shinichi&ran
Al mio Watson.
Non aveva mai sofferto
di claustrofobia, ma quella cabina telefonica iniziava a sembrargli
troppo
stretta. Per la prima volta in vita sua si sentiva in trappola, anche
se il
modo per uscirne era proprio lì, nella tasca anteriore del
suo zaino. Era fra
l’incudine e il martello: prendere l’antidoto
oppure no? Se non lo avesse
fatto, Ran lo avrebbe raggiunto e avrebbe scoperto la sua vera
identità, ma se
avesse scelto di nasconderle la verità per
l’ennesima volta, non sarebbe potuto
tornare in Giappone.
“Mi scusi,” le sentì
chiedere ad un passante, in inglese. “Ha visto un ragazzo
giapponese?”
"Oh, quel ragazzo…”
rispose ingenuamente la donna, con forte accento anglosassone,
“...è appena
entrato in quella cabina telefonica!”
“Grazie” mormorò
distrattamente.
Okay, era l’ora di
prendere una decisione. E il prima possibile. La strada era deserta, e
i passi
di Ran sul marciapiede risuonavano minacciosi, fino ad arrivare alle
orecchie
del bambino, che frugava furiosamente nel suo zaino. Non aveva altra
scelta.
“Shinichi! Ormai non
puoi più scappare!” esclamò lei. Era
davvero arrabbiata. “Avanti! Spiegami la
situazione!”
Una pausa. Non voleva
uscire, dunque?
“SHINICHI!”
Finalmente la porta
della cabina si aprì con un cigolio. Qualche secondo dopo,
il detective era lì
di fronte a lei, con la sua solita espressione annoiata.
“Cosa dovrei
spiegare?” le chiese. “Anch’io sono
venuto per puro caso a Londra, tutto qui.”
“Allora perché sei
fuggito?” replicò lei, sull’orlo delle
lacrime.
"Be', ecco… Avevo
perso l’occasione di dirti che sarei venuto qui, e mi sentivo
un po’ in
imbarazzo…”
Odiava dirle bugie. Ma
c’era un altro modo?
“Perché non me l’hai
detto?” lo accusò Ran, nascondendosi dietro la
frangia scura. “Hai avuto molte
occasioni per dirmelo, no?”
Scacco matto. Perché
riusciva sempre a metterlo con le spalle al muro?
“E pensare che ero
così contenta…” continuò.
“E avevo fatto tante ricerche, tormentandomi per te.
Che stupida!”
Ancora lacrime sul suo
volto. Era una tentazione indiscutibile quella di abbracciarla e
consolarla.
“Lei aveva proprio
ragione: l’amore è zero! Per quanto se ne
accumuli, si finisce sempre
sconfitti!”
“Ma che diavolo stai
dicendo?” Era riuscita a confonderlo, per
l’ennesima volta.
“La signorina Minerva
Glass ha detto così!” urlò Ran,
perdendo la pazienza.
“M-Minerva Glass…?!
Allora hai incontrato la famosa Regina del tennis!”
“Certo! L’ho vista a
Baker Street! C’è qualcosa di male?!”
Continuava a piangere,
per quanto si sforzasse di trattenere le lacrime.
“A Baker
Street?” insisté il detective. “C’era
forse un bambino con lei?”
“Esatto. Era suo
fratello minore…”
“Ha detto di essere
venuto lì perché si era ricordato di
qualcosa?”
Nessuna risposta, solo
singhiozzi.
“Ehi, calmati…” le
disse dolcemente.
“Dovrei calmarmi…?!”
replicò Ran, stizzita. “Non capisci cosa provo?
Sei un detective, no? Allora
dovresti dedurre i miei sentimenti! Idiota!”
E scappò via, verso il
ponte. Per quanto Shinichi la chiamasse e le intimasse di fermarsi, lei
continuava a correre. Ogni tanto perdeva di vista il suo delicato
vestitino
lilla, e allora accelerava. Non l’avrebbe lasciata scappare.
Anche lui doveva
dirle una cosa…
Le afferrò il polso per
impedirle di fuggire ancora. Non riusciva a capire perché
urlasse o perché si
divincolasse a quel modo. Sapeva solo che non poteva lasciarla andare.
Sentiva
su di sé lo sguardo incuriosito dei passanti, ma non gliene
importava. In fondo
non potevano capire ciò che stava per dire, no?
“Quanto sei contorta!”
esclamò, stupendola. “Tu sei come un caso
difficile e complicato: mescoli talmente
tanti sentimenti inutili, che anche se io fossi Holmes, non riuscirei
mai a
risolvere i tuoi ragionamenti! Purtroppo mi è impossibile
decifrare
correttamente… il cuore della ragazza che amo!”
Ti
tirasti su a sedere, di scatto, sudato e ansimante. Ancora
quel sogno, eh? Quello che, da un
po’
di tempo a questa parte ti turbava, ti divorava da dentro. Il
perché, non lo
sapevi nemmeno tu. Che ti stava succedendo, Shinichi?
Sbuffasti e ti asciugasti la fronte con la manica del pigiama,
prima di lasciarti cadere nuovamente sul cuscino e fissare intensamente
una
minuscola crepa sul candido intonaco del soffitto. Chissà
cosa ci trovavi di
così interessante in quella piccola incrinatura. Forse ci
riconoscevi la tua
situazione, quello che quel sogno ti stava facendo vivere. Quel
semplice frutto
della tua immaginazione che stava pian piano corrodendo gli ingranaggi
di
quella macchina perfetta che era la tua mente. Da quasi una settimana
eri fermo
su un caso che persino un bambino avrebbe potuto risolvere , e certo
non mi
riferisco a Conan! Cosa stava succedendo al grande investigatore
liceale
Shinichi Kudo, il Detective dell’Est, l’ancora di
salvezza della polizia
giapponese? Potevi saperlo solo tu. Ma tu brancolavi nel buio
più assoluto, e
non c’era più nessuno a guidarti.
E quel sogno ti stava distruggendo. Ti faceva pensare a
quello che avevi perso, a quello che non potevi più avere.
Non sapevi come
finiva il sogno, e non avevi alcuna intenzione di scoprirlo. Non volevi
vedere
la reazione di Ran alle tue parole. Volevi che almeno
nelle tue fantasie Ran ti sorridesse, puntando i suoi occhi
azzurro-lilla nei tuoi, così maledettamente blu. Sorridesti
a quell’idea.
Ormai l’Organizzazione era stata sconfitta da un pezzo. Ma
Ran non ti aveva mai perdonato le bugie che le avevi raccontato, seppur
per
proteggerla. Ma cosa ti aspettavi? Che ti accogliesse con baci e
carezze?
Sicuramente lo avresti preferito di gran lunga, ma meglio di chiunque
altro
sapevi che era impossibile. Lo schiaffo che ti aveva rifilato bruciava
ancora.
Ma a farti male ancor di più erano state le sue lacrime.
L’avevi vista piangere
tante volte, ma mai come quella ti eri sentito più
colpevole. In quel momento
avevi iniziato a capire per quale motivo tanta gente si togliesse la
vita: quel
dolore che ti attanagliava era troppo anche per te. Ma l’idea
del suicidio non
ti aveva sfiorato nemmeno per un secondo. Anche se di ragioni ne avevi,
eccome
se ne avevi!
Ti alzasti, seppur di malavoglia. Odiavi andare a scuola,
odiavi dover vedere tutti i santi giorni il broncio di Ran, anche se
quando
aveva quell’aria accigliata era tremendamente carina.
Non avevi alcuna voglia di andare a scuola, ma dovevi farlo.
Afferrasti la divisa del liceo Teitan e ti avviasti giù per
le scale.
Quante
volte ancora avresti riletto quel libro? Lo stavi
sfogliando per l’ennesima volta, ma non ti avrebbe annoiato
mai. Il Segno dei Quattro era
senza dubbio il
romanzo di Conan Doyle che preferivi. Ad ogni lettura ne scoprivi
aspetti nuovi
che non avevi mai notato prima. Quella storia era così
affascinante e
misteriosa!
“Shinichi…” ti chiamò
timidamente qualcuno.
Nonostante tu conoscessi quella voce meglio di
qualunque altra, schizzasti dalla sedia, colto di sorpresa. Non ti eri
ricordato che le avevi dato le chiavi di casa tua.
“Ran! Ma sei impazzita?!” le chiedesti, mettendoti
una mano
sul cuore e cercando di calmare il respiro affannato. Ma, dentro di te,
non
potevi essere più felice.
“Ti ho spaventato?” chiese lei, ingenuamente.
“Scusami, non
volevo.”
Sorrise. E quando lei sorrideva la tua razionalità andava a
farsi friggere.
“F-fa niente” borbottasti, cercando di rimettere in
moto il
sistema nervoso. Ma lei sorrise di nuovo.
“Che ci fai qui?” le chiedesti, fingendoti seccato.
“Non montarti la testa,” ti ammonì.
“Sono ancora arrabbiata
con te!”
“E allora che ci fai qui?” replicasti. Quella
semplice
conversazione era quello che bramavi da una settimana a quella parte.
“Be’, sono arrabbiata, ma non insensibile. Buon
compleanno,
Shinichi!”
Aveva la mano aperta tesa verso di te. Sul palmo era
poggiato un delizioso pacchetto avvolto in carta blu, decorato con un
grande
fiocco argentato.
Come avevi fatto a dimenticarti di nuovo del tuo compleanno?
“G-grazie” balbettasti, colto alla sprovvista. E a
Ran non
sfuggì.
“Te ne eri dimenticato?”
“Be’, non esattamen…”
La sua risata ti interruppe.
“Sei proprio uno stupido!” mormorò Ran
divertita.
E mentre tu le davi contro, lei continuò a ridere.
“Dovresti dare una pulita ogni tanto, sai?” ti
disse
guardandosi intorno, poco dopo.
Borbottasti qualcosa, annoiato.
“No, sul serio, Shinichi. Questa casa è in uno
stato
pietoso!”
Non le rispondesti. Osservavi il pavimento con le mani
affondate nelle tasche dei jeans.
Quando alzasti lo sguardo, Ran stava fissando con disappunto
un punto vicino a te.
“Sherlock Holmes? Di
nuovo?” chiese, scettica, alludendo al romanzo che
ti era caduto.
“Sì. Ti crea problemi?” ribattesti,
mentre ti chinavi a
raccogliere il pezzo a te più caro della tua collezione.
“Cos’ha di speciale il tuo caro Holmes? Puoi
spiegarmelo,
perché io non lo capisco proprio!”
“Era un genio, Ran! La sua mente era una macchina
infallibile!”
“Ma è solo il personaggio di un romanzo!”
“Ciò non toglie che Sherlock Holmes sia il
più grande
investigatore mai esistito!”
“Oh, andiamo, Shinichi! Deve averlo commesso anche lui un
errore, un errore qualsiasi! Non puoi prendere per buona qualsiasi cosa
Holmes
dica!”
Ammutolisti.
“Shinichi…?” ti richiamò, ma
tu la ignorasti.
“In effetti un errore l’ha
commesso…” sussurrasti. Odiavi
ammetterlo, ma su quel punto Holmes aveva più che torto. Lo
avevi sempre
pensato. O meglio, da quando avevi capito cosa provavi davvero per Ran.
“Cosa?” ti chiese, palesemente confusa. Non si
aspettava che
tu cedessi così.
“Sherlock Holmes considerava l’amore una
distrazione, un sentimento
irrazionale, un fastidio. Lo dice
chiaramente nel caso di Uno scandalo in
Boemia, in cui fronteggia Irene Adler, l’unica
donna che riuscirà a
batterlo in tutta la sua carriera. Non aveva mai dimostrato amore nei
suoi
confronti, ma è certo che non fosse una semplice rivale per
lui. Aveva respinto
i suoi sentimenti brutalmente, e io penso che, in fondo, non se lo sia
mai
perdonato. Sono sicuro che lui amasse Irene Adler. E se
l’è lasciata scappare.
Ma io non voglio fare lo stesso errore” sussurrasti, tutto
d’un fiato,
avvicinandoti a Ran. Era l’ora di chiarire le cose.
L’avevi lasciata a bocca aperta.
“Sh-Shinichi?”
Le prendesti le mani, intrappolandola nella presa mortale
dei tuoi occhi azzurri.
“Non ho idea di come Holmes sia potuto vivere senza
l’amore,” concludesti. “Io so solo che
senza te non posso vivere.”
L’avevi lasciata senza parole. Al contrario delle tue
aspettative non avevi avuto paura mentre le dicevi quello che provavi.
Le
parole erano uscite da sole, non sapevi nemmeno di essere in grado di
dire cose
del genere.
"Shinichi..." sussurrò lei, senza spostare lo sguardo.
Poi ti gettò le braccia al collo e iniziò a
piangere.
In quel momento non ti importava più di nulla. La
realtà
superava di gran lunga i tuoi sogni più fantasiosi.
Perché nella realtà potevi
sentire l’abbraccio di Ran, i vostri corpi vicini, le sue
lacrime sulla tua
maglietta.
Forse un giorno le avresti raccontato del tuo sogno, e
allora sareste andati a Londra insieme. Ma per adesso bastava
quell’abbraccio
per essere felice, quell’abbraccio e nient’altro.