La chiamavano Eva e ballava sul cubo, con le mutande nel culo e una mela in bocca. Faceva su e giù con le tette in gola, le ciglia incollate, il sudore sul collo e l’ombelico bucato, le cosce magre contro il palo. La chiamavano Eva e sembrava un porcello a dieta, con il naso schiacciato e la pelle tutta rosa. E come i maiali non aveva mai visto il cielo e manco ci credeva. Viveva di cose concrete, di scatole di preservativi bucati, dei soldi nel perizoma, del figlio che aspettava e ancora non lo sapeva. La chiamavano Eva e mentre partoriva, cantava di trentuno angeli in colonna, ma se n’era perso uno. «Lo chiamo Caino», diceva. «Col cazzo, stronza» rispondeva quello.
Lo chiamavano Caino e ballava sul cubo, con le mutande nel culo e una mela in bocca. Guardava il cielo e bestemmiando chiedeva «perché, Dio, perché».