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Autore: FuoriTarget    13/07/2012    8 recensioni
Sequel di Relazione clandestina. Credo sia necessario leggere la prima parte per comprendere la storia, ma siete liberissimi di tentare l'impresa.
La vita ha portato i due protagonisti ad allontanarsi completamente dopo una storia d'amore travagliata. Complici il lavoro, lo stress, le bollette da pagare e le rate del mutuo, ognuno dei due è annegato volonariamente nella propria solitudine. Cosa succederà se il matrimonio dei loro migliori amici li costringerà a incontrarsi dopo molti anni? E sopratutto se la sfortuna decide di intervenire rimescolando le carte in tavola?
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Travolti da un insolito destino




Capitolo 1






-Non ci andremo-
-Cosa? Perché no??-
Manuel fece abilmente finta di non sentirla mentre cercava una cravatta scura che si abbinasse alla camicia azzurra. Doveva trovare il tempo di riordinare il casino nel suo armadio.
-Nera?-
-Meglio quella a righe blu- rispose lei stizzosa, poi riprese da dove si era interrotta comodamente sdraiata sul suo letto: -Perché non vuoi andarci? Tuo padre ha detto che ci sarà- non che quella fosse una valida argomentazione per convincerlo ma Kate sapeva essere estenuante quando voleva ottenere qualcosa.
Da due settimane lo tormentava senza interruzione per colpa di quella maledetta busta.
Quand’era arrivata aveva provato ad occultarla nel cassetto degli strofinacci, ma quella aveva un sesto senso per i suoi tentativi di raggiro. Ovviamente l’aveva beccata subito.
Non sarebbe stato poi così facile tenerglielo nascosto visto che due giorni dopo suo padre l’aveva chiamata dicendo che aveva già guardato i voli: il vecchio maledetto era suo complice.
Manuel però era deciso a non arrendersi, non aveva alcuna intenzione di andare a quel fottuto matrimonio e non si sarebbe lasciato fregare ancora da Kate, anche a costo di chiedere una trasferta in Asia.
Trovò la cravatta giusta e finalmente riuscì a trascinare la sua coinquilina fuori di casa. Dovevano andare ad un’esposizione di design anni ’60 a cui a cui era stato spedito lui per rappresentare l’ufficio. A Kate piaceva accompagnarlo a questi eventi; per lui era solo lavoro, un susseguirsi di clienti da paraculare, stime, valutazioni, contrattazioni a non finire, per lei invece erano solo buffet e vino gratis e uomini d’affari tirati a lucido da rimorchiare. Più di una volta era tornato a casa da solo, o l’aveva riportata mezza ubriaca.
-Taxi o metro?- le chiese annodandosi la cravatta mentre scendeva le scale.
-Metro, poi se vuoi torniamo in taxi-
Kate adorava i mezzi pubblici quanto lui li odiava. Erano sporchi e puzzolenti, soprattutto la metropolitana dove non era difficile fare incontri di dubbio gusto. Per lei invece era meglio di un trattato di sociologia, le piaceva proprio vedere come le persone si rapportano le une con le altre in spazi comuni e limitati come le carrozze della metro.
-E metro sia..- rassegnato la seguì verso la stazione.
Presero la linea rossa affollata come a tutte le ore del giorno, la stessa che lui prendeva varie volte al giorno per andare al lavoro, poi cambiarono a Holborn per prendere la blu dove riuscirono finalmente a sedersi. Naturalmente Kate colse al volo l’occasione di tornare sull’argomento.
-Ma dai, che vuoi che succeda?-
Non ci fu bisogno di chiederle di cosa stesse parlando, bastò incontrare il suo sguardo da cucciolo bisognoso d’affetto. Era nauseante quella donna.
-Non ho paura di quello che potrebbe succedere, solo che non ho voglia di rivedere gente con cui non parlo da una vita-
-Phil e Jack li hai visti a Natale-
-Non fare la finta tonta-
-Va bene allora ci vado da sola con Sergio-
-Come ti pare-
Sperava di irritarlo ma non aveva fatto i conti con la sua ostinazione. Suo padre era deciso ad andarci quindi si sarebbe fatto accompagnare molto volentieri da Kate, lui invece non faceva che macerare in mille ripensamenti. Non tornava a Verona da oltre cinque anni, e all’improvviso quella lettera voleva costringerlo a tornare sui suoi passi. Appena l’aveva vista nella buchetta poco più di due settimane prima, più piccola rispetto alla normale corrispondenza e di una carta azzurrina, aveva pensato ad un invito a qualche convegno o mostra importante. Poi aveva notato il suo nome e quello di Kate scritti a mano in bella calligrafia, infine il francobollo e il timbro postale italiano. Se l’era rigirata tra le mani per ore nella solitudine della cucina, ne aveva studiato la forma quadrata e discreta, la calligrafia svolazzante e palpato la delicata carta di riso celeste di cui era fatta. Quando l’aprì era solo, seduto a tavola di fronte al solito cous cous del take away vegetariano, e l’unica parola che gli venne in mente fu un’imprecazione in una lingua che non usava da anni.
Quella a cui si trovò di fronte non era una semplice partecipazione di nozze: quello era l’invito al matrimonio dell’anno, quello che Filo aspettava da una vita, quello che lei e le sue amiche progettavano fin da bambine. Era l’invito ufficiale al matrimonio del suo migliore amico di sempre, Jack Zonin. Simpaticamente accompagnato da un appunto vergato a mano che lo minacciava di morte violenta se non avesse mosso il suo deretano ossuto da Londra per partecipare.
-Non puoi non andarci..- decretò quella perfida creatura alzandosi per scendere a Green Park.
Imboccarono le scale mobili e subito fuori Kate prese a saltellare sul marciapiedi davanti a lui, ignorando bellamente la sua aria funerea. Lei già sapeva che alla fine avrebbe ceduto.
-Ehi stasera c’è quel figaccione del tuo stagista?-
-Non è il mio stagista, e comunque non lo so: io di certo non l’ho invitato- non che con quello lei avesse qualche possibilità, era vistosamente gay. Per Kate era solo un dettaglio, amava definirsi un’estimatrice di “nature vive” e spesso lo prendeva in giro dicendo di averlo scelto come coinquilino solo per poterlo rimirare ogni mattina. La maledetta.
-Beh allora speriamo che si sia autoinvitato!-
-Kate, è gay-
-Potrebbe sempre cambiare idea no?-
Manuel la guardò trotterellare attorno a lui sul marciapiedi, con addosso una camicetta svolazzante color canarino e una gonna elegante un po’ fuori moda, rideva come una cretina.
-Per te, brutto sgorbio di nanerottola rompipalle?-
Kate continuò a saltellare e ridere mentre gli agitava davanti al viso un dito medio alzato.
 
Davanti al palazzo che ospitava l’esposizione saltarono la fila grazie all’invito personale di Manuel, un uomo in completo nero controllò la presenza dei loro nomi su una cartelletta e con un cenno altezzoso diede loro il permesso di passare. Superarono una scalinata coperta da un tappeto blu e guadagnarono la soglia del palazotto liberty con una certa fretta, erano già stati a parecchie esposizioni lì dentro e nessuno dei due era particolarmente interessato a notarne l’architettura. All’interno venne consegnata loro una brochure che illustrava la disposizione su due piani di mobilio e complementi d’arredo dei primi anni ’60 e a Manuel venne una crisi immediata di claustrofobia. Non era un fan del design, lo capiva e apprezzava in certe forme, ma non riusciva a considerarlo una forma d’arte e quindi mal tollerava le mostre dedicate solo a futile oggettistica dalle forme accattivanti. Seguì Kate al buffet preso dallo sconforto sperando almeno che ci fosse un vino decente.
Dopo l’iniziale crollo la serata prese la solita piega: lui intratteneva relazioni di lavoro con collezionisti e venditori, mentre Kate si aggirava per i corridoi armata di bollicine e guardando più i culi degli astanti che le opere esposte. Inoltre, per una qualche fortunata congiunzione astrale, quel rompipalle dello stagista non era presente, o forse aveva avuto l’ottima idea di stargli lontano.
Verso le undici andò alla ricerca di Kate e la trovò bellamente accomodata su una poltrona di pelle che faceva parte della collezione e valeva quanto casa loro.
-Alzati da lì scriteriata, finisce che mi tocca comprarla quella poltrona se la rovini-
-Scriteriata io? Ha parlato l’uomo che fugge dai matrimoni..- gli bastò quella frase per constatare che almeno non era ubriaca.
Lasciarono il palazzo dopo una serie snervante di convenevoli e con una manciata di numeri di nuovi clienti.
-Mi ha scritto Judith, lei e Mike sono all’Empire. Chiedono se li vogliamo raggiungere?-
Judith era una ex collega lesbica di Kate, scriteriata pure lei, la donna meno pudica che Manuel avesse mai conosciuto. Lo minacciava letteralmente di portarselo a letto ogni volta che si vedevano, quasi gli faceva paura. Mike era un discreto compagno di bevute, non esattamente un amico  ma era pacato e tollerabile, doti che Manuel riscontrava di rado negli amici di Kate. Per questo l’accoppiata Mike-Judith era alquanto bislacca.
-Come vuoi- le rispose quanto più atono possibile.
Kate per fortuna non era in vena, forse anche perché sapeva quanto poco lui sopportasse Judith, quindi si ritirarono verso casa.
Fermarono il primo taxi libero dopo un paio di minuti e Kate indicò all’autista l’indirizzo mentre Manu guardava fuori dal finestrino le persone che lasciavano la mostra. Tra loro c’era una ragazza con un vestito nero che aveva notato anche all’interno; era molto bella, alta e con un corpo sinuoso, lunghi capelli mori e ondulati, ci aveva parlato qualche minuto ma gli era sembrata insignificante.
Se l’avesse incontrata a diciott’anni probabilmente non si sarebbe fatto tanti scrupoli: l’avrebbe avvicinata offrendole un drink, un paio di minuti di chiacchiere in cui avrebbe testato il suo livello di inibizione, poi le avrebbe proposto di bere qualcosa a casa sua. E ci sarebbe andato a letto di sicuro, magari non avrebbe nemmeno aspettato di essere a casa e se la sarebbe scopata sui lavandini del bagno. Non sarebbe stato così difficile, li aveva notati anche lui gli sguardi lascivi che gli lanciava.
Con gli anni però era diventato sempre più selettivo.
Kate gli si accoccolò accanto passandosi un suo braccio sulle spalle e prese a parlargli di una delle ultime conquiste di Judith, una donna della City a cui pareva piacessero molto corde e frustini, tutti particolari di cui Manuel avrebbe volentieri fatto a meno. Kate blaterò ancora di altri particolari osceni ridendo e farcendoli con commenti ancora più osceni. Lui e il taxista incrociarono gli sguardi nello specchietto retrovisore e non seppe dire chi guardasse l’altro con maggiore commiserazione.
Finalmente giunti a destinazione, Manuel pagò il taxi e lo congedò trattenendosi dall’arrossire. Arrancarono per le scale fino al secondo piano e con immensa gioia si chiusero la porta alle spalle con tanto di catenaccio. Kate raggiunse il bagno per prima e con un urlo gli ordinò di aspettarla ad aprire i biscotti che aveva già in mano. Quindi, maledicendo il suo stupido intuito femminile, si arrese ad andare a spogliarsi e mettere sul fuoco l’acqua per il the.
Come quasi ogni notte finirono a guardare Gordon Ramsey nel letto di Kate muniti di biscotti e the alla menta corretto alla vodka: ricetta speciale ideata da Manuel in una notte di profonda depressione.
Era quasi addormentato quando la voce di lei mischiata alle imprecazioni di Ramsey, lo svegliò da torpore.
-Davvero non vuoi andare al matrimonio?-
Non credeva sarebbe tornata alla carica tanto presto.
Di solito l’arma che funzionava di più su di lui era la sua tediosa e logorante costanza, in pratica la assecondava per sfinimento; però era abbastanza brava a dosarsi, non lo portava quasi mai ad incazzarsi. Aveva usato in effetti il tono più delicato e discreto, quello di Kate-la-migliore-amica, non di Kate-la-coinquilina-despota. E quello di solito lo faceva sciogliere.
Nonostante tutto non sapeva cosa risponderle. Era ovvio che ci sarebbe voluto andare, era il matrimonio di Jack, il suo più vecchio e caro amico, quello che non l’aveva mai mai mai abbandonato sebbene avesse tentato di allontanarlo più volte, quello che gli scriveva mail tutti i mesi e chiamava Kate di nascosto per sapere come stesse quando lui non rispondeva. Ovvio che sarebbe voluto andare al suo matrimonio, anche solo per sfotterlo un po’.
Però.
C’erano un sacco di situazioni spiacevoli che avrebbe volentieri evitato.
-Non lo so- affondò la faccia nel cuscino e inspirò a fondo quell’odore così familiare.
Non le disse altro, Kate avrebbe capito, come aveva sempre fatto.
Rimasero in silenzio a guardare i prodigi culinari di Ramsey per una mezz’ora, Manuel dormicchiava a tratti e si perse metà dei dialoghi, Kate invece continuava a mangiare biscotti senza guardare davvero lo schermo. Alla fine si arrese ad alzarsi per riportare tutto in cucina e lasciò che dormisse abbracciato a lei.
 
Il sonno di Manuel, nonostante fosse stato tra le uniche lenzuola che lo facessero sentire a casa, fu costellato di incubi e risvegli improvvisi. Sognò di corridoi senza fine, di inseguimenti senza capo ne coda, finchè ad un certo punto non si accorse di star inseguendo la sua stessa ombra. Kate lo tenne stretto a sé per molte ore prima di cedere anche lei al sonno; non era raro che dormissero insieme, ma di solito era lei ad accoglierlo perché bisognosa di rassicurazioni e contatto umano, quella notte invece lo guardò agitarsi e mormorare parole senza senso accarezzandogli i capelli per ore.
La sveglia suonò alle 7.30 come tutte le mattine, ma si affrettò a spegnerla per lasciarlo dormire ancora un po’. Si alzò a preparargli la sua colazione preferita e i vestiti, dopodiché scaldò la doccia appena prima di svegliarlo e sbattendocelo poi dentro con poca premura.
Così iniziava la loro giornata-tipo.
Quando ne uscì dieci minuti dopo, nudo come un verme, incazzato nero e arruffato come un pulcino, lei era seduta a gambe incrociate sul gabinetto e gli porgeva una tazza di caffè con un sorriso che non aveva nulla di rassicurante.
-La tua stronzaggine non ha confini- le vomitò addosso prendendosi il caffè.
-Grazie. Anche la tua- espletati quei pochi convenevoli del buongiorno, lo lasciò da solo per dargli modo di riprendere contatto col mondo.
Dopo parecchi minuti al suo arrivo in cucina Manuel trovò due toast al prosciutto e formaggio, una mela,  spremuta d’arancia e altro caffè già caldo. Kate voleva farsi perdonare per averlo pressato. Aveva indossato esattamente quello che lei aveva preparato sul letto, comprese mutande e calzini coordinati, non aveva voglia di stare a cercare delle alternative e alla fine aveva divorato tutto ciò che c’era sul tavolo sotto il suo sguardo vigile. Quando uscì le baciò la guancia e le promise che l’avrebbe chiamata prima di pranzo.
Al suo arrivo in ufficio c’era un discreto caos, a breve ci sarebbe stata un’importante asta di gioielli appartenuti a dive famose del passato, roba che attirava gente dai quattro angoli del pianeta. Per queste aste c’era sempre un gran casino, soprattutto alle pubbliche relazioni. Fortunatamente il suo studio era al secondo piano.
Verso le nove quasi tutti i suoi colleghi erano già arrivati e ciondolavano per i corridoi recuperando la posta cartacea o il materiale per il meeting organizzativo della mattina. Presentarsi impreparati all’appuntamento del mattino per la sua capo reparto era considerato alla stregua di un peccato mortale, ma dopo tre anni sotto il suo comando aveva smesso di mettergli paura.
Da Sotheby’s la gerarchia aziendale era estremamente complessa ma soprattutto estremamente importante. Era entrato come catalogatore all’assunzione, poi era riuscito a farsi notare dalla Sullivan grazie ad alcuni agganci con un collezionista di Milano, e da lì la sua carriera era decollata.
Mrs. Sullivan era il suo diretto superiore, nonché capo del dipartimento di arte contemporanea, era un’americana mostruosamente lucida per l’età che aveva: non che qualcuno la sapesse con precisione, ma dimostrava di aver superato la settantina da un po’. Era una donna d’altri tempi, tutta d’un pezzo, severa e meticolosa, una che sapeva il fatto suo. Lavorava là dentro praticamente da sempre ed era considerata uno dei massimi esperti d’avanguardie artistiche del mondo. Per quanto anziana apparisse, era assolutamente al passo con i tempi  masticava di tecnologia molto più di alcuni dei suoi collaboratori, tanto che non riusciva mai a separarsi dal suo Ipad, al contrario di Manuel che lo perdeva di continuo. I primi tempi l’aveva trovata spaventosa: varcava ogni giorno le porte dell’ufficio alle 9.30 precise, con addosso degli agghiaccianti completini colorati che facevano invidia solo alla Regina e maltrattava la sua segretaria personale come una nazista. Poi però aveva preso confidenza e scorto l’animo progressista che la manteneva sulla cresta dell’onda da oltre trent’anni. Quella donna aveva portato ad un asta il primo Fontana di Sotheby’s contro il parere di tutti e ne aveva ricavato oltre 50.000 dollari.
I suoi meeting delle dieci erano molto temuti, revisionava personalmente il lavoro di tutti e dettava precise istruzioni ad ognuno dei suoi collaboratori con tono pacato e al tempo stesso dispotico, era una a cui non si poteva disobbedire. Sceglieva personalmente i propri sottoposti e a chiunque bastava dare uno sguardo dentro gli uffici del dipartimento per capire che dietro i tailleurini colorati e le collane di perle, in quella donna dimorava una mente perversa.
Oltre a Manuel aveva tre colleghi e una segretaria personale, tra i quali lui faceva quasi la figura del perfetto bravo ragazzo.
La più appariscente era di certo Missy, la gothic queen, un essere di dubbio gusto perennemente truccata come un’inquietante bambola di porcellana e vestita come la schiava sessuale di un impiegato giapponese con la perversione delle cameriere vittoriane e dei merletti. Al lavoro, o  almeno negli eventi importanti, sapeva contenersi e indossare abiti meno appariscenti, senza mai negarsi però accessori pieni di pizzi e ammennicoli rigorosamente neri, il preferito di Manuel era l’ombrellino parasole di pizzo nero, un tocco di stile per mantenere la carnagione lattea. Dimostrava molti meno anni dei trentasei che risultavano all’anagrafe grazie al trucco e all’aria svagata da bambolina, e ovviamente scatenava gli istinti peggiori di tutti gli uomini del loro piano. Manuel si trovava molto bene con lei, era intelligente e preparata, anche se con lei si poteva parlare quasi solo di lavoro perché ogni altro argomento scadeva in qualche gothic band che lei adorava,  confrontati a lei gli altri due erano apparentemente normali.
Apparentemente.
Robert era il dirimpettaio della scrivania di Manuel, un quarantenne di media statura, media corporatura, media bellezza e medio interesse, sposato con un’insegnante di scuola elementare brutta come un porcospino, con un figlio altrettanto mediocre. Il giorno che si erano conosciuti aveva creduto di trovare il lui il collega sano di mente che non aveva visto in Missy, invece dopo pochi giorni si rassegnò vedendolo lavorare. Rob era un ossessivo compulsivo dell’ordine, la sua scrivania era inquietante, completamente bianca, con la corrispondenza allineata per data in un contenitore, le matite, rigorosamente sei e rigorosamente temperate della stessa lunghezza, in un contenitore diverso dalle penne, tutte rigorosamente nere. I cassetti con adesivi per identificarne il contenuto, tre contenitori per la raccolta differenziata e uno spray igienizzante con cui ogni mattina puliva telefono, mouse e tastiera.
Confrontata a quella di Manuel, su cui regnava la filosofia dell’accatastamento compulsivo e troneggiava un cactus mezzo morto (regalo di Kate), sembravano quasi due uffici diversi. Certo se avesse dovuto scegliere forse tra i due avrebbe preferito Missy e le sue penne glitterate.
Il pregio assoluto di Rob era la memoria visiva, tante volte se qualcuno non ricordava la collocazione di un opera in questo o quel magazzino passava da lui prima che dal computer perché era molto più veloce della ricerca nel software aziendale.  Il difetto più grave era la tediosa insistenza con cui ad ogni pausa pranzo cercava di convincere Manuel a riordinare la scrivania.
E infine c’era il francese Julien, aveva pochi anni più di lui ma nonostante questo non avevano legato granchè. Era un uomo distinto, sempre in giacca e cravatta, barba fatta in giornata e i capelli biondi pettinati con cura, aveva lavorato alla sede di Parigi per qualche anno poi si era trasferito qualche mese dopo l’arrivo di Manuel. Ovviamente approdò direttamente all’apice della scala dei collaboratori per la sua precedente esperienza; non era molto preciso sul lavoro, spesso tralasciava particolari importanti, ma soprattutto era uno che non sapeva assumersi le responsabilità. Non faceva altro che scaricare i propri errori sulle spalle di altri, attribuendo a loro le sue mancanze, per questo Manuel non lo tollerava. Proprio non poteva vederlo e il loro rapporto ne aveva risentito parecchio, al punto che anche Julien non vedeva Manuel di buon occhio e quindi per tacito accordo cercavano di interagire il meno possibile fino quasi ad evitarsi.
Oltre a questi strani soggetti, c’era Kendra la segretaria martoriata dalla nazista e a mesi alterni ogni dipartimento ospitava degli stagisti da varie università o dal Sotheby’s Institute of Art, lo stesso in cui si era specializzato lui.
Quella mattina Missy presentò la valutazione di alcuni lavori di nuovi artisti russi, Julien e Rob si stavano occupando della preparazione del catalogo dell’asta prevista per giugno mentre Manuel era stato incaricato già da due settimane di seguire il prestito di un loro cliente ad una galleria di Liverpool per una mostra. Era un lavoro tedioso e poco entusiasmante, fatto di controlli telefonate e continui sopralluoghi, ma almeno era da solo, lavorare in gruppo con quegli scoppiati era sempre un rischio.
Fu una mattinata di telefonate, prima al museo di Liverpool, poi per rassicurare il cliente ed infine per organizzare il rientro dell’opera alla sede originale. Mrs. Sullivan lo chiamò verso mezzogiorno nel suo studio per affidargli un altro incarico simile: sarebbe dovuto andare ad Amsterdam per controllare il prestito  di un loro cliente ad una mostra per una serata di beneficenza. Altro lavoro noioso, ma almeno c’era il diversivo della trasferta.
Prima di uscire dallo studio del capo gli venne in mente l’argomento per il quale Kate lo tormentava da due settimane e decise di tastare il terreno prima di prendere una decisione definitiva.
-Mi scusi capo, ha un minuto? Dovrei chiederle una cosa-
Mrs. Sullivan lo guardò con discreto stupore. Lo conosceva abbastanza per sapere che Manuel era uno di poche parole e che di rado andava ad importunarla per qualche sciocchezza.
-Sì, su siedi- e lo invitò ad accomodarsi su una delle sedie trasparenti di fronte alla sua scrivania: -Hai problemi con quelli di Liverpool?-
-No affatto, è una questione personale- fece una piccola pausa, colto da un accenno d’imbarazzo, era la prima volta che le si rivolgeva con una richiesta del genere: -Avrei bisogno di alcuni giorni di ferie-
Anche Mrs. Sullivan colse evidentemente il suo imbarazzo ma non fece molto per metterlo a suo agio, solo gli fece segno di proseguire.
-Da l’anno scorso ho accumulato molti giorni di ferie, solo in via ipotetica, potrei usarli dopo l’asta serale di giugno?-
-Certo. Dovremo accordarci sul periodo con precisione, ma non vedo ostacoli alla tua richiesta- accennò un sorriso senza troppo calore, piuttosto lo squadrò con attenzione: -Non hai mai fatto richieste di questo genere. C’è qualcosa che ti preoccupa?-
-No nessun problema: ho due amici che si sposano in Italia e vorrei approfittarne per portare un po’ mio padre a casa-
In realtà di problemi e situazioni che lo preoccupavano ce n’erano una valanga ne suo padre aveva mai avuto bisogno di lui per farsi una vacanza, ma non era il caso di metterla al corrente. Quella donna sapeva essere molto impicciona.
-Saggia decisione. Non ci torni molto spesso mi pare?-
-Non ho più molto per cui tornare là ormai-
A Mrs. Sullivan non sfuggì la sottile malinconia che aveva velato la sua ultima frase, eppure non gli diede modo di capirlo. Ammirava Manuel, era uno dei migliori degli ultimi anni, ed erano anni che lo vedeva lavorare sodo con precisione e professionalità, per questo gli avrebbe concesso le ferie senza opporsi e magari avrebbe trovato anche un lavoretto da svolgere in Italia per gratificarlo un po’.
-Fammi sapere quando questa ipotesi diventerà qualcosa di più preciso-
Si congedarono e Manuel tornò alle sue telefonate ancora pieno di dubbi su questo ritorno in Italia.
Da Liverpool gli scrissero che l’opera era già in viaggio, e per il resto della giornata si occupò di organizzare la nuova trasferta. Ci sono molti protocolli di sicurezza da rispettare per muovere un quadro che vale svariati zeri, assicurazioni, firme, autorizzazioni: tutta roba che richiedeva troppa carta e pazienza per i gusti di Manuel anche se ormai ci navigava in mezzo da tempo ed aveva imparato ad orientarsi. In più c’era la serata di beneficenza a cui Manuel a quel punto sarebbe stato costretto a partecipare. Doveva pure ripescare un abito decente dal casino del suo armadio.
Come quasi tutti i giorni Kate lo raggiunse per pranzo. Vivendo lì da molti anni, si era pian piano plasmato sulle abitudini inglesi: al di là degli stereotipi da thè e fish and chips, una delle consuetudini a cui aveva aderito con più entusiasmo era quella di consumare i pasti fuori. Sua madre sarebbe inorridita al pensiero, e Sonia pure, ma lui e Kate come la maggior parte dei giovani londinesi, mangiavano quasi tutti i giorni fuori casa. A lui piaceva il thai o il messicano e odiava il macrobiotico, sebbene non disdegnasse le preferenze di Kate per il vegetariano. L’unica regola che si erano comunemente imposti era il pranzo domenicale, quello doveva essere rigorosamente homemade come nella migliore tradizione italiana: niente take away da Subways o cinese a domicilio, a turno cucinavano in casa, e le domeniche in cui Manuel si metteva ai fornelli richiamavano gran parte dei loro amici.
Quel giorno scelsero un bistro vicino a Sotheby’s perché doveva tornare in ufficio quanto prima, mentre Kate si sarebbe data allo shopping in Carnaby street.
Ordinarono un’insalata di pollo lui e pasta lei -Manu si rifiutava da anni di mangiare pasta che non fosse cucinata a lui-, poi lo travolse con le chiacchiere sulla nuova relazione di Andrew, uno dei loro migliori amici.
-Parlando di relazioni ambigue, vorrei farti una proposta..-
-Non ci vengo a letto con te, ci abbiamo già provato ed è stato un disastro- Manu le rispose senza nemmeno alzare gli occhi dal bicchiere e si guadagnò un calcio in uno stinco da manuale.
-Idiota- sibilò lei tra i denti e riprese a ciarlare come se lui non fosse piegato in due dal dolore con le lacrime agli occhi, -Visto che io non sono mai stata in Italia, quando e se andremo a quel matrimonio, potremmo rimanere qualche giorno in più e visitare Venezia no!?-
Manuel tra i gemiti di dolore riuscì a fulminarla e zittirla per appena tre secondi.
-Ho controllato su Google Maps e non è lontana da Verona- insistette lei.
-Lo so- constatò lapidario prima di afferrare il bicchiere colmo di vino.
Ci furono attimi di tensione, in cui si limitarono a guardarsi negli occhi. Kate sapeva di aver già vinto, Venezia, Roma, Firenze e tutte le città d’arte erano uno dei suoi nervi scoperti, se avesse voluto davvero vincere con un colpo da maestra le sarebbe bastato nominare la Cappella Sistina.
-Potremo noleggiare una macchina e andar..-
-No, andare in macchina a Venezia è un incubo- la interruppe subito senza rendersi conto di essere caduto nella sua rete: -In treno ci vuole meno di un’ora-.
Kate rise sotto i baffi.
-Promettimi che ci penserai- mormorò con gli occhi dolci e sbattendo le ciglia come colpo di grazia.
Manuel grugnì invece di rispondere e si avventò sulla sua insalata di pollo.
 
Circa una settimana dopo la conversazione con la Sullivan, suo padre chiamò a casa.
Fu Kate a rispondere, ma gli fu chiaro già dalle prime battute chi ci fosse dall’altro lato dell’apparecchio. Sergio Bressan non era un uomo che mollava facilmente, soprattutto dopo che si era fissato con qualcosa, in questo caso con un fottuto matrimonio. Ora poi che aveva l’appoggio di Kate sarebbe diventato insostenibile.
-Lo so, lo so, è testardo e ostinato. Vedrai che tu riuscirai a farlo ragionare-
Certo come no!
La voce di Kate rimbombava lungo tutto il corridoio, la poteva sentire dal bagno con il rubinetto acceso. Sapeva che stavano parlando di lui, e sapeva che presto Kate avrebbe fatto irruzione senza bussare, quindi finì di farsi la barba alla svelta e assicurò il nodo della cinta dell’accappatoio. Non che ci fosse nulla che lei non avesse già visto, ma almeno a lui un po’ di pudore era rimasto.
Come aveva previsto la sentì avvicinarsi e irrompere in bagno con il cordless stretto contro la spalla e un toast nella padella.
-E hai già chiamato? Se hai bisogno di una mano posso fare io qualche telefonata – nella piccola pausa per la replica di suo padre, Kate gli ficcò il toast in bocca con violenza – Non se ne parla Sergio. Veniamo a prenderti noi la sera prima del volo, e non discutere. Te lo passo subito. Baci-
Manuel ancora agonizzante per aver ricevuto la colazione bollente direttamente in gola, si ritrovò anche con il telefono piantato nella spalla e suo padre dall’altra parte che gli urlava di essere un amico degenere e un figlio ingrato.  Come se non sapesse che alla fine avrebbe ceduto.
-Fafà fafami farfare-
-Cosa?-
Si levò il toast dai denti e tornò in camera sua: -Lasciami parlare-
-Ti ascolto-
Da quando vivevano entrambi in Inghilterra avevano preso a parlare in inglese anche tra loro, solo quando litigavano o non volevano coinvolgere Kate nella conversazione parlavano in italiano. Oramai era raro anche solo che pensasse qualche parola in italiano.
-Non ho detto che non ci andremo, solo devo organizzarmi. Lo sai che ho molti impegni, la prossima settimana sono ad Amsterdam e poi c’è il catalogo dell’asta serale di giugno da preparare, in più temo che non sia il periodo adatto per chiedere delle ferie. C’è un ridimensionamento in corso in ufficio- tutte balle ovviamente ma non poteva che mostrare un piccolo spiraglio di buone intenzioni, per poi usare l’arma del lavoro come scudo.
-Io intanto ho confermato il volo-
-Come? Ma perché dannazione ve ne fregate tutti dei miei impegni?!-
-E’ solo una precauzione, così potremo spendere meno. Hai parlato con Jack?-
-No-
-Allora vedrai che ti manderà una mail entro il  finesettimana. Vogliono che tu vada anche all’addio al celibato-
-Sì certo! Ma sono tutti disoccupati in quella città di merda?! E poi tu come fai a saperlo?-
-Mi ha chiamato Jack per accertarsi che le partecipazioni fossero arrivate. Non farne un dramma. Ho prenotato per il 5, perché l’addio al celibato sarà il sabato prima del matrimonio. Così magari puoi portare Kate un po’ in giro-
Ovviamente l’idea di Venezia non era solo farina del sacco di Kate.
-Siete una coppia di stronzi-
-Anch’io ti voglio bene figliolo. Bacia Kate da parte mia-
Odiava sentirsi una pedina nelle mani d’altri. Ora come ora la trasferta ad Amsterdam era la cosa migliore che potesse capitargli. E poi aveva ancora quasi due mesi per decidere.
 










Inutile spazio autrice:
Ebbene rieccoci qui. Veramente non ho molto da dire se non che attendo con ansia i vostri commenti.
Lo so che in questo capitolo non succede niente di eccezionale, ma volevo presentare bene la situazione prima di addentrarmi nelle vicende, e in questo caso  bene conoscerla per comprendere. I capitoli, per quanto sarà possibile, seguiranno le vicende dei protagonisti alternandone il 'famoso' pov anche se non ho alcuna intenzione di modificare il mio stile, mi serviva per mostrarvi come si solo evolute le vite dei personaggi.
I capitoli saranno mediamente di questa lunghezza quindi mi ci vorrà del tempo per scriverli ed editarli decentemente, non aspettatevi aggiornamenti regolari. E' tutto ciò che posso offrirvi se vorrete seguirmi. Non so che diamine stia succedendo ad Nvu, ma il capitolo non appare come vorrei, ci ho provato per un po' ma le mie doti di grafica sono nulle. Sorry.
Grazie in anticipo a tutti quelli che recensiranno e a tutti quelli che hanno letto.
1Bacio. Vale.


 
   
 
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