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Autore: pvmacry    13/07/2012    4 recensioni
E' incredibile come un singolo, breve momento possa racchiudere in sè il potere di rivoluzionare l'esistenza. Ma la vita è anche questo.
Imprevedibilità.
Piani e decisioni che vanno inesorabilmente infrante.
Prospettive che vengono modificate, strade che cambiano direzione.
Ma la vita, purtroppo, riserva anche lezioni particolarmente difficili da imparare, da assimilare, a volte forse troppo...tanto da non essere neppure certi di avere forza a sufficienza per andare avanti...
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Hotaru/Ottavia | Coppie: Haruka/Michiru
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Quand’è che un genitore può davvero essere definito “genitore”?
Quando trasmette il suo Dna? Quando tramanda il proprio cognome a un figlio?
Questo io non lo so.

Sono nata con una capacità intellettiva elevata, forse al di sopra della norma, eppure ancora non so dare una risposta a un interrogativo apparentemente semplice.
Forse non mi è possibile rispondere perchè sono cresciuta in modo decisamente anticonvenzionale rispetto agli altri bambini; non ho mai conosciuto la mia madre biologica e mio padre biologico si è rivelato inadatto al suo ruolo di genitore. Ero rimasta sola prima ancora d'iniziare quel lungo viaggio chiamato "vita". Ero giovane ma già potevo rendermi conto che non ero desiderata, altrimenti perchè non avevo al mio fianco due persone pronte a sostenermi, a prendermi per mano nei momenti di difficoltà, a coccolarmi e riempirmi d'affetto come tutti gli altri bambini?
Li osservavo all'uscita dell'asilo mentre correvano verso quegli adulti sorridenti, aggrappandosi alle loro gambe e lasciandosi scompigliare i capelli. Per lungo tempo li ho invidiati, finchè, stanca di soffrire in silenzio, ho deciso che sarebbe stato meglio chiudere il mio cuoricino. Se non mi fossi illusa certamente mi sarei risparmiata ulteriori sofferenze: lentamente diventavo sempre più ritrosa e diffidente nei confronti di quegli adulti che non avevano fatto altro che ignorarmi. Ero diventata talmente indifferente a ciò che mi capitava attorno che non mi accorsi del loro arrivo, di come quelle due persone entrarono a far parte della mia vita in assoluto silenzio.
Haruka e Michiru.
Da quel giorno la mia vita cambiò drasticamente e l’amore mi sommerse...
Quel giorno decisi di illudermi ancora un’ultima volta. Tutto andava bene. Tutto. Almeno, così credevo...
 

***

 
Inarrestabile.
Certamente è questa una delle migliori parole per definire Haruka. Un ciclone inarrestabile: la tipica persona piena di vita, sempre pronta a mettersi in gioco, a volte rischiando tutto, anche la pelle. Scatenata, esuberante. Gli aggettivi per descrivere la sua personalità sarebbero molteplici, ma la definizione più corretta rimarrebbe sempre la stessa. Inarrestabile.
È così che l'ha sempre vista Michiru-mama.
È così che l'ho sempre vista io, la sua "Neko-chan".
Per Michiru-mama lei rappresenta il principe senza macchia e senza paura, pronto a salvarla in ogni situazione; è colei che l'ha fatta innamorare col suo magnetico sguardo smeraldo, è la biondissima testa calda che le ha letteralmente rubato il cuore e che non permetterebbe mai a nessuno di sottrarglielo.
Per me invece Haruka è sempre stata qualcosa di diverso.
È entrata nella mia vita inaspettatamente, ribelle e incontrollabile come una raffica di vento; una folata d'aria fresca impossibile da plasmare eppure, per quanto sfuggente, è al contempo calda e rassicurante. Tra noi si è sviluppata subito una particolare empatia, un cameratismo, un'associazione a delinquere a cui è impossibile resistere: la nostra complicità ha sempre lasciato tutti a bocca aperta.
Sebbene non avessimo nessun vincolo di sangue, l'ho sentita subito vicina quanto un genitore biologico, come se esistesse un'altra specie di legame, più forte dei geni, ad attirarci una verso l'altra.
È stato così semplice volerle bene e diventare una famiglia; tra comunissimi alti e bassi, abbiamo affrontato qualunque situazione ci capitasse davanti, risolvendole sempre per il meglio.
Mi sono spesso ritrovata a riflettere su quali pensieri potessero affollare la mente di Haruka da quando si è ritrovata a fare da genitore a una bambina non sua: era un "papà" impreparato a cui era capitata una figlia inaspettata tra capo e collo.
Eppure, nonostante questo imprevisto, non si è mai lamentata. Non ha mai dimostrato di non volermi accanto, anzi, si è presa cura di me dal primo istante in cui mi ha stretto tra le sue braccia, come se fossi sempre stata sua. La sua piccola "Neko-chan".
«Tu mi ricordi me stessa quando avevo la tua età.»È una delle sue frasi più ricorrenti.
Io non ne ho mai afferrato completamente il significato.
Siamo così diverse. Lei libera e avvolgente come il vento, io diffidente e imperscrutabile come la notte, come il buio. Se lei è luce, io sono oscurità. Così diverse e nonostante tutto, così unite. Così complici.
Pensavo che niente ci avrebbe mai separate o che sarebbe stato in grado di minacciare la nostra stabilità.
Pensavo che niente mi avrebbe mai ferita finché avessi avuto "i miei genitori" al mio fianco.
Eppure una mattina qualcosa è andato storto.
Una mattina tutto è cambiato e quell’illusione che mi avvolgeva come una delicata bolla di sapone è esplosa senza preavviso...
 
Erano dieci giorni ormai che Haruka lamentava strani e persistenti dolori alla testa, proprio lei che è sempre stata più dura di una roccia, che non prendeva la febbre nemmeno andando in giro per il giardino in pieno inverno indossando solo una canottiera e un paio di mutande per recuperare il gatto rimasto bloccato sul tetto, mentre Michiru-mama, imbottita come un palombaro le urlava dalla finestra che prima o poi si sarebbe certamente buscata una bella broncopolmonite. In quelle occasioni io mi soffermavo e ridevo sotto i baffi, perché il loro modo d’interagire mi donava serenità.
Stavolta però non era il semplice mal di testa da "risveglio post-sbronza", come si divertiva a definirli Haruka-papà. Stavolta era qualcosa di serio, tanto da costringerla a valutare l’ipotesi di andare in ospedale per un controllo.
Era il 14 Novembre.
Per pura coincidenza,  quella mattina ero a casa. Non avevo lezioni all'università perciò, per non lasciarla andare da sola, sono saltata in macchina e l'ho convinta addirittura a permettermi di farle da autista personale fino al pronto soccorso. Durante l'intero tragitto abbiamo riso e scherzato come facevamo di solito...perché ogni mattina era così. Era un momento dedicato solo a noi, che trascorrevamo uscendo da casa insieme, lei diretta al lavoro, io all'università.
Non potevo certo immaginare che forse, quelle risate e quella chiacchierata, sarebbero state le ultime...
 
...Entrate in ospedale, mi ha chiesto di non lasciarla mai sola, di accompagnarla durante ogni singola visita a cui l'avessero sottoposta.
Michiru-mama ed io ormai la conoscevamo bene; per quanto amasse fare la spavalda, sotto la maschera da persona forte e coraggiosa nascondeva una gran fifona. Un tenero leprotto dietro l'infrangibile corazza da imbattibile samurai.
Siamo andate assieme al reparto oculistico: la prima possibile diagnosi rilasciata dal pronto soccorso ipotizzava come possibile causa del dolore, un glaucoma localizzato vicino all’occhio destro. Fortunatamente il medico ci ha comunicato che la sua vista era perfetta come al solito, che il mal di testa non era dovuto a qualche disturbo di natura oculistica o di aumento di pressione nella zona del bulbo oculare.
Piene di speranza e rincuorate dalla buona notizia, siamo state rispedite in pronto soccorso e, come le palline di un flipper, rilanciate al reparto di neurologia.
Dopo ben due ore di snervante attesa, una quantità indefinita di sbuffi, di improperi rivolte alla lentezza dei sistemi sanitari e a una dottoressa –definita da Haruka-papà- alquanto frigida e antipatica che si era divertita a martellarle le ginocchia, ci siamo ritrovate ancora al punto di partenza, ma questa volta senza nessuna risposta soddisfacente e con l'impegnativa per una TAC urgente.
Credo sia stato allora mentre un brivido mi attraversava la schiena da cima a fondo, che ho capito che qualcosa non sarebbe andato come previsto. Nonostante il mio istinto mi stesse messo all'erta, ho pensato che sarebbe stato meglio continuare ad avere speranza, che mi stavo preoccupando per niente e che i miei sensi si stavano sicuramente sbagliando.
Haruka-papà venne sottoposta all’ulteriore controllo, poi di nuovo restammo in attesa.
Un'altra mezz'ora era volata tra sospiri e pensieri, finalmente giunsero i risultati delle analisi.
 
Ci hanno divise improvvisamente: il medico di turno ha intimato ad Haruka-papà di stendersi sul lettino per un'ecografia al fegato e mentre la preparavano, l'uomo mi chiese di seguirlo fuori dalla stanza.
Non ho potuto fare a meno di assecondare le sue richieste, ma ciò che mi stupiva era che non sembrava aver intenzione di condurmi fuori dal pronto soccorso come mi sarei aspettata, bensì mi aveva indicato una stanzina vuota poco distante da quella in cui avevo dovuto lasciare il "mio genitore".
Ho sentito il cuore iniziare a battere immotivatamente a un ritmo più elevato e domande di ogni genere iniziavano ad affollare la mia testa.
Perché mi sta portando proprio in questo posto? Perché non siamo rimasti con Haruka-papà?
Perché ha quell'espressione poco convincente dipinta sul volto?
Perché mi sento sull'orlo di un precipizio?
Il medico rapidamente ha chiuso la porta alle nostre spalle: ora siamo solo io e lui, occhi negli occhi.
L'aria in quelle quattro mura si fa incandescente e non posso fare a meno di desiderare con tutte le mie forze di essere altrove. Il mio interlocutore sembra più teso di me e non è difficile notare la sua esitazione.
«Signorina la situazione è critica.»
Che cosa?
«Ho preferito parlarne con Lei perché per la paziente potrebbe rivelarsi uno shock troppo grande da sopportare se non viene comunicato con estrema delicatezza.»
No. Per favore, qualcuno lo fermi.
Nessuno sembrava accogliere la mia tacita richiesta.  Infermieri e pazienti si muovevano senza fare caso a me.
«Purtroppo la TAC ha rivelato la presenza di...di metastasi nella zona cerebrale, probabilmente dovute a una forma tumorale radicata da qualche parte del corpo e che ancora non abbiamo trovato. Sospetto sia nei polmoni. Abbiamo deciso di ricoverarla immediatamente perché è davvero in gravissime condizioni.»
Vi prego ditemi che sto sognando. Questo è un incubo. Il peggiore dei miei incubi. Un incubo spaventoso dal quale non riesco a svegliarmi. Un incubo dal quale non posso svegliarmi.
«Le consiglio di restare qui e assimilare la notizia. Se la paziente dovesse vederla proprio adesso probabilmente inizierebbe a preoccuparsi, si agiterebbe ed è meglio evitare il panico.»
A quel punto comprendo tutto.
Non è un incubo: quello è l'oblio.
È la fine del precipizio, tanto buia che non posso fare altro se non sparire al suo interno.
La bolla è esplosa, l’illusione è sparita.
Paradossalmente, nell'istante in cui ho creduto di aver inteso cosa stesse succedendo, ho smesso di capire tutto il resto. Dov'ero, con chi ero, che cos'ero...niente aveva più alcuna importanza. Il mondo attorno a me era scomparso.
Sono rimasta sola. Sola con i miei confusi pensieri e con una realtà che di vero non avrebbe dovuto avere assolutamente nulla.
Metastasi. Tumore. Ricovero. Gravissimo.
Quelle parole continuano a vorticare nella mia mente, con la velocità e la forza di un uragano, e non accennano a volersi fermare.
Qualcuno mi afferra per il braccio e mi conduce in una stanza vuota.
L'unica cosa certa è che non posso affrontare Haruka-papà in queste condizioni: non posso fissarla nei suoi occhi verdi così pieni di vita e dirle che forse, presto, troppo presto, quegli stessi occhi avrebbero perso il loro bagliore, spegnendosi come stelle cadenti risucchiate in un buco nero senza fine.
Non posso nemmeno guardarla e fare finta di niente.
Non posso nasconderle che la mia vita sarebbe cambiata drasticamente se lei mi avesse lasciata proprio adesso, così, come una persona incompleta, ancora impreparata ad affrontare quel mondo che lei invece sapeva capire perfettamente e che scherniva con una facilità disarmante...perché ho sempre creduto fermamente che non esistesse nulla capace di scalfirla. Ci credevo davvero, almeno fino a oggi.
Resto in quella stanza buia e silenziosa per un tempo che non so quantificare. Medici e infermiere compaiono e scompaiono trascinate dal fiume dei loro impegni; di certo non possono immaginare cosa sta accadendo soltanto a pochi metri da loro, nel cervello di una ragazza poco più che ventenne, tra quelle mura troppo, troppo strette. Opprimenti. Soffocanti.
Le mie gambe iniziano a tremare e con esse anche le mani. Lo stomaco completamente aggrovigliato su se stesso, si è stretto in una morsa e il fiato si è fatto subito corto: respirare è diventata un'azione quasi impossibile, dilatare i polmoni ora è addirittura un'impresa colossale. Mi sforzo nel tentativo di recuperare il controllo del mio corpo, ma la mente non accenna a collaborare.
Mi sto ribellando. Mi ribello contro me stessa.
E mi rendo conto che non posso far altro se non arrabbiarmi proprio con me stessa, con il mondo che per l'ennesima volta si era dimostrato tanto crudele da ferirmi nel profondo, perché non si stava facendo tanti scrupoli nel sottrarmi lentamente qualcosa che mi è vitale più dell'aria.
La mia famiglia è il mio punto debole. Senza di lei sarei persa già da molto, moltissimo tempo.
Anche l'ultimo barlume di razionalità scivola via, accompagnando quella prima lacrima che sento già scorrere lungo il mio viso privo di qualsiasi emozione: a quella piccola gocciolina seguono altre e prendo consapevolezza che non sono più in grado di fermarle, di ricacciarle indietro come sono abituata a fare nelle situazioni difficili.
Stavolta non sarei stata capace di dimostrarmi impassibile a lungo.
Fin da bambina ero sempre stata brava a indossare la maschera della figlia perfetta: avevo sempre voluto rendere i miei genitori adottivi fieri di me proprio perché nelle nostre vene non scorreva lo stesso codice genetico e sentivo di dover, in qualche modo, "ripagare” le due persone che mi avevano presa e cresciuta con amore senza essere tenute a farlo.
Quanto può valere realmente il legame di sangue?
È il Dna a renderci genitori e figli? È la pura biologia a stabilite la legittimità dei rapporti?...
Inaspettatamente ero sulla strada giusta per trovare la risposta a quelle domande...

 
...È stato per puro caso che la mia mano è entrata a contatto con la fredda plastica del cellulare.
Ed ecco che nella mia mente si fa spazio un'altra voragine, un nuovo buco nero pronto a inghiottirmi da un istante all'altro.
Provo un incontrollabile odio verso quel piccolo oggetto elettronico e vorrei solo lanciarlo lontano, il più lontano possibile da me, ma c'è una cosa importante che devo fare e non posso tirarmi indietro dimostrandomi codarda.
Devo chiedere a me stessa di compiere un ulteriore sforzo, forse il più grande che avrei mai potuto chiedere in tutta la mia vita; compongo il suo numero inconsciamente, lasciando che fossero le dita a decidere i tasti al posto mio.
Perché?
Perché mi trovo qui? Perché è toccato proprio a me questo pesante fardello?
Sento il telefono squillare un paio di volte, poi la voce inconfondibile di Michiru-mama raggiunge le mie orecchie.
«Hime, che succede? Non dirmi che Haruka sta facendo i capricci solo perché ha intravisto da lontano l’ombra di un aghetto. »
Il mio cuore sprofonda definitivamente: le stavo offrendo la sua condanna su un vassoio d'argento.
Con che parole le avrei dato la peggiore notizia della sua vita?
Michiru-mama merita di saperlo e certamente non da una persona qualunque! Ma perché proprio da me, la sua amata figlia?
Quali parole sarebbero state le più appropriate per dirle che il suo "principe azzurro" si trovava davanti a un nemico che non avrebbe potuto battere? Come le avrei comunicato che la parte più importante della sua vita si stava lentamente spegnendo a sua stessa insaputa?
«Hime ci sei ancora?»
Che pensieri assurdi...come si può pensare che esistano parole adatte per affrontare questo genere di problema?
Il mio respiro torna regolare per un breve lasso di tempo e le lacrime s'interrompono. Colgo al volo quell'opportunità perché se avessi ripreso a piangere, nessun suono sarebbe mai uscito dalla mia bocca.
«Hi-» Ora o mai più.
«Michiru-mama ti prego, vieni subito in ospedale.» Esito.
«Che cosa-»
«Hanno ricoverato Haruka-papà perché le-» Devo farcela. M'impongo di proseguire. «-Le hanno scoperto delle metastasi nella testa.»Dall'altra parte non percepisco risposta. Michiru-mama è sicuramente già diretta qui. Ora devo solo aspettare e restare lontana da Haruka-papà.
Chiudo gli occhi e la vedo.
Vedo Haruka che mi sorride. La vedo mentre è intenta a mettere le mani nel motore della sua auto e sporcarsi la faccia di grasso. La vedo mentre perde le staffe davanti al computer e inveisce contro una connessione troppo lenta. La vedo comparirmi alle spalle mentre sono intenta a studiare; la vedo mentre mi posa affettuosamente la mano sulla spalla per poi sorridermi senza un apparente motivo e infine scomparire in silenzio, proprio com'è arrivata.
La vedo baciare Michiru-mama e sussurrarle all’orecchio quanto è innamorata di lei, mentre la stringe tra le braccia e abbandona il viso tra i capelli lunghi e profumati della compagna
Sono immagini così semplici, quotidiane.
È mai possibile che da oggi apparterranno soltanto ai miei ricordi? Che non faranno più parte della mia realtà? Le lacrime ritornano prepotenti a farmi visita, ma una cosa è certa: Haruka non deve assolutamente vedermi in queste condizioni.
Mi sento male mentre abbandono quel corridoio così neutro, così privo di sfumature e sentimenti, che contribuisce a togliermi il respiro.
Mi sento male al pensiero che sto scappando. Scappo da lei. Da una parte di me che, contro ogni mia previsione, è diventata importante, indispensabile. E' diventata sinonimo di casa, di calore, di sicurezza e soprattutto affetto.
Mi sento così male perché ancora una volta non sono capace di sostenere questo peso che, paragonato a ciò che sta passando lei, non ha assolutamente nessun valore.
E mi sento male immaginando la sofferenza di Michiru, perché perderà la sua metà, il suo mondo, il suo grande e unico amore.
Non posso definirmi in altro modo se non portatrice di sventura, di notizie terribili e irreversibili...
Se solo potessi riavvolgere il tempo, cancellare questi momenti che sembrano così surreali nella loro concretezza, così finti e fuori posto in una realtà incredibilmente vera...
Tempo. È proprio ciò che mi servirebbe, ma è anche l'unica cosa di cui non dispongo.
Per me il tempo si è fermato in quell'istante, quando le parole del medico hanno raggiunto le mie orecchie...
Piango. Piango e non riesco a fermarmi. Non posso fermarmi: mi sembra di essere un ingranaggio di una macchina impazzita, senza controllo, senza freni.
Scappo alla ricerca di aria: oltrepasso tutto il pronto soccorso e raggiungo lo spiazzo antistante all'edificio. Fuori da quel maledetto luogo che dovrebbe essere il rifugio per persone bisognose, non posso fare a meno di pensare a tante cose, tutte banali, piccole, inutili, e ciò che non posso più nascondere è la paura.
Paura che Haruka-papà non potrà vedermi crescere, che forse non sarà presente alla mia laurea, di cui spesso abbiamo chiacchierato insieme. Paura di non poterle presentare la persona che conquisterà il mio cuore allo stesso modo in cui lei è riuscita a fare breccia nel freddo e complicato cuore di Michiru-mama. Paura di non averla più come certezza, come colonna solida su cui trovare un appiglio nei momenti difficili.
In preda alla totale angoscia che ormai mi scorre nelle vene mi abbandono con la schiena al muro e continuo a piangere sempre più forte.
Improvvisamente due esili braccia mi raggiungono e un dolce calore mi avvolge.
Michiru-mama è arrivata, l'unica capace di sapere esattamente cosa provo. Condividiamo lo stesso dolore.
Le sue spalle, per la prima volta più forti di quelle di Haruka-papà, erano immobili: mi ero ripromessa di offrirle la mia spalla su cui piangere e mi ero ritrovata a piangere sulla sua. Mi aggrappo disperatamente al suo maglioncino cercando un appiglio, affogando le lacrime e i lamenti in quel morbido tessuto in cui riconosco il profumo di casa, l'inebriante e confortevole essenza così simile a quella che avvolge anche Haruka-papà.
«Andrà tutto bene, Hime.»
Perché non riesco a crederti, Michiru-mama?
«Andrà tutto bene.» Mi ripete con dolcezza. «Sono qui ora, calmati.»Mi sussurra piano, accarezzandomi teneramente come faceva quand'ero bambina.
La sua capacità di mantenere il sangue freddo nei momenti difficili è strabiliante, eppure stavolta percepisco che dentro di lei si agita un maremoto dalla potenza incalcolabile: come potrebbe essere altrimenti?
«Perdonami! Ti prego Michiru-mama, perdonami! Mi dispiace!»Non sapevo nemmeno io perché continuassi a ripeterlo, ma non ero in grado di fare nient'altro se non scusarmi per colpe che non avevo commesso, per situazioni che si erano riversate su di me senza poterlo evitare.
Mi prende il viso tra le mani e lo solleva. Le mie iridi ametista incontrano le sue cobalto, profonde come gli oceani.
«Tranquilla. Non hai fatto niente di male anzi, sei stata molto coraggiosa, Hime. Capito?»Sostenere i suoi grandi occhi blu a lungo è quasi impossibile perciò mi abbandono al suo abbraccio, annuisco piano e riprendo a piangere.
«Dov'è Haruka adesso?»Mi domanda.
«L'hanno portata a fare i raggi al torace, dopodiché la ricoverano nel reparto di medicina per guadagnare tempo e non spaventarla.»Spiego tra un singhiozzo e l'altro; infine mi separo da lei, facendo attenzione a non incontrare il suo sguardo. So che mi sta fissando, e che non vuole lasciarmi in quello stato.«Và da lei.» Biascico con un filo di voce. «Ha bisogno di te; io posso cavarmela.»Ora è lei che esita. Non vuole lasciarmi lì in quelle condizioni, ma io insisto finché non si decide ad ascoltarmi e a raggiungere Haruka.
Resto nuovamente sola con i miei pensieri.
Mi siedo sul ciglio del marciapiede e aspetto. Che cosa precisamente non lo so.
Una gelida folata di vento mi sferza il volto arrossato e imperlato di lacrime. E' così diverso dal tiepido vento che mi accarezza le guance quando Haruka-papà è con me.
Mi ha trasmesso così tanto...mi ha insegnato tutto ciò che so e mi ha spronato a diventare la persona che sono. In sua compagnia ho imparato a sorridere, ad affrontare i problemi con coraggio e a non fuggire alla prima difficoltà: ho imparato a fidarmi delle persone che mi stanno attorno e che, giorno dopo giorno, influenzano la mia esistenza con il loro affetto e con le loro azioni. Haruka-papà mi ha dato tanto, tutto, ed è ciò che più incarna una figura paterna. È un angelo venuto in mio soccorso.

È il mio papà del cuore.

A quella consapevolezza mi lascio sfuggire un sorriso, mi alzo in piedi e mi dirigo in tutta fretta verso l'ingresso dell'ospedale.
Ora tocca a me starle accanto e farle percepire che anch'io, a modo mio, posso fare qualcosa per lei, che posso rappresentare una piccola lucciola capace di brillare nell'oscurità e illuminare la sua strada con un po’ di quella luce raggiante che proprio lei mi ha trasmesso. Voglio essere al suo fianco e lottare con lei, qualunque cosa accada!
 

***

 
La trovo sul letto di quell'asettica camera d'ospedale mentre litiga con i tubi della flebo. E' incredibile! Anche in momenti critici come questo riesce a essere così vivace, così viva.
Appena mi vede non è capace di frenare l'entusiasmo e mi stringe a sé in un abbraccio capace di togliermi l'aria; le sue braccia sono ancora le stesse, forti e solide. Lei è ancora calda e rassicurante.
Mi abbandono completamente e lascio che sia lei, come al solito, a guidarmi in quel tenero gesto che ho sempre cercato di ricevere ma che la vita mi ha negato finché non sono comparsi i miei genitori.
Che ironia...Ora che sento di essere sul punto di perdere tutto ciò che ho, provo una strana sensazione di pace, di completezza.
Ritrovo le sue iridi smeraldo e mi permetto di perdermi nel loro magnetismo.
Haruka-papà è ancora qui, con me e così sarà per sempre. Nessuno mi potrà mai togliere questo perché, anche se in un futuro troppo vicino dovesse tornare a essere un angelo in quel lontano cielo pieno di stelle, lei vivrà nel mio cuore. Continuerà a vivere nei miei ricordi, in tutto ciò di positivo e gratificante che porterò a termine, nei miei sogni realizzati, nelle canzoni che canterò a squarciagola, nelle lacrime che talvolta righeranno il mio viso e nei miei sorrisi che lo illumineranno.
Continuerà a vivere in Michiru-mama, nei suoi intensi occhi color del mare.
La sentirò in ogni minima manifestazione d'amore, ma soprattutto riconoscerò la sua voce e il suo affetto tutte le volte che il vento farà percepire la sua potenza e la sua irriverenza.
Per il momento voglio che Haruka-papà pensi solo a concentrarsi su questa battaglia, forse la più importante della sua vita. Ci sono miriadi di cose che vorrei dirle mentre le sorrido e le stringo la mano nella mia, ma con lei le parole sono sempre state inutili; perciò nella mia mente si fa largo un solo pensiero...Forever Strong, Haruka-papà.

La Tua Neko-chan, Hotaru

 
Quand’è che un genitore può davvero essere definito “genitore”?
Quando trasmette il suo Dna? Quando tramanda il proprio cognome a un figlio?
No. Ora finalmente ho la risposta...
 





Questa one-shot è nata esattamente il 15 Novembre 2011, ed è una storia vera, la prima che decido di condividere: per tutti questi mesi è rimasta sepolta in una cartella nel mio vecchio pc.
Ero molto indecisa se pubblicarla o meno, e l'unica cosa che sentivo di fare quella volta è stato farla leggere ad una carissima amica, l'unica capace di comprendere quello che stavo passando. Oggi, dopo quasi otto mesi, ho pensato di volerla condividere con altra gente.
La nostra battaglia sta continuando. Nessuno di noi ha intenzione di arrenderci...
 

Dedicata a TE, perché le uniche parole che vorrei dirti, mio papà del cuore, sono proprio queste.
Be strong. Forever.

  
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