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Autore: Federico    15/07/2012    1 recensioni
Salve, dopo quasi un anno Federico è tornato per voi! Stavolta vi propongo il seguito della mia vecchia storia Strade d'Oriente, con protagonisti i membri dell'Akatsuki, ambientato molto tempo dopo la prima fic.
1924, Svizzera: Per festeggiare il proprio compleanno, Kakuzu decide di riunire i propri ex compagni di avventure e li invita a casa sua. Tutti accorrono, ma è chiaro che nulla sarà più come prima: la spensieratezza dei vecchi tempi ha lasciato spazio al pessimismo e alla disillusione, che ormai regnano sovrani in Europa squassata dal primo conflitto mondiale e minacciata da povertà, rivoluzioni e dittature. In un modo o nell'altro, tutti e sei i nostri eroi hanno sofferto a causa della guerra, ma finalmente troveranno il coraggio di confidarsi fra loro e dare sfogo ai propri turbamenti, rievocando con nostalgia tempi felici che non torneranno più... Questa fic, a differenza di Strade d'Oriente, non si incentrerà sull'avventura e sull'azione, bensì avrà un taglio introspettivo, dialogico e decisamente malinconico. Leggete e recensite numerosi, spero che vi piaccia!
P.S Quella fic su One Piece che vi avevo annunciato circa un anno fa prima di “sparire” è al momento sospesa a tempo indeterminato.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Akatsuki
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Travellers'
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Adieu Belle Epoque

 

Réunion

 

Cantone di Zurigo, Svizzera, 15 agosto 1924

Più Deidara lanciava attorno a sé occhiate avide e ammirate con le sue iridi azzurre come il terso cielo alpino sgombro da nuvole, cercando di catturare, di penetrare il segreto della natura circostante, mosso dall'invincibile curiosità dell'artista mistico e filosofeggiante, più si trovava a stimare con devozione la Svizzera, paese che fino ad allora era stata da parte sua oggetto di un disprezzo neanche tanto velato.

In realtà la Confederazione elvetica non era poi tanto dissimile dalla monarchia dei Paesi Bassi da cui lui stesso proveniva, come dimostrava eloquentemente la sua chioma: ambedue erano Stati alquanto piccoli, ricchi e popolati da onesti e indefessi lavoratori, prevalentemente neutrali e interessati principalmente a occupazioni pragmatiche e questioni interne, nonché sede di numerosissime banche e sovente arbitri di delicate questioni internazionali.

Eppure fino a quel momento il nome “Svizzera” aveva destato nella sua mente confusi pregiudizi su una nazione di rozzi montanari e ingordi affaristi, conosciuta solo per il cioccolato e gli orologi, che con la scusa dell'equidistanza assoluta da ogni contendente ingrassava e faceva le scarpe a tutti senza perdere quella fastidiosa aria di superiore, interessata benevolenza.

Ma, come spesso accade, un contatto diretto aveva potuto più che mille parole: dopo aver interagito con i locali Deidara era rimasto colpito dall'apparente armonica mescolanza di Svizzeri di lingua tedesca, francese, italiana e di varie confessioni religiose, mentre gli Olandesi erano in gran parte di lingua fiamminga e credo calvinista o ateo, e soprattutto era stato rapito e ammaliato dal paesaggio.

Pazienza se quella nazione non si affacciava sul caldo Mediterraneo o sul fosco Mare del Nord, e non possedeva un lontanissimo impero di isole tropicali come l'Indonesia o i Caraibi; racchiuso fra quelle montagne altissime velate di rocce, nevi eterne e abeti e quei magnifici laghi che si perdevano in cristalline profondità, in mezzo ai ridenti e fioriti pascoli alpini, uno poteva sentirsi sufficientemente a casa, come se fosse stato avvolto da uno strato di soffice e calda, accogliente bambagia, molto più che per esempio negli umidi prati d'Olanda battuti dal vento, sempre minacciati dai travolgenti flutti del mare.

Ora non si stupiva che tanti pittori prima di lui avessero deciso di effigiare quelle vette e quegli specchi d'acqua per consegnarli alla fama eterna, e che tanti signori ricchi o benestanti venissero là a trascorrere le vacanze: quella terra sembrava disegnata apposta da una sapiente mano celeste per eccitare al massimo grado un animo sensibile e portato a innalzare la propria anima al di sopra del livello delle cose mortali per una disinteressata ricerca della Perfezione, se mai essa poteva esistere o essere conosciuta.

Deidara aveva sempre avuto una particolare affinità emotiva per gli ormai lontani artisti romantici, e non dubitava che se fosse nato circa un secolo prima sarebbe stato fra i primi a farsi contagiare dalle nuove idee: anche se lui non pensava costantemente all'Assoluto, all'Infinito, pure lo sentiva all'interno della propria anima sotto forma di gioia spontanea e inspiegabile quando guardava un bel tramonto o uno splendido mare scintillante, e si chiedeva cosa avessero in comune tutti loro.

Non a caso fra i suoi modelli personali vi era il grande Caspar David Friedrich, con i suoi paesaggi sterminati punteggiati da figure pensose: era stato osservando i suoi quadri che aveva deciso di coltivare a fondo la propria vocazione.

A questa sensibilità tutta particolare il nostro univa poi un'incredibile precisione tutta fiamminga e un gusto per i ritratti e le scene quotidiane che aveva ereditato dal sublime Rembrandt, di cui conosceva a memoria praticamente ogni singola opera che fosse esposta nei Paesi Bassi.

L'unico campo in cui Deidara era nazionalista era proprio la pittura: gli piaceva perfino Van Gogh, che riteneva un genio negletto, per quanto i loro stili potessero differire.

L'olandese si fermò sul ciglio della strada sotto a un imponente albero per riposare le gambe stanche, sebbene allenate, e ingerire un sorso d'acqua dalla borraccia.

Ancora, una o due ore, pensava, e sarò arrivato.

Immaginava già la faccia che il suo amico Kakuzu, probabilmente l'unico svizzero simpatico che conoscesse prima di quel viaggio, avrebbe fatto nel ritrovarselo davanti: erano più di dieci anni, precisamente dal lontano '11 che non si vedevano, e nel frattempo il mondo era mutato in modo straordinario, purtroppo anche in senso fortemente negativo.

Aveva fatto bene quel banchiere solo in apparenza insensibile a organizzare quell'evento per il suo compleanno: se non altro sarebbe servito a stabilire se erano ancora tutti vivi.

Dopo aver ricevuto la lettera di Kakuzu durante uno dei propri rari periodi di residenza in Olanda, dove doveva sorbirsi tutte le ultime notizie dal fronte economico-imprenditoriale di suo padre, non aveva potuto che accogliere con gioia la notizia che gli avrebbe concesso qualche giorno di svago: pertanto qualche tempo prima della data prefissata, salutati tutti e mandati al diavolo gli affari, aveva infilato regali, fogli e matite nella valigia e aveva preso il primo treno per il sud.

Alla fine del percorso, che lo aveva portato ad attraversare una bella fetta di Germania e di regioni di confine della Francia, e che aveva impiegato perlopiù per disegnare quello che vedeva stagliarsi fuori dal finestrino fino a perdita d'occhio, era sceso alla stazione di Zurigo e, dopo un paio di giorni spesi a riposarsi e visitare la città, era uscito di buon mattino dall'albergo.

La sua intenzione era quella di raggiungere a piedi la villa di Kakuzu, che dalla lettera sapeva essere situata poche miglia fuori da Zurigo, in una zona di campagna sulle sponde dell'omonimo lago, e nel mentre godersi un po' di aria pura e tipico verde elvetico.

D'un tratto si bloccò come se gli avessero puntato una pistola alla schiena e con lentezza funerea portò una mano alla tasca dei pantaloni e ne estrasse uno specchietto.

Deidara non voleva assolutamente che si sapesse in giro, per non dare agli amici un altro motivo di scherno oltre alle sue velleità artistiche, ma teneva molto alla cura dei suoi lunghi capelli biondi, che già di per sé lo facevano passare per un eccentrico; ora non gli andava molto a genio di presentarsi in casa d'altri dietro cortese invito in pessime condizioni.

Si ammirò con un pizzico di vanità nel piccolo riquadro vitreo e con soddisfazione lo rimise a posto lisciandosi i capelli: anche se ormai aveva quasi quarant'anni, li portava ottimamente.

Uno strombazzare di clacson alle sue spalle gli fece però balzare il cuore in gola: e se fosse stato visto?

In ogni caso, mentre andava rimuginando questi foschi pensieri, si voltò per vedere chi arrivava a bordo di un'elegante auto da corsa all'ultima moda che sollevava una nuvola di polvere.

Anche attraverso quella muraglia l'artista riusciva però a scorgere con nitidezze un paio di chiome rosse una accanto all'altro, e si accorse che i due automobilisti conversavano in inglese.

Ponendosi in mezzo alla strada sterrata a un aragionevole distanza di sicurezza, il biondo cominciò ad agitare vistosamente le braccia e a gridare a squarciagola in francese: “Ehi amici!”.

La macchina si fermò con delictaezza giusto a una spanna dal suo ventre, mentre il guidatore si sporse: “Hello pittore, vedo che avevi deciso di farti ammazzare!”.

Pain e Deidara si scambiarono un sorriso e una calorosa stretta di mano, mentre Sasori lo invitò con estrema gentilezza a salire a bordo.

Volentieri! Era più facile scalare l'Himalaya quattordici anni fa...” rammentò malinconico il fiammingo e prese posto su uno dei soffici sedili posteriori in pelle dell'auto.

Mentre Pain riavviava il motore e procedevano gagliardamente, godendosi appieno il sole vista la mancanza di tettuccio, Sasori assestò un'amichevole pacca sulla spalla di Deidara e gli domandò: “Compare, sembra passato un secolo dall'ultima volta! Ti ricordi quel viaggio di ritorno, da New York a...Dov'è che era? Cherbourg?”.

Le Havre. Fosti tu, Pain, a insistere per viaggiare in seconda classe, come a Shanghai, rammenti?”.

L'inglese di Alessandria si concesse un largo sorriso: “Non mi piace esibire troppo lo sfarzo, a parte questo bolide, s'intende. E poi Sasori può testimoniare in prima persona contro l'abuso dei transatlantici, vero? Ovviamente non voglio mancare di rispetto ai morti, è stata una vera tragedia”.

L'altro interlocutore fece spallucce leggermente irritato, e l'olandese si chiese a quale delicata questione potesse aver fatto allusione; forse però avrebbe fatto megliò a chiedere delucidazioni dopo, e quindi sviò il discorso: “Voi due come siete arrivati in Svizzera? Avete viaggiato insieme?”.

Io ho fatto il viaggio da Alessandria a Marsiglia in piroscafo, poi ho guidato fino a qui” replicò Pain senza distogliere gli occhi dal volante, “lui a quanto ho capito ha attraversato la Manica”.

Sasori continuò la narrazione: “Sì, è vero. Ho speso qualche giorno a Parigi e poi sono arrivato a Zurigo. E' stata una vera combinazione che incontrassi Pain e che lui mi offrisse un passaggio! Si sa, gli Inglesi hanno un talento particolare per incontrarsi fra loro in qualsiasi angolo del globo...”.

Chiacchierando piacevolmente, si erano quasi dimenticati del viaggio e per Deidara fu una vera sorpresa trovarsi di fronte a una villa che sorgeva in mezzo alla natura.

La dimora, di soli due piani e dai muri intonacati di bianco, aveva in realtà un aspetto non dimesso ma neppure principesco: il portone era altissimo e austero, di duro legno di quercia e dai semplici battenti di ferri, le finestre numerose e dai vetri ben puliti e trasparenti e non c'era neanche un muro o un cancello che racchiudesse in una gelosa sacralità il giardino all'inglese che quasi si confondeva con la boscaglia, per cui la casa intera emanava un non so che di calorosa accoglienza contadina priva di pregiudizi.

Si poteva capire che il padrone di casa, pur se sicuramente benestante, doveva essere una persona che preferiva la sostanza all'ostentazione e decisamente parsimoniosa.

A breve distanza dalla villa sorgeva un piccolo edifico dall'aspetto rustico, forse una stalla per cavalli, mentre dal lato opposto una breve pontile di legno si staccava dalla terraferma per tuffarsi nella distesa luccicante del lago di Zurigo incastonato fra pendii verdeggianti.

I tre, attendendo che il proprietario si mostrasse sull'uscio, si appoggiarono pigramente con le schiene alla carrozzeria dell'automobile guardandosi intorno meravigliati: mai si sarebbero immaginati che il loro amico, che sapevano ricco come Creso e sempre indaffarato con le banche, apprezzasse così tanto il paesaggio campestre da porvi una delle sue numerose residenze, ma non c'erano dubbi, la località indicata nella lettera corrispondeva a quella attuale.

La calma idillica e apparentemente destinata a durare in eterno fu bruscamente interrotta dal fastidioso ruggito di un altro motore, e, veloce come un lampo, un'altra macchina posteggiò a poca distanza dalla loro.

I due inglesi e l'olandese si alzarono di scatto, incuriositi e forse un po' intimorito dall'intruso, domandandosi chi potesse essere; ma non appena egli ebbe messo piede a terra e si fu scrollato di dosso la polvere che gli inzaccherava il soprabito da viaggio, riconobbero quel viso pallido e affilato e quei lunghi capelli corvini.

Il gruppo andò incontro con lentenza ma festosamente al nuovo venuto, e Itachi li salutò commosso: “Guten tag amici, è tanto che desideravo vedervi, ma ho avuto un po' da fare”.

Ognuno scambiò con il tedesco abbracci intensi e sinceri, la più spontanea manifestazione di affetto fra chi è profondamente legato ma è stato separato per lungo tempo; tuttavia osservandolo più da vicino ciascuno si accorse che era cambiato rispetto a come lo avevano conosciuto.

Anche se solitamente tendeva a rimanere in silenzio per via del suo carattere mite e giudizioso, che univa a una notevole prestanza fisica e a un vivo amore per le culture più lontane, gli amici si accorgevano che in lui albergava una profonda tristezza interiore che cercava di non esternare, ma che ogni tanto risaliva a sprazzi e lo induceva ad abbassare lo sguardo; inoltre appariva notvolmente più stanco e magro rispetto all'Itachi di cui si ricordavano, ma d'altronde non c'era da meravigliarsi che un cittadino di una nazione sconfitta dalla Grande Guerra, anche se benestante, se la passasse male ultimamente, e non guardasse al mondo con l'ottimismo e la sicurezza prebellici.

Mentre erano ancora intenti a scambiarsi qualche convenevolo, il portone cigolò e un uomo alto,massiccio ed elegante, di qualche anno più anziano di loro, comparve sulla soglia; le mani bonariamente calcate sui fianchi possenti, si schiarì appena la voce e cominciò a declamare in latino: “Hoc erat in votis: modus agri non ita magnus, hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons et paulum silvae super his foret”.

Riconoscendo l'inizo di una delle Satire di Orazio, i quattro ospiti applaudirono a quella magistrale citazione, quindi Kakuzu riprese la parola e disse nel suo caratteristico francese dall'accento germanico: “Anch'io, come Orazio, non posso certo dirmi deluso dal mio angulus personale. Benvenuti, benvenuti nella mia umile dimora. Hidan è già qua da un pezzo. Accomodatevi, fate pure come se foste a casa vostra: vi faccio strada”.

  
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