrarre i suoi soggetti deve girare spesso i bassi fondi, ed Hinata li frequenta abitualmente per assistere gli umili, dunque non è strano che sappia chi sia.
Le ha detto che non si sa molto di lui, dato che è parecchio schivo e si limita a stare in un angolo per osservare e abbozzare i suoi schizzi, ma si è ricordata il suo nome.
Per questo Ino adesso si ritrova eccitata ed euforica nuovamente al quartier des artistes alla frenetica ricerca di Uchiha Itachi.
Ormai è stata talmente tante volte nella zona del Sacré Coeur da aver capito che quel posto non è solo il ricettacolo dei pittori, ma di tutti gli artisti, quindi non si sorprende, nella sua passeggiata, di imbattersi in ogni genere di dimostrazione artistica.
Continuando ad osservarsi freneticamente intorno, lascia la piazzetta principale: con il tempo ha appurato che quella non è che la facciata del quartiere, quindi si scosta subito dalle vie più frequentate per addentrarsi veloce nei viottoli tortuosi che sono il vero cuore pulsante di Montmartre.
Hinata le ha detto che lui non scende spesso dalla sua zona e che nemmeno si stanzia di frequente con la sua bancarella per vendere i suoi disegni; se vuole trovarlo, le ha consigliato, la cosa migliore è armarsi di pazienza e prudenza e cercare nei luoghi meno in vista con discrezione, magari chiedendo a qualcuno tra gli artisti che incontrerà.
Però Ino deve ammettere che da come l’aveva immaginata la cosa le era sembrata più semplice di così.
Montmartre era un quartiere misterioso, affascinante ed intricato, certo, ma pur sempre una zona circoscritta, e lei si era inizialmente persuasa che battendolo palmo a palmo, a costo di impiegare tutto il limitato tempo libero che il lavoro le concede, il suo piano non sarebbe stato così irrealizzabile, tanto più che lei conosce il suo nome.
Ma adesso, con i piedi doloranti e dopo essersi sentita dire varie volte che sì, lui bazzica per quei posti ma non ha un luogo favorito, deve ammettere di non aver dato il giusto peso alla portata dell’impresa.
Le pare di inseguire un filo di fumo: non ha nemmeno fatto in tempo ad accertarsi che ci sia veramente, che già si è dissolto.
Pensando che l’indomani dovrà essere al ristorante per lavorare, e dunque non può permettersi di essere troppo stanca, decide di cenare al volo in una delle numerose piccole locande che ha intravisto nella sua ricerca per poi tornare a casa a farsi una bella dormita.
Costringe le sue gambe a fare un ulteriore sforzo e si tira in piedi.
Senza andare troppo lontano si dirige verso la piccola taverna che fa angolo con la strada in cui si trova, e quando entra un’ostessa giunonica e sorridente le indica un tavolino libero.
Si siede, ordina la specialità del giorno e mentre attende tira fuori dalla tracolla che si è portata dietro il ritratto, arrotolato con cura. Lo svolge e ne liscia gli angoli, attenta a non rovinarlo anche se la carta da disegno è spessa e resistente.
Quando l’ostessa arriva portandole la sua zuppa lo mostra anche a lei, riferendole chi è l’autore e chiedendole se per caso sa dove potrebbe trovarlo.
“Cara, mi dispiace.” le risponde la donna “So che si aggira spesso da queste parti, ed una volta credo che abbia pure mangiato qui, ma in genere appare in orari improponibili, quindi credo che pochi di quelli che lo conoscono sappiano dove sia casa sua, ammesso che ce l’abbia.”
È stata molto gentile e pare davvero dispiaciuta, quindi Ino fa uno sforzo per celare la delusione.
“Capisco” risponde con dolcezza. “Grazie lo stesso.”
La donna le fa un ultimo sorriso dispiaciuto e corre a servire qualche altro cliente mentre Ino appoggia il foglio sul tavolo, un po’ sconsolata, e attacca la sua zuppa.
“Io so dove lo puoi trovare.” le dice una vocetta sottile, facendola trasalire.
La giovane si volta di scatto, un po’ spaventata un po’ sorpresa, e si ritrova faccia a faccia con un bambino, uno dei tanti che nella serata estiva ancora sono in giro a giocare, mentre i genitori lavorano.
“Come, scusa?” gli chiede.
“Io so dove puoi trovare Itachi Uchiha.” Le ripete lui con aria saputa.
“Oh, davvero? E come faresti tu a saperlo?” gli ribatte con un sorriso conciliante.
“Perché lui mi ha disegnato, una volta.”
Ino si fa improvvisamente attenta.
“Disegnato?”
“Sì. Un disegno in cui c’ero io con mio fratello, e ci ha chiesto di raggiungerlo a casa sua perché potesse lavorare più tranquillo. Quindi so dove abita.”
Lei non sa se credergli, perché quel ragazzino potrebbe tranquillamente aver deciso di prenderla allegramente per il naso, ma d’altronde non vede cosa potrebbe ricavarci a raccontarle una bugia, a parte, certo, un po’ di sano, puro divertimento.
“Mh, siamo sicuri che c’è da fidarsi? Tu mi sembri un po’ monello, sai.” gli risponde con una linguaccia scherzosa, pizzicandogli senza forza una guancia.
Il bimbo mette su un’espressione seria e sostenuta, guardandola con sfida.
“Per una crêpe se vuoi ti ci posso anche accompagnare io.”
Ino lo soppesa per un po’, infine sorride apertamente ed estrae il borsellino.

 

 

 

“Almeno rispondimi.” Ino si irritò con se stessa per il suono della propria voce, che era stata decisamente meno aspra di quanto volesse. Quasi implorante, in effetti.
Itachi espirò il fiato in un sospiro appena udibile, quindi abbassò il pennello appoggiandolo al piccolo mobile su cui teneva a portata di mano qualunque cosa gli potesse servire mentre dipingeva.
“Ti ascolto, e non vedo cosa potrei replicare prima che tu abbia finito di parlare. Lo sai che io non spreco le parole.”
Era stata una frase casuale, pronunciata senza durezza o acredine particolari, con un tono quasi carezzevole, tuttavia ebbe il potere di ferirla.  
Certo non era stato esplicito, ma suonava molto come un ‘non perdo il mio tempo per risponderti’.
Cercò di incassare il colpo senza darlo a vedere, per non dargli la sensazione di essere ancora un’adolescente immatura e insipida.
“Lo sai bene che questo tuo distacco volontario da povero artista incompreso non ha più nessun effetto su di me, Itachi.”
Le parole dovevano averlo in qualche modo colpito, perché per la prima volta alzò gli occhi su di lei.
Non era uno sguardo che sembrasse in qualche modo offeso o arrabbiato, ma era penetrante in modo quasi doloroso, ed Ino capì che doveva andarci piano.
Non era affatto semplice far arrabbiare Itachi, però le rare volte in cui l’aveva visto furioso il primo sintomo era stato quell’occhiata apparentemente ricognitiva ma intimamente risentita.
D’altronde aveva parlato della sua arte con quel preciso intento, perché era, forse, il suo unico punto debole.
Con una noncuranza che rasentava l’indifferenza totale – , si era offeso – lui riportò gli occhi a scrutare il dipinto.
“Vuoi parlare oppure no?”
Ino fece forza su se stessa per impedirsi di sentirsi ferita da tutto quel distacco.
Perché non era solo questione della frase detta poco prima, lo sentiva distante da qualche settimana e non riusciva davvero a non pensare all’inizio, quando l’aveva squadrata con quei suoi occhi critici e le era parso venire da un altro pianeta.
“Non puoi veramente andare via.”
Ormai era impossibile sfuggire all’argomento, anche se entrambi avevano saputo sin dall’inizio che quello era il problema.
Con estrema lentezza, senza rispondere – non l’avesse conosciuto bene, Ino avrebbe pensato che la stesse prendendo in giro, o che godesse nel saperla soffrire – lui riprese in mano il pennello, assottigliando appena gli occhi, e riprese a passarne la punta inumidita sulla tela, con minuziosa precisione.
“Perché non posso? Parigi non è la mia città. La Francia non è la mia patria. Lo sai bene.”
Ino lo sapeva bene.
Dalla prima volta in cui l’aveva visto aveva compreso subito che lui non poteva essere della zona.
Nemmeno lei era parigina, d’accordo, ma veniva da Lione; e più di una volta, come complimento, si era sentita dire che era una tipica bellezza francese.
Ma lui, con quei capelli e quegli occhi nerissimi, le lunghe ciglia, la carnagione non proprio scura ma lievemente olivastra, di francese non aveva nulla.
Così come il suo accento, che non era tipico di nessuna regione, ma aveva una vaga cadenza straniera che urlava Spagna ad ogni sillaba.
“Commovente la tua nostalgia per Siviglia, per quanto inaspettata. Non ho mai avuto l’impressione che apprezzassi tanto la tua città d’origine.” Fece Ino. “O magari ti manca tuo padre.” Aggiunse, mordace.
Stava tirando troppo la corda, ma non le importava.
Lo sguardo di Itachi su di lei fu perforante, stavolta.
Non un mutamento d’espressione, non un movimento brusco, non un sospiro infastidito, nemmeno una parola.  Eppure i suoi occhi…
Lui posò il pennello e si alzò, rinunciando definitivamente a dipingere, tanto quel giorno non avrebbe avuto la concentrazione necessaria.
“Non credo di avere bisogno di una giustificazione per tornare a casa mia da un posto che non lo è.”
Questo era un colpo basso in risposta alla sua frecciata, riconobbe Ino, che alzò il mento sforzandosi di guardarlo con indifferenza.
“Benissimo.”
Rimasero a guardarsi, lei con aria di sfida, lui con quella placida tenacia che l’aveva sempre contraddistinto; nessuno dei due avrebbe ceduto facilmente.
“Meglio che io ti lasci ultimare i preparativi in pace, avrai un sacco di cose da fare.” Concluse Ino quando avvertì di non poter più sostenere né il silenzio né lo sguardo dell’altro, facendo già per incamminarsi di sotto.
“Il mio treno parte tra una settimana, avrò tutto il tempo per fare le valigie.” Rispose lui, bloccandola.
Ino si voltò e i loro occhi si incontrarono di nuovo, privi della determinazione di poco prima.
Entrambi avevano ceduto.
“Come vuoi” soffiò lei, incapace di opporsi all’implicito invito. “Preparo del the.”
Itachi assentì con un cenno del capo.

 

 

 

Ino riconosce la strada dove il bambino l’ha accompagnata: non è affatto distante dalla piazzetta principale, anzi ne è una laterale diretta.
Cerca di non perderlo tra la folla, seguendo il suo berrettino azzurro e impolverato, e si ferma con lui davanti alla porta che le sta indicando.
“Qui?” gli chiede, con un po’ di fiatone.
Il bambino annuisce.
“Grazie allora, proverò a vedere se è in casa.”
Ino fa per tirare la catenella per muovere il batacchio della piccola campana accanto allo stipite, ma viene bloccata.
“Bussa forte alla porta, non suonare il campanello. Quel rumore gli dà fastidio.” L’avverte il ragazzino.
Ino gli scompiglia i capelli con un sorriso, poi lo guarda per qualche secondo mentre si allontana.
Si volta nuovamente verso la massiccia porta di legno, improvvisamente dubbiosa.
Cosa potrebbe dirgli, dopo essergli capitata in casa all’improvviso? ‘Ciao, come va? Perché mi hai disegnato questo ritratto?’. Sarebbe ridicolo.
Eppure decide che ci penserà a momento debito. Dopotutto lui potrebbe anche non essere in casa.
Si fa coraggio e con il pugno chiuso bussa ripetutamente ed energicamente sul vecchio legno robusto.
Attende qualche secondo, indecisa tra la curiosità di vederlo e l’improvvisa impellenza di allontanarsi di lì, fino a quando non sente la porta scattare e la vede scostarsi di qualche centimetro, giusto il necessario per permettere a chi l’ha aperta di sbirciare.
Ino riconosce subito gli occhi, le iridi scure, le ciglia lunghe, le occhiaie marcate. Non c’è dubbio, è lui.
La porta si scosta ancora un po’ e appare interamente il suo viso.
Di certo non è una persona espansiva, eppure c’è di sicuro una qualche forma di stupita curiosità in quelle sopracciglia inarcate e in quel capo che si piega di lato, mentre gli occhi rimangono fissi su di lei.
“Sì?”
Ino si rende improvvisamente conto che non aveva mai sentito la sua voce.
È bassa, vellutata, eppure non particolarmente carezzevole. Neutra, si direbbe.
Poi si rende conto che magari è anche il caso di rispondergli.
“S-salve, non so se vi ricordate di me.” Estrae il disegno arrotolato dalla borsa, svolgendolo e mostrandoglielo. “Mi avete lasciato questo al tavolino di un bar nella piazza, qualche settimana fa.”
Lui continua a guardarla, impassibile.
“Mi ricordo.”
Una strana cadenza straniera nel suo francese che pure pare scorrevolissimo.
“Oh, beh… Naturalmente so che un artista ritrae ciò che vede, quindi magari che io appaia in uno dei vostri disegni non è nulla di strano.” Ino sta parlando deliberatamente a vanvera e per qualche motivo sa che lui se ne è accorto. “Mi chiedevo semplicemente perché me l’aveste lasciato invece di esporlo con gli altri.”
Itachi Uchiha potrebbe ridere di lei, chiederle come mai invece di tenersi il disegno e appenderlo in salotto abbia imbastito una ricerca così esagerata per trovarne l’autore, o semplicemente chiuderle la porta in faccia, ma non lo fa.
Si limita a guardarla con il capo ancora piegato, placido, e le risponde con tranquillità che  “Non c’è una ragione precisa perché io te lo abbia lasciato.”
Le da subito del tu, senza chiamarla signorina o altro, ed Ino lo nota. Però non le dà l’idea di una mancanza di rispetto.
 “Oh. Beh, non è che fosse così importante, era più che altro una curiosità…” farfuglia ridacchiando nervosamente, cercando di tirarsi fuori da quella situazione imbarazzante, sentendosi improvvisamente inopportuna come non mai.
“Ma dopotutto” riprende con nuovo slancio “mi avete lasciato un disegno bellissimo e io non vi ho pagato, quindi se c’è qualcosa che posso fare per voi…”.
“Il disegno è un regalo e non voglio niente in cambio.” Le risponde con tono secco. “Ma se vuoi fare qualcosa per me potresti, a parte darmi del tu, posare per un altro ritratto.”
Ino è abbastanza disorientata. Da una persona che pareva così schiva si aspettava che, nel peggiore dei casi, non le aprisse nemmeno la porta. E quell’invito, dopo un dialogo rigido da parte sua, la lascia un po’ spiazzata. Non sarà mica un maniaco o qualcosa del genere?
“Non devi sentirti obbligata” riprende lui a bassa voce. “Dopotutto non mi conosci.”
Però Ino è incredibilmente attratta dal comportamento distaccato e lontano dell’artista, e ha sempre preferito il rimorso per aver sbagliato che il rimpianto di non aver tentato.
“Oh no, nessun problema per me, poserò volentieri per un altro disegno.”
“Domani intorno all’ora di pranzo qui da me ti andrebbe bene?” Le chiede. “Non serve un abbigliamento particolare. Mi interessa il tuo viso.” Conclude, piantandole uno sguardo penetrante nelle iridi cerulee.
Ino si sente arrossire.
“Va benissimo. A domani a mezzogiorno, allora.”
Itachi la omaggia di un lieve cenno del capo e senza aggiungere altro chiude la porta con uno scatto.

 

 

 

Erano scesi di sotto, in salotto, e si erano accomodati sul tavolo rettangolare di legno, da cui Ino aveva spostato le sue cose.
Ora stavano seduti l’uno davanti all’altra, ognuno scrutando le profondità della propria tazza di the come se potesse trovarvi un appiglio per uscire da quella situazione spinosa.
“Vorrei che tu mi spiegassi perché te ne vuoi andare.” Irruppe d’un tratto Ino.
“Lascia perdere.” Sussurrò lui, apparentemente rivolgendosi più che altro a se stesso.
“No, non lascio perdere. Nessuno dei due può vantare una vita perfetta, ma credevo che tu fossi felice, qui.” Per la prima volta da quando era arrivata lei si lasciò andare ad un gesto che tradisse il genere di legame che li aveva uniti fino a quel momento. Allungò una mano per accarezzargli il viso, costringendolo ad alzarlo e a guardarla negli occhi.
“Qui hai una tua casa, anche se è piccola e in affitto. Qui hai la tua vita, la tua arte.” Si fece coraggio per terminare la frase. “Qui hai… me. So che c’è qualcosa che non vuoi dirmi che ti spinge a voler partire.”
Si rendeva conto di parlare con una certa dose di presunzione.
Ma  poteva dire di conoscerlo e non vedeva davvero nessuna ragione per cui lui dovesse andarsene: aveva sempre detestato la Spagna.
Itachi si passò una mano sugli occhi, lasciandosi andare ad un sospiro frustrato.
“Non credere che a me piaccia l’idea di andarmene con la prospettiva di non tornare.”
“Ma allora rimani qui come hai fatto finora, dov’è il problema? Cos’è che ti costringe a partire?!”
Se Itachi aveva un difetto, constatò Ino, era che poteva essere difficile cavargli le parole di bocca; in aggiunta alla sensazione orribile che il solo pensiero della partenza di lui le procurava, c’era anche la frustrazione di non essere assolutamente in grado di comprendere quale fosse la ragione.
Itachi abbassò lo sguardo, e pareva trovare profondamente interessante il contenuto della propria tazza.
“I miei genitori sono morti.” pronunciò alla fine a bassa voce, lapidario. “Tutti e due. Assassinati durante un viaggio d’affari.”
Ino spalancò gli occhi e rimase interdetta per un attimo. Itachi aveva sempre avuto attriti profondi con suo padre, dovuti principalmente al fatto che non voleva che la sua vita fosse programmata in base alle aspettative paterne, ma questo naturalmente non significava che la sua morte gli fosse gradita.
Per non parlare di quella di sua madre Mikoto, poi, cui era stato sempre profondamene legato.
“Quindi…?”
“Quindi devo tornare in Spagna, e prendere possesso delle nostre proprietà. Cominciare ad amministrare le nostre terre, ad occuparmi di ciò di cui prima si occupava mio padre.”
“Ma c’è tuo fratello.”
“Non posso lasciare a Sasuke l’intera responsabilità, non è pronto. Nessuno si aspettava un’eventualità del genere, quindi nessuno si è preparato. Lui non ha idea di come si amministri un patrimonio simile. Io stesso non so bene cosa dovrò fare. Ma sono il maggiore e devo rientrare, ed occuparmi del problema, almeno per ora.”
“Ma forse un giorno potrai tornare.”
Itachi sospirò sommessamente.
“Forse. Ma sicuramente non tra un mese, o tra una stagione, o tra un anno. Ci vorrà del tempo.”
La voce di Ino fu tagliente.
“Tu non hai mai amato quel posto. Non hai mai amato le attività di tuo padre. Non hai mai sentito alcun legame… Perché ora dovresti tornare?”
“Sasuke non accetta di venire qui, e io non posso lasciarlo solo. E poi non possiamo abbandonare tutte le nostre proprietà come niente fosse. Qualcuno deve pur amministrarle e anche volendo nominare un giorno una persona che lo faccia per noi non possiamo farlo senza prima conoscere bene ciò che è nostro.
Devo tornare a Siviglia. Devo ritrovare Sasuke. Dobbiamo mandare avanti ciò che nostro padre ci ha lasciato. Non ho alternative.”
Il cucchiaino tintinnò con un rumore fastidioso nella tazza quando Ino lo lasciò cadere, ma nessuno dei due sembrò farci caso.
“Per favore”, disse Ino. “Per favore, trova un’altra soluzione.”
Itachi le rispose con una voce sommessa che parve sopraffatta.
“Non dipende da me.”

 

 

 

Si è presa un giorno di permesso dal suo lavoro di cameriera per poter andare all’appuntamento.
Questo significa un giorno in meno di paga, ma ad Ino non importa.
Nel brulichio del quartiere degli artisti scansa la folla per arrivare a
quella casa, e quando finalmente la guadagna ignora il campanello e bussa energicamente.
Mentre attende che il padrone di casa le apra, si specchia sulla finestra appannata della casa vicina.
Ha raccolto i capelli in uno chignon elegante e indossato uno dei suoi vestiti migliori – di un rosso cupo, che contrasta con la sua carnagione chiara e si stringe delicatamente sui fianchi disegnandole la vita sottile.
Sa di essere bellissima e diversi uomini si sono voltati a guardarla mentre passava lungo il tragitto dagli Champs Elisées, provocandole una sensazione solleticante di imbarazzo misto a compiacimento che le ha imporporato le guance a varie battute.
Dopo pochi secondi la porta si apre, rimanendo sbaciata, e lei chiedendo timidamente “Permesso?” entra nell’ambiente fresco e semibuio.
“Da questa parte.”
La situazione è ben strana, ma lei si sente sospesa e non ci fa caso. Seguendo una lama di luce e la voce sommessa varca la soglia di un salotto, e lui è lì che sul tavolo affila la punta di un carboncino.
“Salve.” Lo saluta, timida.
In risposta ottiene un cenno del capo, poi lui si alza e “Seguimi di sopra”, le dice.
Ino è indispettita, ora.
Sa di essere perfetta. Sa di essere bella. Ma lui no, lui non lo nota.
Non dà l’idea di aver visto qualcosa di diverso da una persona come un’altra.
Lo segue e si inerpica per le scale, seguendolo in una camera da letto. Per un attimo si irrigidisce osservando il materasso e temendo il peggio, ma poi lui tira una tenda che nasconde un amore di veranda.
Fortunatamente il sole lì non batte, quindi si può usufruire della luce senza soffocare.
Le trascina sotto i vetri una poltrona di cuoio marrone scuro, e le indica di sedersi.
“Non serve una posizione specifica?” chiede lei intimorita da tutto quel silenzio solenne.
“No, siedi pure come ti viene naturale.”
Mentre Ino si accomoda anche lui si appollaia su di uno sgabello giusto davanti a lei, abbastanza vicino da poterla toccare allungando un braccio, e posiziona un foglio poroso da disegno su di un supporto rigido in legno che appoggia sul ginocchio accavallato.
E inizia a osservare la carta bianca, assorto.
Come tirata da un filo invisibile Ino si sporge in avanti, verso il volto corrucciato del giovane, una mano chiara a reggere il viso, il gomito appoggiato al bracciolo della poltrona.
Lo sguardo di Itachi si leva dal foglio e si pianta nei suoi occhi, intenso e concentrato.
Il tempo si ferma.
L’aria si congela.
Il carboncino gratta lieve sulla superficie ruvida della carta.

 

 

 

Il sospiro che giunse incontrollato dalle labbra piene della ragazza valeva più di cento frasi, e spiegava la sua frustrazione, la tristezza, il senso di oppressione e inutilità che provava.
Nessuna delle sue parole era servita per convincerlo di avere una buona ragione per rimanere.
Anche se non le aveva detto nulla che potesse persuaderla di essere poco importante per lui, il solo fatto che la loro lontananza non lo straziasse al punto da convincerlo a tentare il tutto per tutto pur di non lasciare la Francia la induceva a ritenersi superflua.
E al tempo stesso comprendeva le ragioni di Itachi, e si sentiva egoista nel chiedergli qualcosa che non poteva darle. E anche per non essere in grado di offrirsi di accompagnarlo lei. Ma poteva? Poteva lasciare la Francia, e Parigi, che era il suo amato mondo?
Era immersa nelle sue riflessioni al punto che non l’aveva udito alzarsi e avvicinarsi. Ora era alle sue spalle.

 

 

 

Ad un tratto il grattare sommesso del carboncino si interrompe.
Ino vede lo sguardo di Itachi spostarsi dal foglio al suo viso.
Solo la terza volta in vita sua che lo vede.
Nemmeno cento parole scambiate tra loro, in totale, o così le pare ripensandoci.
Non dovrebbe esserci la familiarità che sente, né l’intimità che istintivamente avverte.
Non dovrebbe anelare con tanta violenza un contatto da parte di lui, eppure quando lo vede posare per un momento il carboncino sul piccolo tavolo lì accanto ed allungare una mano verso di lei non riesce a trattenersi dal socchiudere gli occhi in frenetica attesa delle sue dita sulla propria pelle.
Chinandosi in avanti per raggiungerla con la mano Itachi abbassa il foglio su cui sta lavorando da quasi due ore ormai, ed Ino si stupisce.
In tutto quel tempo, lui non ha tratteggiato la sua figura, non ha schizzato la sua immagine nell’insieme, non ha posto le basi per un ritratto.
No: ha disegnato unicamente i suoi occhi, e le sue labbra. Ma sembrano
vivi.
Ino vede se stessa occhieggiare e respirare dalla cellulosa del foglio.

 

 

 

Si sorprese, Ino, quando sentì che lui la stava cingendo.
Si lasciò condurre da un braccio solido al piano di sopra, nella camera da letto ancora illuminata dalla luce della veranda e lì si arrestarono, in piedi.
La  giovane sentì il petto di lui contro la propria schiena, e si abbandonò alle carezze leggere che Itachi disegnava sul suo ventre palpitante e sui fianchi.
Posò la testa all’indietro sulla sua spalla, sospirando.

 

 

 

Distoglie lo sguardo dal disegno, e lo focalizza sulla mano dell’artista che con una lentezza esasperante si avvicina al suo viso.
Si posa leggera sul suo mento, e con una lieve pressione induce Ino a ruotare il collo, voltando la testa.
“La posizione metteva gli occhi in ombra.” sussurra lui a mo’ di spiegazione.
Ma ora la posizione è cambiata, eppure lui non accenna a togliere la mano.
Il suo dito annerito di carboncino scivola dal mento lungo la linea della mandibola, passa sulla pelle sensibile appena sotto l’orecchio, finisce dietro la sua nuca, e lì si ferma la sua mano.

 

 

 

Itachi la fece ruotare su sé stessa, in modo da poterla vedere negli occhi.
Si guardarono e basta, per qualche secondo.

 

Inesorabile, Ino sente la pressione di quella mano alla base del collo.
Vi si abbandona senza nemmeno sognarsi di porre resistenza.

 

Il bacio fu intenso, come ogni bacio che si erano scambiati da quando si erano conosciuti.

 

Pare ad entrambi di non poter più respirare se non contro le labbra dell’altro.

 

Le mani di Ino scattarono istintivamente ad infilarsi tra i capelli scuri di Itachi, sciogliendo la coda in cui solitamente li raccoglieva, mentre lui avvolgeva le braccia intorno alla vita di lei.

 

Si sorprende un po’ di sentire che lui le afferra un braccio e la trascina verso il letto, e per un millesimo di secondo il minuscolo tarlo di uno scrupolo risveglia la sua coscienza, ma in un attimo lo mette a tacere.

 

Caddero sul materasso quasi di schianto, con il telaio del letto che mandò un cigolio poco rassicurante, ma non se ne curarono.

 

Ino si lascia sovrastare e si abbandona alla sensazione unica delle mani dell’artista su di sé. Sente il vestito sfilarsi dal suo corpo niveo, ma l’unica cosa che riesce a realizzare è il proprio rammarico per la lentezza con cui le pare che la stoffa scorra sulla sua pelle.

 

In un turbinio convulso, i vestiti furono a terra e i loro corpi in un groviglio di ansiti, movimenti, sussurri, contatto.

 

Entrambi completamente fuori controllo riescono solo a cercarsi in un qualcosa che non è ben chiaro se sia focoso amplesso o lotta selvaggia, ma evidentemente a nessuno dei due importa molto.

 

Nella frenesia, aggrappandosi alle spalle forse un po’ esili di Itachi Ino fu solo in grado di pensare che no, perderlo non poteva.

 

 

 

Si accorse che qualcuno stava salendo le scale perché udì distintamente i passi attraverso la porta sottile che separava il suo appartamentino dal pianerottolo, così aprì la porta prima ancora di sentir bussare.
“Ciao, scrofa.”
“Buon pomeriggio, Fronte Spaziosa.” Ino si fece da parte e lasciò passare quella che, nonostante i nomignoli, era la sua migliore amica.
Capelli chiari raccolti, corporatura minuta ed enormi ed espressivi occhi verdi. Sakura.
Reggendo un piccolo involto che probabilmente conteneva pasticcini, l’amica entrò nel piccolo salotto di Ino e ormai senza più chiedere permesso si accomodò.
“Come stai?”
Ino la guardò come fosse pazza.
“Mi vedi, no? Bene. Sto bene.”
Gli occhi di Sakura si raffreddarono.
“Non ti vediamo più in giro, lavoro a parte. Niente più passeggiate, niente più the con noi amiche, niente più chiacchiere i lunedì a pranzo quando il tuo ristorante è chiuso. Esci per l’indispensabile e poi ti richiudi qui, in compagnia di quelli.”
Con uno sguardo di disapprovazione Sakura accennò con la mano ai disegni appesi ovunque nella stanza in piccole cornici di legno. Paesaggi, ritratti. Anche piccoli schizzi. Ognuno nella sua cornice, protetto dal vetro.
Sakura aveva detto bene, pensò Ino, in compagnia di quelli.
Da quando Itachi era tornato in Spagna, lasciandole tutti i disegni che non aveva venduto, erano state quelle piccole grandi opere a parlarle al posto suo.
Una buona parte era stata prodotta poi quando la loro conoscenza era già avvenuta, e ad Ino bastava osservarli per ricordarlo tratteggiare quell’albero, delineare quel viso, sfumare quel chiaroscuro, dipingere quel cielo.
“Mi sta bene così, Sakura, almeno per adesso.”
“Se n’è andato da settimane, Ino. Ora è in Spagna. Non tornerà.”
“Non tornerà per ora.”
A quella risposta Sakura gettò su di lei un’occhiata a metà tra il rimprovero e la compassione, di quelle che in genere si rivolgono agli illusi che si rifiutano di vedere la realtà, ed Ino ne fu ferita.
Non era una ragazzina sciocca e inutilmente romantica.
“Ma nemmeno prossimamente lo rivedrai. Dimenticalo, e ricomincia daccapo. Non è certo l’unico uomo di Parigi.”
“Lascia perdere” berciò Ino. “Lascia stare.”
Sakura soppesò meglio l’espressione di Ino, i suoi occhi stanchi, la pelle tirata, l’aria di chi ha pensieri importanti per la testa e non può chiuderli fuori.
Sapeva che l’amica non era una stupida, né aveva mai amato crogiolarsi nelle disavventure che le capitavano tra capo e collo.
Ino era forte. Ino reagiva. E se in quel momento non era in grado di farlo, non era questione di pigrizia o ingenuità.
Sospirò pesantemente.
“Va bene, voglio fidarmi di te, come sempre.  Ma tu prometti di aver cura di te stessa e non continuare a lasciarti andare.”
Con un sorriso incoraggiante Ino annuì, accompagnandola alla porta.
“Ti ripasso a trovare domani, scrofa.”
“Sì, cara. Attenta allo stipite, con quella fronte.”
Con un mezzo sorriso sarcastico si salutarono, ed Ino richiuse la porta alle spalle dell’amica.
Rimase per un momento appoggiata alla maniglia, poi lentamente si diresse verso la camera da letto.
Con calma quasi innaturale aprì il cassetto della piccola consolle da trucco di seconda mano che si era comprata con la paga di tre mesi, trovandovi una busta voluminosa.
Estrasse un foglio scritto fitto con una grafia sicura ed elegante, e i due biglietti ferroviari che le erano stati recapitati insieme alla lettera.
Uno valeva per la tratta Parigi-Madrid. L’altro per la tratta Madrid-Siviglia.
Reggendo busta e contenuto tra le mani esili si avviò verso l’abbaino della stanza.
Parigi si stendeva maestosa sotto di lei, la Tour e il fiume riverberavano, ciascuno a modo suo, la luce del sole che ormai tramontava.
Pensò a quanto intensamente aveva desiderato la vita nella capitale.
Pensò alla soddisfazione di essere riuscita a giungere dove voleva.
Pensò alla vita che si era costruita e alle persone che la circondavano.
Pensò a Sakura.
Pensò al vuoto delle ultime settimane, costante, vorace, al centro del petto.
Ma tu prometti di aver cura di te stessa e non continuare a lasciarti andare.
Qual era la cosa migliore per se stessa?
Con un gesto quasi flemmatico appoggiò fogli e biglietti sul comò lì accanto, dopo di che estrasse da sotto il letto il gran borsone da viaggio che le aveva regalato sua madre, acquistato in una bottega di Lione in occasione della sua partenza per Parigi.
Lo appoggiò al letto aprendolo ben bene. Pronto per essere riempito.
Si avvicinò all’armadio e ne spalancò le ante, osservando il suo guardaroba con aria critica.
Quali capi potevano essere adatti al caldo clima di Spagna?

 

**********

 

*banlieue: periferia, sobborghi parigini

Grazie, come sempre, a chi ha letto e un super grazie a chi vorrà lasciarmi un parere.
Spero sia stato di vostro gradimento.
Alla prossima! :3
Panda

  
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